Tra i vicoli dell'antico quartiere di Gion, nel cuore dell'antica Kyoto, tante le storie delle fantomatiche creature che sono le geishe si raccontano ancor oggi.
Tra queste una delle favorite sia tra le okasan sia tra le giovanissime maiko e persino tra le più rinomate geiko è quella che racconta la favolosa storia della misteriosa "geisha dai capelli di fuoco".
Se la conclusione di quella che ormai è indicata come una leggenda varia da chi di volta in volta segue la narrazione, l'inizio è sempre lo stesso...
1) I sakura erano in fiori e l'aria ebbra dei loro colori e dei loro profumi. Un sole arancione dipingeva del suo sanguigno colore la cima innevata del Fujiyama scandendo l'ora del tramonto.
Per le vie di Gion, il più famoso kagai di Kyoto, i businessmen si accalcavano per raggiungere le ochaya e trascorrere una serata in allegria, bevendo, mangiando piatti tradizionali e gioendo della compagnia delle più belle geiko - il modo in cui le geishe di Kyoto si riferivano a loro stesse - di Gion.
Le vie, strette e sovrastate da tetti spioventi di tegole color ardesia, erano affollate di persone. Dagli alti cancelli delle okiya provenivano le voci garrule delle geiko, intente a prepararsi.
Le giovani maiko si affaccendavano intorno alle "sorelle maggiori", aiutandole a stringere gli obi o porgendo loro preziosi fermargli per capelli.
Silenziose poi le giovani donne uscivano e si dirigevano verso le rispettive okaya.
Quella sera le geiko erano particolarmente eccitate, perché alcune maiko avevano appena completato il loro percorso e avevano appena passato la cerimonia dell'erikae, ovvero avevano cambiato il colletto dei loro kimono da rosso a bianco, divenendo a tutti gli effetti delle geishe.
La luce dorata del tramonto primaverile rendeva tutta l'area soffusa di un alone quasi mistico.
Due giovani geishe, Makiko e la sua amica Kimika, stavano attraversando la strada quando videro un gruppetto di loro colleghe che si erano attardate e sembravano intente a guardare qualcosa.
"Andiamo a vedere", propose Kimika, afferrando l'amica per la manica del kimono e cominciando a tirarla verso le altre. Makiko cercò di opporre resistenza ma alla fine la curiosità vinse e seguì l'amica senza opporre resistenza.
Raggiunsero le altre e si fecero strada, fino a che riuscirono ad intravedere l'oggetto dell'interesse delle altre geiko. Alle loro orecchie giunsero mormorii stupiti.
Davanti ad una vecchia okiya si era fermato un carro e alcuni facchini stavano scaricando mobili e suppellettili. Le ragazze rabbrividirono di paura: quella casa era disabitata e chiusa da almeno mezzo secolo e aveva la fama di essere infestata dai fantasmi della okasan e della geiko che vi avevano vissuto e che al suo interno erano morte in modo misterioso. C'era chi sosteneva che in alcune notti dell'anno si potessero udire i passi delle due donne percorrere i corridoi e c'era chi sosteneva di aver visto la geiko passeggiare, nelle notti di luna piena, per il giardino. «Era una fanciulla bellissima - sostenevano coloro che l'avevano intravista -. Pelle color dell'alabastro e occhi simili a perle dorate. I capelli, i capelli erano il suo tratto distintivo: simili al fuoco per colore e sembrava che fossero dotati di vita propria».
La sorte della poverina era stata infausta, dicevano le cronache: una notte dei ladri si erano introdotti nella okiya e avevano ammazzato entrambe. «Da allora i loro spiriti sono rimasti intrappolati in quella casa - era il modo in cui i vecchi concludevano la storia -. É pericoloso avventurarsi entro quelle mura, che tanto dolore hanno sopportato. É meglio starvi lontano»·.
Le maiko e le geiko obbedivano a quelle parole e stavano lontane dalla casa della geisha dai capelli di fuoco, ma ora ciò cui stavano assistendo aveva dell'incredibile. Qualcuno aveva intenzione di andarvi a vivere. Per loro era un evento al limite del sacrilegio. Si guardavano tra loro, pallide sotto la maschera bianca del loro trucco, indecise sul da farsi...ma era tardi e il dovere le attendeva, così le belle artiste di Gion si ritrovarono di nuovo in strada dirette alle case da tea, dove facoltosi politici e uomini d'affari le attendevano, per godere della loro abilità oratoria, delle loro danze e delle melodie che sapevano trarre dagli shamisen.
Mentre le geiko tornavano alla loro vita all'interno del protetto mondo del salice e del fiore, i due facchini terminavano di portare dentro la okiya i due bauli, un enorme armadio e qualche altro complemento d'arredo.
Dietro di loro la notte cominciava a prendere possesso del quartiere e della città. Un vento freddo si era d'improvviso levato a scompigliare le chiome color rosa dei ciliegi in fiore.
«Muoviamoci - disse quello più anziano -. Non mi piace quest'atmosfera lugubre». Il giovane ribatté che dovevano attendere che i nuovi proprietari della casa arrivassero, secondo quanto avevano pattuito. «Altrimenti non saremo pagati», concluse lanciando un'occhiata al vecchio.
Aveva appena finito di parlare quando sentirono un fruscio e, girandosi, si trovarono di fronte un giovane uomo, dai tratti occidentali, ben vestito. «Spero che non mi stiate attendendo da molto - disse loro in giapponese -. Purtroppo sono da poco giunto a Kyoto e ancora non mi so orientare bene».
I due uomini scossero la testa, era la prima volta che udivano uno straniero esprimersi in modo così perfetto nella loro lingua. Si inchinarono rispettosamente e dissero che il lavoro era stato completato secondo i suoi ordini. I mobili erano stati sistemati nei punti della casa da lui indicati.
Il misterioso occidentale sorrise e, dalla giacca trasse un mazzetto di banconote. Ne contò una decina, ne aggiunse altre cinque e le infine le porse all'anziano. «Un piccolo extra, per il vostro silenzio - disse mentre il denaro passava di mano -. Non voglio che alcuno sappia dove sono. Questo sarà il mio buen ritiro. Non parlate con nessuno del lavoro che avete fatto per me quest'oggi, o avrete da pentirvene». Quelli si inchinarono nuovamente, mormorarono qualche parole di rassicurazione e scapparono via. L'espressione dell'uomo li aveva terrorizzati più delle sue parole.
Il misterioso visitatore osservò l'antica okiya, poi mormorò «Tsuini geisha kami no kasai no ie ni kite, watashi no kenkyu wa, saigo in kite iru» (Sono infine giunto alla casa della geisha dai capelli di fuoco, la mia ricerca è giunta al termine).
Varcò la soglia e rimirò il giardino sotto la luce della luna. Pur nello stato di abbandono, riusciva a trasmettergli un senso di pace. Salì i gradini e fece scivolare la porta, il silenzio era assoluto intorno a lui. «Sono venuto per voi», disse a mezza voce, rivolto al buio. «E non ho intenzione di rinunciare ad incontrarvi».
Sapeva che le sue parole potevano suonare baldanzose ed arroganti, ma era così: da che qualcuno in uno dei villaggi compresi tra Tokyo e Kyoto gli aveva raccontato quella leggenda aveva sentito qualcosa dentro l'animo smuoversi. Dopo anni di apatia, quella strana storia aveva acceso in lui una curiosità morbosa. Aveva speso settimane nella ricerca della abbandonata okiya e aveva fatto l'impossibile per poterla comprare. Ora era sua e avrebbe fatto in modo di incontrare la misteriosa fanciulla, la geisha dai capelli di fuoco.
Attraversò le stanze, notando come tutto fosse pulito. Se, come gli avevano raccontato i tecnici del comune da cui aveva potuto comprare quel piccolo gioiello architettonico, era disabitata da almeno mezzo secolo avrebbe dovuto essere ricoperta di polvere.
Uscì di nuovo sul piccolo patio e lanciò un'occhiata alla luna. La notte era appena cominciata. Da una valigia trasse fuori una fiaschetta, ne svitò il tappo e bevve un lungo sorso. Un rivolo di un rosso scuro scivolò fuori e macchiò la sua camicia di seta. Imprecò tra sé e bevve un'altra sorsata.
Sentendosi ritemprato, rientrò in casa e si preparò. Si spogliò degli abiti occidentali e indossò uno yukata nero dai ricami d'argento. Sollevò, senza fatica, quello che i facchini avevano creduto fosse un armadio e lo adagiò in mezzo alla stanza. Dal baule prese una candela e un libro di haiku, acquistato tempo addietro in un mercatino di Hokkaido.
Utilizzando un acciarino, accese la candela e cominciò a declamare, a voce alta, le poesie. Per fortuna del misterioso nuovo inquilino della okiya, la musica e le risa dell'hanamachi di Gion coprirono la sua voce.
Andò avanti per buona parte della notte a leggere ma nessuna fanciulla dai capelli color del fuoco e gli occhi color dell'oro fece la sua comparsa.
Poco prima del sorgere del sole chiuse le porte e aprì l'enorme bara che aveva sistemato per terra la notte prima. Era di un bel legno scuro, lucida e l'interno rivestito di morbida sera scarlatta. Si chiuse il coperchio sopra la testa e lentamente sprofondò in un sonno simile alla morte.
L'uomo, proveniente da impervie regioni dell'occidente, sorrise nel suo nascondiglio e per un fugace momento i suoi denti acuminati brillarono. «Sarete mia, misteriosa dama dai capelli di fiamma. Sarete mia, per l'eternità».
2) La notizia che un nuovo inquilino si era stabilito nella okiya abbandonata fece il giro delle case da tea e delle okiya in pochissime ore. Le okasan disapprovarono la decisione delle autoritá di vendere la casa appartenuta alla Geisha no kami no kasai e per di piú ad uno straniero. «Dove andrá a finire Gion se la prefettura si permette di vendere le okiya senza consultarci», si lamentó la okasan della bella Chamoko, la geiko piú ricercata della Città.
L'anziana batté la pipa sul tavolo e si rivolse alla giovane donna, che la ascoltava bevendo una tazza di tea. «Questa sera hai appuntamento con il Grande Direttore, vero?", le chiese. Chamoko annuí. «Bene. Allora, con molta grazia, gli devi domandare di intervenire. Non é lecito che ci venga fatto questo torto. E non per una okiya qualunque ma per quella».
Chamoko chinò il capo in segno di rispetto e promise che avrebbe chiesto l'aiuto del suo Danna, uno degli uomini più potenti di Kyoto, perché lo straniero venisse rimesso al suo posto.
La sera sorse, tiepida e profumata dopo una giornata ventosa ed irrequieta.
Le ochaya aprirono le loro porte alle artiste e ai loro accompagnatori. Qualcuno, tra i pochi uomini ammessi in quel mondo quasi interamente femminile, decise di andare a vedere cosa stesse succedendo tra le mura della casa della sofferenza, un tempo nota come Okiya del Sole. Reggendo piccole torce lo sparuto gruppetto si avvicinò, cercando di sbirciare tra le assi sconnesse del vecchio cancello di legno. Poterono solo scorgere la fiamma di un lumicino e l'ombra di un uomo, alto e imponente, muoversi per la stanza. D'improvviso un vento gelido si alzò e una folata spense le loro fiammelle, rimasti al buio i poveri giovani furono attraversati da brividi di paura. Prima che potessero allontanarsi, una voce profonda li sorprese: «Cosa vi porta a spiare al mio uscio?». Alzarono lo sguardo e videro un giovane di bell'aspetto, avvolto in uno yukata nero di foggia elaborata, che li osservava dal muro di cinta. Nella mano destra reggeva una katana e negli occhi poterono scorgere un'espressione adirata. Cercarono di inchinarsi e di battere in ritirata ma lo sconosciuto li fermò. «Non così in fretta». Saltò in terra, bloccando loro la via di fuga. I suoi occhi li tenevano incatenati quanto la minaccia della sua spada. Lo guardavano tremanti e, gettandosi in terra, implorarono la sua clemenza. Quello li osservò con disprezzo e poi si mosse, veloce come un soffio di vento. La katana lampeggiò e gli uomini caddero a terra, feriti e sanguinanti. «Questa notte vi ho dimostrato la mia clemenza, che non vi riveda intorno alla mia magione. La prossima volta non vi risparmierò». Traendo dalla manica del kimono un fazzoletto candido, ripulì la lama della katana e poi lo gettò loro. «Mi aspetto di riaverlo indietro, pulito», aggiunse. Gli uomini annuirono, uno afferrò il pregiato quadrato di stoffa e lo ripose nella tasca interna del suo yukata assicurando che l'avrebbe avuto indietro entro pochi giorni. Sorreggendosi a vicenda si allontanarono, sotto lo sguardo severo del misterioso straniero. Non avevano mai incontrato un gaikogujin che parlasse così bene la loro lingua e sapesse maneggiare la katana come un samurai. «Ditelo a tutti, che non devo essere disturbato - la voce dell'uomo li raggiunse nella testa, come portata dal vento».
Quando furono spariti dalla vista, il giovane nobile alzò lo sguardo alla luna e emise quello che doveva essere un sospiro. Si incamminò, trasformandosi in una nuvola color argento e riapparendo in casa.
«Perdonatemi, mia cara - disse, rivolgendosi al silenzio -. Importuni». Si sedette al tavolo, aprì il libro di haiku e riprese a leggere. «Sono certo che questo lo potrete apprezzare». Si schiarì la voce e recitò. «Mi porta da te un impervio sentiero lo percorrerò».
Tacque e lasciò i pensieri liberi, cercando nello spazio della casa e del giardino la presenza della donna.
All'improvviso udì un lieve sospiro, proveniente dal piano superiore. Scattò in piedi e si scapicollò per le scale, seguendo quel libere suono nella sua mente. Raggiunse una piccola botola di legno rinforzata da un reticolo di metallo brillante e chiusa da un lucchetto d'argento.
Il vampiro ristette e arretrò di un passo. Il lampeggio di quell'oggetto, che lo separava da colei che in quel momento desiderava, gli ferì gli occhi e sentì la collera salire. Si accorse di aver abbandonato la katana al piano inferiore e fece per tornare indietro ma vide una figura curva e scura bloccargli la via. «Spostatevi», ringhiò mentre sentiva i denti crescevano e sentiva i muscoli tendersi.
La donna scosse la testa, la lunghissima chioma candida ondeggiò e avanzò di un passo. «Andatevene da questa casa maledetta», disse con voce gelida, «Non è posto per voi, questo. Questo è un luogo di sofferenza. Colei che voi cercate non è per voi. Lasciatevi alle spalle le vostre stupide elucubrazioni e tornate alla vostra vita».
All'udire quelle parole, l'uomo scoppiò in una risata. «La sofferenza per me è pane quotidiano - le rispose l'uomo, mostrandole il suo vero volto -. Non sapete di cosa state cianciando e ora vecchia, se non volete assaggiare la mia rabbia, levatevi di mezzo».
La figura si fece più vicino, sembrava muoversi sospesa nell'aria e poi scattò in avanti. Le mani ad artiglio, con lunghe unghie nere e ricurve. Il vampiro la evitò, trasformando il suo corpo in nebbia. Approfittando della forma incorporea, raggiunse il piano terra e recuperò la katana.
Lo raggiunse un lamento soffocato, la disperazione e l'impotenza racchiuso in esso lo colpì nel profondo. «Mia geisha dai capelli di fiamma - mormorò - sto venendo da voi. Presto sarete libera».
Ritornò alla stanza e trovò la megera, il fantasma della okasan che aveva imprigionato la Geisha dai capelli di fuoco in quel luogo di eterno dolore, seduta sulla botola.
Con voce malinconica, la donna si rivolse al vampiro. «L'accolsi in casa, venuta dal nulla. Mai avevo veduto prima di quella sera una fanciulla più bella di lei. Pelle candida, occhi simili ad oro fuso, capelli come fiamma viva. Era debole e triste, un esserino senza passato e senza futuro. Non ebbi cuore di mandarla via e decisi che ne avrei fatto una geisha».
Si zittì, forse ripensando al passato. «Ero stata io stessa una geisha da giovane e la mia okasan mi aveva adottato e lasciato la okiya, ma quando avevo deciso di ritirarmi non avevo travato nessuna giovanetta cui trasmettere il mio sapere. Lei mi pareva un dono del cielo».
Da sotto il legno si udì un suono secco, come se qualcuno stesse cercando di grattare le spesse assi.
«Si dimostrò degna della mia fiducia, imparava in fretta e bene. Era tra le migliori del suo corso. Ero così fiera. Poi cominciai a notare le sue stranezze: Quando usciva prima del tramonto si copriva sempre viso e mani, durante il giorno appariva debole e svogliata e solo alla sera diventava la ragazza allegra cui avevo imparato a voler bene. Poi scoprii, a poche settimane dal suo erikae, la verità. Era già famosa qui a Gion con il nomignolo di Geisha dai capelli di fuoco e questa okiya era nota come Okiya del Sole». Tacque di nuovo e il suo avversario le fece un cenno perché proseguisse.
«Non era umana, non come voi e me - urlò la vecchia con rabbia, mentre il suo viso mutava in una maschera da Grand Guignol -. In tutti quegli anni aveva tenuto nascosto la sua vera natura. Quando la vidi, la prima volta, azzannare alla gola un cliente e succhiargli via la vita e il vigore, seppi che ero perduta per sempre. La obbligai a raccontarmi la verità».
Il vampiro non poté fare a meno di sorridere a quelle parole, il suo intuito non aveva sbagliato. Il suo istinto, che l'aveva spinto fino laggiù, aveva saputo fin dall'inizio la verità.
«Da allora cercai di impedirle, in ogni modo, di cacciare a Gion, di uccidere innocenti ma senza successo. Lei si limitava a dire che era la sua natura e come tale non poteva cambiare. Mi ricordo ancora quella terribile frase, che mi disse quella sera. Umani, mortali, per noi siete solo cibo. Decisi che era il momento di fermarla e l'ho fatto come potevo».
Indicò la botola. «L'ho rinchiusa là dentro e implorai gli dei di farmi sua custode. Avrei dovuto cercare di ucciderla ma non ce l'ho fatta, in fondo è la mia bambina. In questi anni l'ho nutrita il minimo perché non morisse. Poi siete arrivato voi e ora son costretta a cambiare i miei piani. Prima mi libererò di voi e poi di lei, per l'eternità. Infine anche io avrò il mio giusto riposo».
Il visitatore rise, «Potete anche scordarvelo, di ucciderla ma io mi occuperò di darvi il giusto riposo». Prima che la vecchia potesse agire, scattò in avanti e affondò la katana. Con un singulto sorpreso, la okasan si dissolse in polvere e di lei non rimase che il suo kimono a brandelli. Lo sollevò con la punta della spada e lo gettò lontano, poi si inginocchiò sopra la botola. «Ancori pochi secondi, mia cara, e sarete libera».
Si alzò in piedi e menò un fendente al lucchetto, che era d'improvviso arrugginito mostrando i segni dei decenni, mandandolo in pezzi. Senza sforzo sollevò la botola e la vide: il viso mostrava appena i segni della prigionia, gli occhi socchiusi e le labbra esangui. La chioma rossa avvolgeva il corpo come un sudario. La sollevò senza fatica. «Ora siete libera e al sicuro». Lei lo guardò con uno strano bagliore negli occhi. Lui la portò di sotto e l'adagiò nella bara, «Aspettatemi qui». Si dissolse e dopo poco riapparve. Tra le mani stringeva uno degli uomini che poche ore prima era venuto a spiarlo. «Un volontario, per il vostro nutrimento», le disse costringendo l'uomo a inginocchiarsi offrendo la gola alla donna. La geisha annusò il collo dell'uomo e si leccò le labbra, che ancora recavano tracce di rossetto. La testa si mosse veloce, chinandosi sul collo dell'uomo. I denti, lunghi e acuminati, lacerarono la pelle e cominciò a suggere il prezioso liquido rosso. L'uomo gemette, un misto di dolore e piacere, prima di perdere i sensi. Nemmeno si rese conto della vita che scivolava via.
Quando esalò l'ultimo respiro, la donna si ritrasse. Alcune gocce di sangue imporporavano le labbra e un rivoletto era sfuggito dall'angolo destro ma lei fu lesta a pulirlo.
Fu solo a quel punto che alzò nuovamente gli occhi verso il suo salvatore. «Vi sono debitrice», mormorò in giapponese. «No - disse lui, inginocchiandosi davanti a lei -. Io sono vostro debitore. Il desiderio di trovarvi ha risvegliato nel mio animo la perduta voglia di essere ancora su questa terra. Io vi ringrazio».
Lei abbassò gli occhi, le labbra arricciate in un sorriso delicato.
«Mi avete salvata da una morte eterna, non potrò mai sdebitarmi», aggiunse lei.
«Non dovete farlo. Ciò che ho fatto - si zittì per un momento -...L'egoismo mi ha spinto a venirvi a cercare, l'egoismo che vi voleva per sé. Non dovete sdebitarvi, vi chiedo solo di restare al mio fianco. Voi siete il più prezioso fiore che questa non vita potesse regalarmi. Potete accontentarmi?».
La misteriosa Geisha dai capelli di fuoco assentì, poi cercò di sollevarsi e lui si mosse per aiutarla, il kimono con cui era stata sepolta viva era ridotto a brandelli ma il suo corpo era coperto dai riccioli rossi. «Dobbiamo andarcene - disse lei -. Questa okiya era sotto un incantesimo, fino a che io fossi rimasta prigioniera e la okasan si fosse occupata di me, il tempo non sarebbe trascorso entro queste mura. Ma voi avete spezzato l'incanto...». Indicò la stanza: la polvere copriva i mobili, la carta di riso delle porte si era consumata e il legno mostrava i segni dei tarli. «Dobbiamo andarcene», fu la risposta di lui. La luna illuminava il cielo ancora scuro. Forse avevano ancora qualche ora prima del sorgere del sole, poi avrebbero dovuto trovare un rifugio per trascorrere le ore diurne.
«Avete fiducia in me?», chiese lui senza preavviso e lei non seppe far altro che chinare la testa. Non poteva far altro che affidarsi a lui, era stata prigioniera per oltre mezzo secolo. Ignorava come il mondo fosse diventato, come il quartiere dove aveva vissuto si fosse trasformato. Ma era anche curiosa. Gli anni in cui la okasan l'aveva tenuta rinchiusa non avevano minato del tutto il suo spirito e la sua natura predatrice.
«Come vi posso chiamare?», le chiese. «Io sono Dougal Conall Duff Keith ma i più preferiscono chiamarmi solo Conall». La dama chiuse gli occhi, cercando di ricordare il suo nome. «La okasan mi chiamava Akane, che significa "profondo rosso" per il colore dei miei capelli, e il mio nome da geisha dovrebbe essere Aimi, che vuol dire "bellezza"». Tacque. «Due nomi che si addicono a voi. Penso che vi chiamerò Aimi, se per voi va bene», commentò Conall e la geiko rispose di nuovo con un cenno del capo.
Un tonfo sordo attirò la loro attenzione: un pezzo del tetto era caduto a terra. La okiya cominciava a cedere. «Dobbiamo andarcene» - disse l'uomo, afferrandola per una mano ma Aimi si indicò e lui si rese conto che era vestita solo dei suoi capelli. «Per quanto possa apprezzare lo stile Lady Godiva - fece lui, cercando di apparire allegro -, forse questo non è il momento migliore per sfoggiarlo». Afferrò uno dei suoi yukata e lo fece indossare ad Aimi, che lo accomodò intorno al corpo esile. «Con estremo rammarico - aggiunse ancora lui sfoderando la spada - vi chiedo il permesso di tagliare di qualche centimetro la vostra chioma. Per rendervi più agevole il cammino».
Aimi si limitò a sorridere ed offrì i capelli al suo misterioso salvatore. Con un colpo preciso, Conall li recise appena sotto il sedere di lei. Osservò con soddisfazione il risultato, poi si affrettò a mettere insieme i suoi oggetti personali e, di nuovo le offrì la mano. «L'alba giungerà presto e dobbiamo affrettarci per trovare un posto dove trascorrere il diurno. La prossima notte organizzerò il nostro ritorno nella mia patria...e vi procurerò i più bei kimono che abbiate mai visto. Prima di andare, un ultimo tocco». Prese uno spesso scialle e lo drappeggiò intorno al capo di lei, nascondendo la chioma di fuoco. «Per la vostra sicurezza, mylady».
Un cigolio potente anticipò di pochi secondi la caduta di una trave di legno, che li mancò di pochi centimetri. Si guardarono un'ultima volta prima di incamminarsi verso il cancello e da lì si lasciarono alle spalle Gion e il suo magico mondo del salice e del fiore.
Conall trovò un hotel dove poterono rifugiarsi e, appena sorse la luna, fece un paio di telefonate organizzando il ritorno in Europa per lui e per la sua misteriosa accompagnatrice. Grazie alle sue conoscenze locali, ottenne in pochi giorni un passaporto per la ragazza, che ad ogni nuova notte imparava qualcosa di più su come il mondo si era trasformato durante la sua prigionia.
«Siete felice?», le domandò una notte mentre ritornavano in hotel dopo una notte di caccia. I sensi ebbri dei sapori e dei rumori della città, Aimi rispose «Non penso di esser mai stata così felice prima di ora. Non ho quasi ricordi del tempo in cui sono stata una geisha. É morto, insieme alla okasan».
Sui giornali di Kyoto, per qualche giorno, molto risalto ebbe la notizia della scoperta che l'antica Okiya del Sole era crollata in modo misterioso e la leggendaria storia della Geisha no kami no kasai tornò alla ribalta.
Nonostante la rinnovata notorietà della storia di Aimi, con tanto di foto sue apparse sui giornali, nessuno fece caso alla donna dai lunghi capelli rossi raccolti a treccia ed abbigliata con moderni abiti di foggia occidentale, che una notte si imbarcò sul piroscafo diretto a New York in compagnia di un aitante giovane uomo abbigliato in modo altrettanto elegante.
Tra queste una delle favorite sia tra le okasan sia tra le giovanissime maiko e persino tra le più rinomate geiko è quella che racconta la favolosa storia della misteriosa "geisha dai capelli di fuoco".
Se la conclusione di quella che ormai è indicata come una leggenda varia da chi di volta in volta segue la narrazione, l'inizio è sempre lo stesso...
Per le vie di Gion, il più famoso kagai di Kyoto, i businessmen si accalcavano per raggiungere le ochaya e trascorrere una serata in allegria, bevendo, mangiando piatti tradizionali e gioendo della compagnia delle più belle geiko - il modo in cui le geishe di Kyoto si riferivano a loro stesse - di Gion.
Le vie, strette e sovrastate da tetti spioventi di tegole color ardesia, erano affollate di persone. Dagli alti cancelli delle okiya provenivano le voci garrule delle geiko, intente a prepararsi.
Le giovani maiko si affaccendavano intorno alle "sorelle maggiori", aiutandole a stringere gli obi o porgendo loro preziosi fermargli per capelli.
Silenziose poi le giovani donne uscivano e si dirigevano verso le rispettive okaya.
Quella sera le geiko erano particolarmente eccitate, perché alcune maiko avevano appena completato il loro percorso e avevano appena passato la cerimonia dell'erikae, ovvero avevano cambiato il colletto dei loro kimono da rosso a bianco, divenendo a tutti gli effetti delle geishe.
La luce dorata del tramonto primaverile rendeva tutta l'area soffusa di un alone quasi mistico.
Due giovani geishe, Makiko e la sua amica Kimika, stavano attraversando la strada quando videro un gruppetto di loro colleghe che si erano attardate e sembravano intente a guardare qualcosa.
"Andiamo a vedere", propose Kimika, afferrando l'amica per la manica del kimono e cominciando a tirarla verso le altre. Makiko cercò di opporre resistenza ma alla fine la curiosità vinse e seguì l'amica senza opporre resistenza.
Raggiunsero le altre e si fecero strada, fino a che riuscirono ad intravedere l'oggetto dell'interesse delle altre geiko. Alle loro orecchie giunsero mormorii stupiti.
Davanti ad una vecchia okiya si era fermato un carro e alcuni facchini stavano scaricando mobili e suppellettili. Le ragazze rabbrividirono di paura: quella casa era disabitata e chiusa da almeno mezzo secolo e aveva la fama di essere infestata dai fantasmi della okasan e della geiko che vi avevano vissuto e che al suo interno erano morte in modo misterioso. C'era chi sosteneva che in alcune notti dell'anno si potessero udire i passi delle due donne percorrere i corridoi e c'era chi sosteneva di aver visto la geiko passeggiare, nelle notti di luna piena, per il giardino. «Era una fanciulla bellissima - sostenevano coloro che l'avevano intravista -. Pelle color dell'alabastro e occhi simili a perle dorate. I capelli, i capelli erano il suo tratto distintivo: simili al fuoco per colore e sembrava che fossero dotati di vita propria».
La sorte della poverina era stata infausta, dicevano le cronache: una notte dei ladri si erano introdotti nella okiya e avevano ammazzato entrambe. «Da allora i loro spiriti sono rimasti intrappolati in quella casa - era il modo in cui i vecchi concludevano la storia -. É pericoloso avventurarsi entro quelle mura, che tanto dolore hanno sopportato. É meglio starvi lontano»·.
Le maiko e le geiko obbedivano a quelle parole e stavano lontane dalla casa della geisha dai capelli di fuoco, ma ora ciò cui stavano assistendo aveva dell'incredibile. Qualcuno aveva intenzione di andarvi a vivere. Per loro era un evento al limite del sacrilegio. Si guardavano tra loro, pallide sotto la maschera bianca del loro trucco, indecise sul da farsi...ma era tardi e il dovere le attendeva, così le belle artiste di Gion si ritrovarono di nuovo in strada dirette alle case da tea, dove facoltosi politici e uomini d'affari le attendevano, per godere della loro abilità oratoria, delle loro danze e delle melodie che sapevano trarre dagli shamisen.
Mentre le geiko tornavano alla loro vita all'interno del protetto mondo del salice e del fiore, i due facchini terminavano di portare dentro la okiya i due bauli, un enorme armadio e qualche altro complemento d'arredo.
Dietro di loro la notte cominciava a prendere possesso del quartiere e della città. Un vento freddo si era d'improvviso levato a scompigliare le chiome color rosa dei ciliegi in fiore.
«Muoviamoci - disse quello più anziano -. Non mi piace quest'atmosfera lugubre». Il giovane ribatté che dovevano attendere che i nuovi proprietari della casa arrivassero, secondo quanto avevano pattuito. «Altrimenti non saremo pagati», concluse lanciando un'occhiata al vecchio.
Aveva appena finito di parlare quando sentirono un fruscio e, girandosi, si trovarono di fronte un giovane uomo, dai tratti occidentali, ben vestito. «Spero che non mi stiate attendendo da molto - disse loro in giapponese -. Purtroppo sono da poco giunto a Kyoto e ancora non mi so orientare bene».
I due uomini scossero la testa, era la prima volta che udivano uno straniero esprimersi in modo così perfetto nella loro lingua. Si inchinarono rispettosamente e dissero che il lavoro era stato completato secondo i suoi ordini. I mobili erano stati sistemati nei punti della casa da lui indicati.
Il misterioso occidentale sorrise e, dalla giacca trasse un mazzetto di banconote. Ne contò una decina, ne aggiunse altre cinque e le infine le porse all'anziano. «Un piccolo extra, per il vostro silenzio - disse mentre il denaro passava di mano -. Non voglio che alcuno sappia dove sono. Questo sarà il mio buen ritiro. Non parlate con nessuno del lavoro che avete fatto per me quest'oggi, o avrete da pentirvene». Quelli si inchinarono nuovamente, mormorarono qualche parole di rassicurazione e scapparono via. L'espressione dell'uomo li aveva terrorizzati più delle sue parole.
Il misterioso visitatore osservò l'antica okiya, poi mormorò «Tsuini geisha kami no kasai no ie ni kite, watashi no kenkyu wa, saigo in kite iru» (Sono infine giunto alla casa della geisha dai capelli di fuoco, la mia ricerca è giunta al termine).
Varcò la soglia e rimirò il giardino sotto la luce della luna. Pur nello stato di abbandono, riusciva a trasmettergli un senso di pace. Salì i gradini e fece scivolare la porta, il silenzio era assoluto intorno a lui. «Sono venuto per voi», disse a mezza voce, rivolto al buio. «E non ho intenzione di rinunciare ad incontrarvi».
Sapeva che le sue parole potevano suonare baldanzose ed arroganti, ma era così: da che qualcuno in uno dei villaggi compresi tra Tokyo e Kyoto gli aveva raccontato quella leggenda aveva sentito qualcosa dentro l'animo smuoversi. Dopo anni di apatia, quella strana storia aveva acceso in lui una curiosità morbosa. Aveva speso settimane nella ricerca della abbandonata okiya e aveva fatto l'impossibile per poterla comprare. Ora era sua e avrebbe fatto in modo di incontrare la misteriosa fanciulla, la geisha dai capelli di fuoco.
Attraversò le stanze, notando come tutto fosse pulito. Se, come gli avevano raccontato i tecnici del comune da cui aveva potuto comprare quel piccolo gioiello architettonico, era disabitata da almeno mezzo secolo avrebbe dovuto essere ricoperta di polvere.
Uscì di nuovo sul piccolo patio e lanciò un'occhiata alla luna. La notte era appena cominciata. Da una valigia trasse fuori una fiaschetta, ne svitò il tappo e bevve un lungo sorso. Un rivolo di un rosso scuro scivolò fuori e macchiò la sua camicia di seta. Imprecò tra sé e bevve un'altra sorsata.
Sentendosi ritemprato, rientrò in casa e si preparò. Si spogliò degli abiti occidentali e indossò uno yukata nero dai ricami d'argento. Sollevò, senza fatica, quello che i facchini avevano creduto fosse un armadio e lo adagiò in mezzo alla stanza. Dal baule prese una candela e un libro di haiku, acquistato tempo addietro in un mercatino di Hokkaido.
Utilizzando un acciarino, accese la candela e cominciò a declamare, a voce alta, le poesie. Per fortuna del misterioso nuovo inquilino della okiya, la musica e le risa dell'hanamachi di Gion coprirono la sua voce.
Andò avanti per buona parte della notte a leggere ma nessuna fanciulla dai capelli color del fuoco e gli occhi color dell'oro fece la sua comparsa.
Poco prima del sorgere del sole chiuse le porte e aprì l'enorme bara che aveva sistemato per terra la notte prima. Era di un bel legno scuro, lucida e l'interno rivestito di morbida sera scarlatta. Si chiuse il coperchio sopra la testa e lentamente sprofondò in un sonno simile alla morte.
L'uomo, proveniente da impervie regioni dell'occidente, sorrise nel suo nascondiglio e per un fugace momento i suoi denti acuminati brillarono. «Sarete mia, misteriosa dama dai capelli di fiamma. Sarete mia, per l'eternità».
L'anziana batté la pipa sul tavolo e si rivolse alla giovane donna, che la ascoltava bevendo una tazza di tea. «Questa sera hai appuntamento con il Grande Direttore, vero?", le chiese. Chamoko annuí. «Bene. Allora, con molta grazia, gli devi domandare di intervenire. Non é lecito che ci venga fatto questo torto. E non per una okiya qualunque ma per quella».
Chamoko chinò il capo in segno di rispetto e promise che avrebbe chiesto l'aiuto del suo Danna, uno degli uomini più potenti di Kyoto, perché lo straniero venisse rimesso al suo posto.
La sera sorse, tiepida e profumata dopo una giornata ventosa ed irrequieta.
Le ochaya aprirono le loro porte alle artiste e ai loro accompagnatori. Qualcuno, tra i pochi uomini ammessi in quel mondo quasi interamente femminile, decise di andare a vedere cosa stesse succedendo tra le mura della casa della sofferenza, un tempo nota come Okiya del Sole. Reggendo piccole torce lo sparuto gruppetto si avvicinò, cercando di sbirciare tra le assi sconnesse del vecchio cancello di legno. Poterono solo scorgere la fiamma di un lumicino e l'ombra di un uomo, alto e imponente, muoversi per la stanza. D'improvviso un vento gelido si alzò e una folata spense le loro fiammelle, rimasti al buio i poveri giovani furono attraversati da brividi di paura. Prima che potessero allontanarsi, una voce profonda li sorprese: «Cosa vi porta a spiare al mio uscio?». Alzarono lo sguardo e videro un giovane di bell'aspetto, avvolto in uno yukata nero di foggia elaborata, che li osservava dal muro di cinta. Nella mano destra reggeva una katana e negli occhi poterono scorgere un'espressione adirata. Cercarono di inchinarsi e di battere in ritirata ma lo sconosciuto li fermò. «Non così in fretta». Saltò in terra, bloccando loro la via di fuga. I suoi occhi li tenevano incatenati quanto la minaccia della sua spada. Lo guardavano tremanti e, gettandosi in terra, implorarono la sua clemenza. Quello li osservò con disprezzo e poi si mosse, veloce come un soffio di vento. La katana lampeggiò e gli uomini caddero a terra, feriti e sanguinanti. «Questa notte vi ho dimostrato la mia clemenza, che non vi riveda intorno alla mia magione. La prossima volta non vi risparmierò». Traendo dalla manica del kimono un fazzoletto candido, ripulì la lama della katana e poi lo gettò loro. «Mi aspetto di riaverlo indietro, pulito», aggiunse. Gli uomini annuirono, uno afferrò il pregiato quadrato di stoffa e lo ripose nella tasca interna del suo yukata assicurando che l'avrebbe avuto indietro entro pochi giorni. Sorreggendosi a vicenda si allontanarono, sotto lo sguardo severo del misterioso straniero. Non avevano mai incontrato un gaikogujin che parlasse così bene la loro lingua e sapesse maneggiare la katana come un samurai. «Ditelo a tutti, che non devo essere disturbato - la voce dell'uomo li raggiunse nella testa, come portata dal vento».
Quando furono spariti dalla vista, il giovane nobile alzò lo sguardo alla luna e emise quello che doveva essere un sospiro. Si incamminò, trasformandosi in una nuvola color argento e riapparendo in casa.
«Perdonatemi, mia cara - disse, rivolgendosi al silenzio -. Importuni». Si sedette al tavolo, aprì il libro di haiku e riprese a leggere. «Sono certo che questo lo potrete apprezzare». Si schiarì la voce e recitò. «Mi porta da te un impervio sentiero lo percorrerò».
Tacque e lasciò i pensieri liberi, cercando nello spazio della casa e del giardino la presenza della donna.
All'improvviso udì un lieve sospiro, proveniente dal piano superiore. Scattò in piedi e si scapicollò per le scale, seguendo quel libere suono nella sua mente. Raggiunse una piccola botola di legno rinforzata da un reticolo di metallo brillante e chiusa da un lucchetto d'argento.
Il vampiro ristette e arretrò di un passo. Il lampeggio di quell'oggetto, che lo separava da colei che in quel momento desiderava, gli ferì gli occhi e sentì la collera salire. Si accorse di aver abbandonato la katana al piano inferiore e fece per tornare indietro ma vide una figura curva e scura bloccargli la via. «Spostatevi», ringhiò mentre sentiva i denti crescevano e sentiva i muscoli tendersi.
La donna scosse la testa, la lunghissima chioma candida ondeggiò e avanzò di un passo. «Andatevene da questa casa maledetta», disse con voce gelida, «Non è posto per voi, questo. Questo è un luogo di sofferenza. Colei che voi cercate non è per voi. Lasciatevi alle spalle le vostre stupide elucubrazioni e tornate alla vostra vita».
All'udire quelle parole, l'uomo scoppiò in una risata. «La sofferenza per me è pane quotidiano - le rispose l'uomo, mostrandole il suo vero volto -. Non sapete di cosa state cianciando e ora vecchia, se non volete assaggiare la mia rabbia, levatevi di mezzo».
La figura si fece più vicino, sembrava muoversi sospesa nell'aria e poi scattò in avanti. Le mani ad artiglio, con lunghe unghie nere e ricurve. Il vampiro la evitò, trasformando il suo corpo in nebbia. Approfittando della forma incorporea, raggiunse il piano terra e recuperò la katana.
Lo raggiunse un lamento soffocato, la disperazione e l'impotenza racchiuso in esso lo colpì nel profondo. «Mia geisha dai capelli di fiamma - mormorò - sto venendo da voi. Presto sarete libera».
Ritornò alla stanza e trovò la megera, il fantasma della okasan che aveva imprigionato la Geisha dai capelli di fuoco in quel luogo di eterno dolore, seduta sulla botola.
Con voce malinconica, la donna si rivolse al vampiro. «L'accolsi in casa, venuta dal nulla. Mai avevo veduto prima di quella sera una fanciulla più bella di lei. Pelle candida, occhi simili ad oro fuso, capelli come fiamma viva. Era debole e triste, un esserino senza passato e senza futuro. Non ebbi cuore di mandarla via e decisi che ne avrei fatto una geisha».
Si zittì, forse ripensando al passato. «Ero stata io stessa una geisha da giovane e la mia okasan mi aveva adottato e lasciato la okiya, ma quando avevo deciso di ritirarmi non avevo travato nessuna giovanetta cui trasmettere il mio sapere. Lei mi pareva un dono del cielo».
Da sotto il legno si udì un suono secco, come se qualcuno stesse cercando di grattare le spesse assi.
«Si dimostrò degna della mia fiducia, imparava in fretta e bene. Era tra le migliori del suo corso. Ero così fiera. Poi cominciai a notare le sue stranezze: Quando usciva prima del tramonto si copriva sempre viso e mani, durante il giorno appariva debole e svogliata e solo alla sera diventava la ragazza allegra cui avevo imparato a voler bene. Poi scoprii, a poche settimane dal suo erikae, la verità. Era già famosa qui a Gion con il nomignolo di Geisha dai capelli di fuoco e questa okiya era nota come Okiya del Sole». Tacque di nuovo e il suo avversario le fece un cenno perché proseguisse.
«Non era umana, non come voi e me - urlò la vecchia con rabbia, mentre il suo viso mutava in una maschera da Grand Guignol -. In tutti quegli anni aveva tenuto nascosto la sua vera natura. Quando la vidi, la prima volta, azzannare alla gola un cliente e succhiargli via la vita e il vigore, seppi che ero perduta per sempre. La obbligai a raccontarmi la verità».
Il vampiro non poté fare a meno di sorridere a quelle parole, il suo intuito non aveva sbagliato. Il suo istinto, che l'aveva spinto fino laggiù, aveva saputo fin dall'inizio la verità.
«Da allora cercai di impedirle, in ogni modo, di cacciare a Gion, di uccidere innocenti ma senza successo. Lei si limitava a dire che era la sua natura e come tale non poteva cambiare. Mi ricordo ancora quella terribile frase, che mi disse quella sera. Umani, mortali, per noi siete solo cibo. Decisi che era il momento di fermarla e l'ho fatto come potevo».
Indicò la botola. «L'ho rinchiusa là dentro e implorai gli dei di farmi sua custode. Avrei dovuto cercare di ucciderla ma non ce l'ho fatta, in fondo è la mia bambina. In questi anni l'ho nutrita il minimo perché non morisse. Poi siete arrivato voi e ora son costretta a cambiare i miei piani. Prima mi libererò di voi e poi di lei, per l'eternità. Infine anche io avrò il mio giusto riposo».
Il visitatore rise, «Potete anche scordarvelo, di ucciderla ma io mi occuperò di darvi il giusto riposo». Prima che la vecchia potesse agire, scattò in avanti e affondò la katana. Con un singulto sorpreso, la okasan si dissolse in polvere e di lei non rimase che il suo kimono a brandelli. Lo sollevò con la punta della spada e lo gettò lontano, poi si inginocchiò sopra la botola. «Ancori pochi secondi, mia cara, e sarete libera».
Si alzò in piedi e menò un fendente al lucchetto, che era d'improvviso arrugginito mostrando i segni dei decenni, mandandolo in pezzi. Senza sforzo sollevò la botola e la vide: il viso mostrava appena i segni della prigionia, gli occhi socchiusi e le labbra esangui. La chioma rossa avvolgeva il corpo come un sudario. La sollevò senza fatica. «Ora siete libera e al sicuro». Lei lo guardò con uno strano bagliore negli occhi. Lui la portò di sotto e l'adagiò nella bara, «Aspettatemi qui». Si dissolse e dopo poco riapparve. Tra le mani stringeva uno degli uomini che poche ore prima era venuto a spiarlo. «Un volontario, per il vostro nutrimento», le disse costringendo l'uomo a inginocchiarsi offrendo la gola alla donna. La geisha annusò il collo dell'uomo e si leccò le labbra, che ancora recavano tracce di rossetto. La testa si mosse veloce, chinandosi sul collo dell'uomo. I denti, lunghi e acuminati, lacerarono la pelle e cominciò a suggere il prezioso liquido rosso. L'uomo gemette, un misto di dolore e piacere, prima di perdere i sensi. Nemmeno si rese conto della vita che scivolava via.
Quando esalò l'ultimo respiro, la donna si ritrasse. Alcune gocce di sangue imporporavano le labbra e un rivoletto era sfuggito dall'angolo destro ma lei fu lesta a pulirlo.
Fu solo a quel punto che alzò nuovamente gli occhi verso il suo salvatore. «Vi sono debitrice», mormorò in giapponese. «No - disse lui, inginocchiandosi davanti a lei -. Io sono vostro debitore. Il desiderio di trovarvi ha risvegliato nel mio animo la perduta voglia di essere ancora su questa terra. Io vi ringrazio».
Lei abbassò gli occhi, le labbra arricciate in un sorriso delicato.
«Mi avete salvata da una morte eterna, non potrò mai sdebitarmi», aggiunse lei.
«Non dovete farlo. Ciò che ho fatto - si zittì per un momento -...L'egoismo mi ha spinto a venirvi a cercare, l'egoismo che vi voleva per sé. Non dovete sdebitarvi, vi chiedo solo di restare al mio fianco. Voi siete il più prezioso fiore che questa non vita potesse regalarmi. Potete accontentarmi?».
La misteriosa Geisha dai capelli di fuoco assentì, poi cercò di sollevarsi e lui si mosse per aiutarla, il kimono con cui era stata sepolta viva era ridotto a brandelli ma il suo corpo era coperto dai riccioli rossi. «Dobbiamo andarcene - disse lei -. Questa okiya era sotto un incantesimo, fino a che io fossi rimasta prigioniera e la okasan si fosse occupata di me, il tempo non sarebbe trascorso entro queste mura. Ma voi avete spezzato l'incanto...». Indicò la stanza: la polvere copriva i mobili, la carta di riso delle porte si era consumata e il legno mostrava i segni dei tarli. «Dobbiamo andarcene», fu la risposta di lui. La luna illuminava il cielo ancora scuro. Forse avevano ancora qualche ora prima del sorgere del sole, poi avrebbero dovuto trovare un rifugio per trascorrere le ore diurne.
«Avete fiducia in me?», chiese lui senza preavviso e lei non seppe far altro che chinare la testa. Non poteva far altro che affidarsi a lui, era stata prigioniera per oltre mezzo secolo. Ignorava come il mondo fosse diventato, come il quartiere dove aveva vissuto si fosse trasformato. Ma era anche curiosa. Gli anni in cui la okasan l'aveva tenuta rinchiusa non avevano minato del tutto il suo spirito e la sua natura predatrice.
«Come vi posso chiamare?», le chiese. «Io sono Dougal Conall Duff Keith ma i più preferiscono chiamarmi solo Conall». La dama chiuse gli occhi, cercando di ricordare il suo nome. «La okasan mi chiamava Akane, che significa "profondo rosso" per il colore dei miei capelli, e il mio nome da geisha dovrebbe essere Aimi, che vuol dire "bellezza"». Tacque. «Due nomi che si addicono a voi. Penso che vi chiamerò Aimi, se per voi va bene», commentò Conall e la geiko rispose di nuovo con un cenno del capo.
Un tonfo sordo attirò la loro attenzione: un pezzo del tetto era caduto a terra. La okiya cominciava a cedere. «Dobbiamo andarcene» - disse l'uomo, afferrandola per una mano ma Aimi si indicò e lui si rese conto che era vestita solo dei suoi capelli. «Per quanto possa apprezzare lo stile Lady Godiva - fece lui, cercando di apparire allegro -, forse questo non è il momento migliore per sfoggiarlo». Afferrò uno dei suoi yukata e lo fece indossare ad Aimi, che lo accomodò intorno al corpo esile. «Con estremo rammarico - aggiunse ancora lui sfoderando la spada - vi chiedo il permesso di tagliare di qualche centimetro la vostra chioma. Per rendervi più agevole il cammino».
Aimi si limitò a sorridere ed offrì i capelli al suo misterioso salvatore. Con un colpo preciso, Conall li recise appena sotto il sedere di lei. Osservò con soddisfazione il risultato, poi si affrettò a mettere insieme i suoi oggetti personali e, di nuovo le offrì la mano. «L'alba giungerà presto e dobbiamo affrettarci per trovare un posto dove trascorrere il diurno. La prossima notte organizzerò il nostro ritorno nella mia patria...e vi procurerò i più bei kimono che abbiate mai visto. Prima di andare, un ultimo tocco». Prese uno spesso scialle e lo drappeggiò intorno al capo di lei, nascondendo la chioma di fuoco. «Per la vostra sicurezza, mylady».
Un cigolio potente anticipò di pochi secondi la caduta di una trave di legno, che li mancò di pochi centimetri. Si guardarono un'ultima volta prima di incamminarsi verso il cancello e da lì si lasciarono alle spalle Gion e il suo magico mondo del salice e del fiore.
Conall trovò un hotel dove poterono rifugiarsi e, appena sorse la luna, fece un paio di telefonate organizzando il ritorno in Europa per lui e per la sua misteriosa accompagnatrice. Grazie alle sue conoscenze locali, ottenne in pochi giorni un passaporto per la ragazza, che ad ogni nuova notte imparava qualcosa di più su come il mondo si era trasformato durante la sua prigionia.
«Siete felice?», le domandò una notte mentre ritornavano in hotel dopo una notte di caccia. I sensi ebbri dei sapori e dei rumori della città, Aimi rispose «Non penso di esser mai stata così felice prima di ora. Non ho quasi ricordi del tempo in cui sono stata una geisha. É morto, insieme alla okasan».
Sui giornali di Kyoto, per qualche giorno, molto risalto ebbe la notizia della scoperta che l'antica Okiya del Sole era crollata in modo misterioso e la leggendaria storia della Geisha no kami no kasai tornò alla ribalta.
Nonostante la rinnovata notorietà della storia di Aimi, con tanto di foto sue apparse sui giornali, nessuno fece caso alla donna dai lunghi capelli rossi raccolti a treccia ed abbigliata con moderni abiti di foggia occidentale, che una notte si imbarcò sul piroscafo diretto a New York in compagnia di un aitante giovane uomo abbigliato in modo altrettanto elegante.