martedì 28 aprile 2015

LA GEISHA DAI CAPELLI DI FUOCO

Tra i vicoli dell'antico quartiere di Gion, nel cuore dell'antica Kyoto, tante le storie delle fantomatiche creature che sono le geishe si raccontano ancor oggi.
Tra queste una delle favorite sia tra le okasan sia tra le giovanissime maiko e persino tra le più rinomate geiko è quella che racconta la favolosa storia della misteriosa "geisha dai capelli di fuoco".
Se la conclusione di quella che ormai è indicata come una leggenda varia da chi di volta in volta segue la narrazione, l'inizio è sempre lo stesso...

1) I sakura erano in fiori e l'aria ebbra dei loro colori e dei loro profumi. Un sole arancione dipingeva del suo sanguigno colore la cima innevata  del Fujiyama scandendo l'ora del tramonto.
Per le vie di Gion, il più famoso kagai di Kyoto, i businessmen si accalcavano per raggiungere le ochaya e trascorrere una serata in allegria, bevendo, mangiando piatti tradizionali e gioendo della compagnia delle più belle geiko - il modo in cui le geishe di Kyoto si riferivano a loro stesse - di Gion.
Le vie, strette e sovrastate da tetti spioventi di tegole color ardesia, erano affollate di persone. Dagli alti cancelli delle okiya provenivano le voci garrule delle geiko, intente a prepararsi.
Le giovani maiko si affaccendavano intorno alle "sorelle maggiori", aiutandole a stringere gli obi o porgendo loro preziosi fermargli per capelli.
Silenziose poi le giovani donne uscivano e si dirigevano verso le rispettive okaya.
Quella sera le geiko erano particolarmente eccitate, perché alcune maiko avevano appena completato il loro percorso e avevano appena passato la cerimonia dell'erikae, ovvero avevano cambiato il colletto dei loro kimono da rosso a bianco, divenendo a tutti gli effetti delle geishe.
La luce dorata del tramonto primaverile rendeva tutta l'area soffusa di un alone quasi mistico.
Due giovani geishe, Makiko e la sua amica Kimika, stavano attraversando la strada quando videro un gruppetto di loro colleghe che si erano attardate e sembravano intente a guardare qualcosa.
"Andiamo a vedere", propose Kimika, afferrando l'amica per la manica del kimono e cominciando a tirarla verso le altre. Makiko cercò di opporre resistenza ma alla fine la curiosità vinse e seguì l'amica senza opporre resistenza.
Raggiunsero le altre e si fecero strada, fino a che riuscirono ad intravedere l'oggetto dell'interesse delle altre geiko. Alle loro orecchie giunsero mormorii stupiti.
Davanti ad una vecchia okiya si era fermato un carro e alcuni facchini stavano scaricando mobili e suppellettili. Le ragazze rabbrividirono di paura: quella casa era disabitata e chiusa da almeno mezzo secolo e aveva la fama di essere infestata dai fantasmi della okasan e della geiko che vi avevano vissuto e che al suo interno erano morte in modo misterioso. C'era chi sosteneva che in alcune notti dell'anno si potessero udire i passi delle due donne percorrere i corridoi e c'era chi sosteneva di aver visto la geiko passeggiare, nelle notti di luna piena, per il giardino. «Era una fanciulla bellissima - sostenevano coloro che l'avevano intravista -. Pelle color dell'alabastro e occhi simili a perle dorate. I capelli, i capelli erano il suo tratto distintivo: simili al fuoco per colore e  sembrava che fossero dotati di vita propria».
La sorte della poverina era stata infausta, dicevano le cronache: una notte dei ladri si erano introdotti nella okiya e avevano ammazzato entrambe. «Da allora i loro spiriti sono rimasti intrappolati in quella casa - era il modo in cui i vecchi concludevano la storia -. É pericoloso avventurarsi entro quelle mura, che tanto dolore hanno sopportato. É meglio starvi lontano»·.
Le maiko e le geiko obbedivano a quelle parole e stavano lontane dalla casa della geisha dai capelli di fuoco, ma ora ciò cui stavano assistendo aveva dell'incredibile. Qualcuno aveva intenzione di andarvi a vivere. Per loro era un evento al limite del sacrilegio. Si guardavano tra loro, pallide sotto la maschera bianca del loro trucco, indecise sul da farsi...ma era tardi e il dovere le attendeva, così le belle artiste di Gion si ritrovarono di nuovo in strada dirette alle case da tea, dove facoltosi politici e uomini d'affari le attendevano, per godere della loro abilità oratoria, delle loro danze e delle melodie che sapevano trarre dagli shamisen.
Mentre le geiko tornavano alla loro vita all'interno del protetto mondo del salice e del fiore, i due facchini terminavano di portare dentro la okiya i due bauli, un enorme armadio e qualche altro complemento d'arredo.
Dietro di loro la notte cominciava a prendere possesso del quartiere e della città. Un vento freddo si era d'improvviso levato a scompigliare le chiome color rosa dei ciliegi in fiore.
«Muoviamoci - disse quello più anziano -. Non mi piace quest'atmosfera lugubre». Il giovane ribatté che dovevano attendere che i nuovi proprietari della casa arrivassero, secondo quanto avevano pattuito. «Altrimenti non saremo pagati», concluse lanciando un'occhiata al vecchio.
Aveva appena finito di parlare quando sentirono un fruscio e, girandosi, si trovarono di fronte un giovane uomo, dai tratti occidentali, ben vestito. «Spero che non mi stiate attendendo da molto - disse loro in giapponese -. Purtroppo sono da poco giunto a Kyoto e ancora non mi so orientare bene».
I due uomini scossero la testa, era la prima volta che udivano uno straniero esprimersi in modo così perfetto nella loro lingua. Si inchinarono rispettosamente e dissero che il lavoro era stato completato secondo i suoi ordini. I mobili erano stati sistemati nei punti della casa da lui indicati.
Il misterioso occidentale sorrise e, dalla giacca trasse un mazzetto di banconote. Ne contò una decina, ne aggiunse altre cinque e le infine le porse all'anziano. «Un piccolo extra, per il vostro silenzio - disse mentre il denaro passava di mano -. Non voglio che alcuno sappia dove sono. Questo sarà il mio buen ritiro. Non parlate con nessuno del lavoro che avete fatto per me quest'oggi, o avrete da pentirvene». Quelli si inchinarono nuovamente, mormorarono qualche parole di rassicurazione e scapparono via. L'espressione dell'uomo li aveva terrorizzati più delle sue parole.
Il misterioso visitatore osservò l'antica okiya, poi mormorò «Tsuini geisha kami no kasai no ie ni kite, watashi no kenkyu wa, saigo in kite iru» (Sono infine giunto alla casa della geisha dai capelli di fuoco, la mia ricerca è giunta al termine).
Varcò la soglia e rimirò il giardino sotto la luce della luna. Pur nello stato di abbandono, riusciva a trasmettergli un senso di pace. Salì i gradini e fece scivolare la porta, il silenzio era assoluto intorno a lui. «Sono venuto per voi», disse a mezza voce, rivolto al buio. «E non ho intenzione di rinunciare ad incontrarvi».
Sapeva che le sue parole potevano suonare baldanzose ed arroganti, ma era così: da che qualcuno in uno dei villaggi compresi tra Tokyo e Kyoto gli aveva raccontato quella leggenda aveva sentito qualcosa dentro l'animo smuoversi. Dopo anni di apatia, quella strana storia aveva acceso in lui una curiosità morbosa. Aveva speso settimane nella ricerca della abbandonata okiya e aveva fatto l'impossibile per poterla comprare. Ora era sua e avrebbe fatto in modo di incontrare la misteriosa fanciulla, la geisha dai capelli di fuoco.
Attraversò le stanze, notando come tutto fosse pulito. Se, come gli avevano raccontato i tecnici del comune da cui aveva potuto comprare quel piccolo gioiello architettonico, era disabitata da almeno mezzo secolo avrebbe dovuto essere ricoperta di polvere.
Uscì di nuovo sul piccolo patio e lanciò un'occhiata alla luna. La notte era appena cominciata. Da una valigia trasse fuori una fiaschetta, ne svitò il tappo e bevve un lungo sorso. Un rivolo di un rosso scuro scivolò fuori e macchiò la sua camicia di seta. Imprecò tra sé e bevve un'altra sorsata.
Sentendosi ritemprato, rientrò in casa e si preparò. Si spogliò degli abiti occidentali e indossò uno yukata nero dai ricami d'argento. Sollevò, senza fatica, quello che i facchini avevano creduto fosse un armadio e lo adagiò in mezzo alla stanza. Dal baule prese una candela e un libro di haiku, acquistato tempo addietro in un mercatino di Hokkaido.
Utilizzando un acciarino, accese la candela e cominciò a declamare, a voce alta, le poesie. Per fortuna del misterioso nuovo inquilino della okiya, la musica e le risa dell'hanamachi di Gion coprirono la sua voce.
Andò avanti per buona parte della notte a leggere ma nessuna fanciulla dai capelli color del fuoco e gli occhi color dell'oro fece la sua comparsa.
Poco prima del sorgere del sole chiuse le porte e aprì l'enorme bara che aveva sistemato per terra la notte prima. Era di un bel legno scuro, lucida e l'interno rivestito di morbida sera scarlatta. Si chiuse il coperchio sopra la testa e  lentamente sprofondò in un sonno simile alla morte.
L'uomo, proveniente da impervie regioni dell'occidente, sorrise nel suo nascondiglio e per un fugace momento i suoi denti acuminati brillarono. «Sarete mia, misteriosa dama dai capelli di fiamma. Sarete mia, per l'eternità».

2) La notizia che un nuovo inquilino si era stabilito nella okiya abbandonata fece il giro delle case da tea e delle okiya in pochissime ore. Le okasan disapprovarono la decisione delle autoritá di vendere la casa appartenuta alla Geisha no kami no kasai e per di piú ad uno straniero. «Dove andrá a finire Gion se la prefettura si permette di vendere le okiya senza consultarci», si lamentó la okasan della bella Chamoko, la geiko piú ricercata della Città.
L'anziana batté la pipa sul tavolo e si rivolse alla giovane donna, che la ascoltava bevendo una tazza di tea. «Questa sera hai appuntamento con il Grande Direttore, vero?", le chiese. Chamoko annuí. «Bene. Allora, con molta grazia, gli devi domandare di intervenire. Non é lecito che ci venga fatto questo torto. E non per una okiya qualunque ma per quella».
Chamoko chinò il capo in segno di rispetto e promise che avrebbe chiesto l'aiuto del suo Danna, uno degli uomini più potenti di Kyoto, perché lo straniero venisse rimesso al suo posto.
La sera sorse, tiepida e profumata dopo una giornata ventosa ed irrequieta.
Le ochaya aprirono le loro porte alle artiste e ai loro accompagnatori. Qualcuno, tra i pochi uomini ammessi in quel mondo quasi interamente femminile, decise di andare a vedere cosa stesse succedendo tra le mura della casa della sofferenza, un tempo nota come Okiya del Sole. Reggendo piccole torce lo sparuto gruppetto si avvicinò, cercando di sbirciare tra le assi sconnesse del vecchio cancello di legno. Poterono solo scorgere la fiamma di un lumicino e l'ombra di un uomo, alto e imponente, muoversi per la stanza. D'improvviso un vento gelido si alzò e una folata spense le loro fiammelle, rimasti al buio i poveri giovani furono attraversati da brividi di paura. Prima che potessero allontanarsi, una voce profonda li sorprese: «Cosa vi porta a spiare al mio uscio?». Alzarono lo sguardo e videro un giovane di bell'aspetto, avvolto in uno yukata nero di foggia elaborata, che li osservava dal muro di cinta. Nella mano destra reggeva una katana e negli occhi poterono scorgere un'espressione adirata. Cercarono di inchinarsi e di battere in ritirata ma lo sconosciuto li fermò. «Non così in fretta». Saltò in terra, bloccando loro la via di fuga. I suoi occhi li tenevano incatenati quanto la minaccia della sua spada. Lo guardavano tremanti e, gettandosi in terra, implorarono la sua clemenza. Quello li osservò con disprezzo e poi si mosse, veloce come un soffio di vento. La katana lampeggiò e gli uomini caddero a terra, feriti e sanguinanti. «Questa notte vi ho dimostrato la mia clemenza, che non vi riveda intorno alla mia magione. La prossima volta non vi risparmierò». Traendo dalla manica del kimono un fazzoletto candido, ripulì la lama della katana e poi lo gettò loro. «Mi aspetto di riaverlo indietro, pulito», aggiunse. Gli uomini annuirono, uno afferrò il pregiato quadrato di stoffa e lo ripose nella tasca interna del suo yukata assicurando che l'avrebbe avuto indietro entro pochi giorni. Sorreggendosi a vicenda si allontanarono, sotto lo sguardo severo del misterioso straniero. Non avevano mai incontrato un gaikogujin che parlasse così bene la loro lingua e sapesse maneggiare la katana come un samurai. «Ditelo a tutti, che non devo essere disturbato - la voce dell'uomo li raggiunse nella testa, come portata dal vento».
Quando furono spariti dalla vista, il giovane nobile alzò lo sguardo alla luna e emise quello che doveva essere un sospiro. Si incamminò, trasformandosi in una nuvola color argento e riapparendo in casa.
«Perdonatemi, mia cara - disse, rivolgendosi al silenzio -. Importuni». Si sedette al tavolo, aprì il libro di haiku e riprese a leggere. «Sono certo che questo lo potrete apprezzare». Si schiarì la voce e recitò. «Mi porta da te un impervio sentiero lo percorrerò».
Tacque e lasciò i pensieri liberi, cercando nello spazio della casa e del giardino la presenza della donna.
All'improvviso udì un lieve sospiro, proveniente dal piano superiore. Scattò in piedi e si scapicollò per le scale, seguendo quel libere suono nella sua mente. Raggiunse una piccola botola di legno rinforzata da un reticolo di metallo brillante e chiusa da un lucchetto d'argento.
Il vampiro ristette e arretrò di un passo. Il lampeggio di quell'oggetto, che lo separava da colei che in quel momento desiderava, gli ferì gli occhi e sentì la collera salire. Si accorse di aver abbandonato la katana al piano inferiore e fece per tornare indietro ma vide una figura curva e scura bloccargli la via. «Spostatevi», ringhiò mentre sentiva i denti crescevano e sentiva i muscoli tendersi.
La donna scosse la testa, la lunghissima chioma candida ondeggiò e avanzò di un passo. «Andatevene da questa casa maledetta», disse con voce gelida, «Non è posto per voi, questo. Questo è un luogo di sofferenza. Colei che voi cercate non è per voi. Lasciatevi alle spalle le vostre stupide elucubrazioni e tornate alla vostra vita».
All'udire quelle parole, l'uomo scoppiò in una risata. «La sofferenza per me è pane quotidiano - le rispose l'uomo, mostrandole il suo vero volto -. Non sapete di cosa state cianciando e ora vecchia, se non volete assaggiare la mia rabbia, levatevi di mezzo».
La figura si fece più vicino, sembrava muoversi sospesa nell'aria e poi scattò in avanti. Le mani ad artiglio, con lunghe unghie nere e ricurve. Il vampiro la evitò, trasformando il suo corpo in nebbia. Approfittando della forma incorporea, raggiunse il piano terra e recuperò la katana.
Lo raggiunse un lamento soffocato, la disperazione e l'impotenza racchiuso in esso lo colpì nel profondo. «Mia geisha dai capelli di fiamma - mormorò - sto venendo da voi. Presto sarete libera».
Ritornò alla stanza e trovò la megera, il fantasma della okasan che aveva imprigionato la Geisha dai capelli di fuoco in quel luogo di eterno dolore, seduta sulla botola.
Con voce malinconica, la donna si rivolse al vampiro. «L'accolsi in casa, venuta dal nulla. Mai avevo veduto prima di quella sera una fanciulla più bella di lei. Pelle candida, occhi simili ad oro fuso, capelli come fiamma viva. Era debole e triste, un esserino senza passato e senza futuro. Non ebbi cuore di mandarla via e decisi che ne avrei fatto una geisha».
Si zittì, forse ripensando al passato. «Ero stata io stessa una geisha da giovane e la mia okasan mi aveva adottato e lasciato la okiya, ma quando avevo deciso di ritirarmi non avevo travato nessuna giovanetta cui trasmettere il mio sapere. Lei mi pareva un dono del cielo».
Da sotto il legno si udì un suono secco, come se qualcuno stesse cercando di grattare le spesse assi.
«Si dimostrò degna della mia fiducia, imparava in fretta e bene. Era tra le migliori del suo corso. Ero così fiera. Poi cominciai a notare le sue stranezze: Quando usciva prima del tramonto si copriva sempre viso e mani, durante il giorno appariva debole e svogliata e solo alla sera diventava la ragazza allegra cui avevo imparato a voler bene. Poi scoprii, a poche settimane dal suo erikae, la verità. Era già famosa qui a Gion con il nomignolo di Geisha dai capelli di fuoco e questa okiya era nota come Okiya del Sole». Tacque di nuovo e il suo avversario le fece un cenno perché proseguisse.
«Non era umana, non come voi e me - urlò la vecchia con rabbia, mentre il suo viso mutava in una maschera da Grand Guignol -. In tutti quegli anni aveva tenuto nascosto la sua vera natura. Quando la vidi, la prima volta, azzannare alla gola un cliente e succhiargli via la vita e il vigore, seppi che ero perduta per sempre. La obbligai a raccontarmi la verità».
Il vampiro non poté fare a meno di sorridere a quelle parole, il suo intuito non aveva sbagliato. Il suo istinto, che l'aveva spinto fino laggiù, aveva saputo fin dall'inizio la verità.
«Da allora cercai di impedirle, in ogni modo, di cacciare a Gion, di uccidere innocenti ma senza successo. Lei si limitava a dire che era la sua natura e come tale non poteva cambiare. Mi ricordo ancora quella terribile frase, che mi disse quella sera. Umani, mortali, per noi siete solo cibo. Decisi che era il momento di fermarla e l'ho fatto come potevo».
Indicò la botola. «L'ho rinchiusa là dentro e implorai gli dei di farmi sua custode. Avrei dovuto cercare di ucciderla ma non ce l'ho fatta, in fondo è la mia bambina. In questi anni l'ho nutrita il minimo perché non morisse. Poi siete arrivato voi e ora son costretta a cambiare i miei piani. Prima mi libererò di voi e poi di lei, per l'eternità. Infine anche io avrò il mio giusto riposo».
Il visitatore rise, «Potete anche scordarvelo, di ucciderla ma io mi occuperò di darvi il giusto riposo». Prima che la vecchia potesse agire, scattò in avanti e affondò la katana. Con un singulto sorpreso, la okasan si dissolse in polvere e di lei non rimase che il suo kimono a brandelli. Lo sollevò con la punta della spada e lo gettò lontano, poi si inginocchiò sopra la botola. «Ancori pochi secondi, mia cara, e sarete libera».
Si alzò in piedi e menò un fendente al lucchetto, che era d'improvviso arrugginito mostrando i segni dei decenni, mandandolo in pezzi. Senza sforzo sollevò la botola e la vide: il viso mostrava appena i segni della prigionia, gli occhi socchiusi e le labbra esangui. La chioma rossa avvolgeva il corpo come un sudario. La sollevò senza fatica. «Ora siete libera e al sicuro». Lei lo guardò con uno strano bagliore negli occhi. Lui la portò di sotto e l'adagiò nella bara, «Aspettatemi qui». Si dissolse e dopo poco riapparve. Tra le mani stringeva uno degli uomini che poche ore prima era venuto a spiarlo. «Un volontario, per il vostro nutrimento», le disse costringendo l'uomo a inginocchiarsi offrendo la gola alla donna. La geisha annusò il collo dell'uomo e si leccò le labbra, che ancora recavano tracce di rossetto. La testa si mosse veloce, chinandosi sul collo dell'uomo. I denti, lunghi e acuminati, lacerarono la pelle e cominciò a suggere il prezioso liquido rosso. L'uomo gemette, un misto di dolore e piacere, prima di perdere i sensi. Nemmeno si rese conto della vita che scivolava via.
Quando esalò l'ultimo respiro, la donna si ritrasse. Alcune gocce di sangue imporporavano le labbra e un rivoletto era sfuggito dall'angolo destro ma lei fu lesta a pulirlo.
Fu solo a quel punto che alzò nuovamente gli occhi verso il suo salvatore. «Vi sono debitrice», mormorò in giapponese. «No - disse lui, inginocchiandosi davanti a lei -. Io sono vostro debitore. Il desiderio di trovarvi ha risvegliato nel mio animo la perduta voglia di essere ancora su questa terra. Io vi ringrazio».
Lei abbassò gli occhi, le labbra arricciate in un sorriso delicato.
«Mi avete salvata da una morte eterna, non potrò mai  sdebitarmi», aggiunse lei.
«Non dovete farlo. Ciò che ho fatto - si zittì per un momento -...L'egoismo mi ha spinto a venirvi a cercare, l'egoismo che vi voleva per sé. Non dovete sdebitarvi, vi chiedo solo di restare al mio fianco. Voi siete il più prezioso fiore che questa non vita potesse regalarmi. Potete accontentarmi?».
La misteriosa Geisha dai capelli di fuoco assentì, poi cercò di sollevarsi e lui si mosse per aiutarla, il kimono con cui era stata sepolta viva era ridotto a brandelli ma il suo corpo era coperto dai riccioli rossi. «Dobbiamo andarcene - disse lei -. Questa okiya era sotto un incantesimo, fino a che io fossi rimasta prigioniera e la okasan si fosse occupata di me, il tempo non sarebbe trascorso entro queste mura. Ma voi avete spezzato l'incanto...». Indicò la stanza: la polvere copriva i mobili, la carta di riso delle porte si era consumata e il legno mostrava i segni dei tarli. «Dobbiamo andarcene», fu la risposta di lui. La luna illuminava il cielo ancora scuro. Forse avevano ancora qualche ora prima del sorgere del sole, poi avrebbero dovuto trovare un rifugio per trascorrere le ore diurne.
«Avete fiducia in me?», chiese lui senza preavviso e lei non seppe far altro che chinare la testa. Non poteva far altro che affidarsi a lui, era stata prigioniera per oltre mezzo secolo. Ignorava come il mondo fosse diventato, come il quartiere dove aveva vissuto si fosse trasformato. Ma era anche curiosa. Gli anni in cui la okasan l'aveva tenuta rinchiusa non avevano minato del tutto il suo spirito e la sua natura predatrice.
«Come vi posso chiamare?», le chiese. «Io sono Dougal Conall Duff Keith ma i più preferiscono chiamarmi solo Conall». La dama chiuse gli occhi, cercando di ricordare il suo nome. «La okasan mi chiamava Akane, che significa "profondo rosso" per il colore dei miei capelli, e il mio nome da geisha dovrebbe essere Aimi, che vuol dire "bellezza"». Tacque. «Due nomi che si addicono a voi. Penso che vi chiamerò Aimi, se per voi va bene», commentò Conall e la geiko rispose di nuovo con un cenno del capo.
Un tonfo sordo attirò la loro attenzione: un pezzo del tetto era caduto a terra. La okiya cominciava a cedere. «Dobbiamo andarcene» - disse l'uomo, afferrandola per una mano ma Aimi si indicò e lui si rese conto che era vestita solo dei suoi capelli. «Per quanto possa apprezzare lo stile Lady Godiva - fece lui, cercando di apparire allegro -, forse questo non è il momento migliore per sfoggiarlo». Afferrò uno dei suoi yukata e lo fece indossare ad Aimi, che lo accomodò intorno al corpo esile. «Con estremo rammarico - aggiunse ancora lui sfoderando la spada - vi chiedo il permesso di tagliare di qualche centimetro la vostra chioma. Per rendervi più agevole il cammino».
Aimi si limitò a sorridere ed offrì i capelli al suo misterioso salvatore. Con un colpo preciso, Conall li recise appena sotto il sedere di lei. Osservò con soddisfazione il risultato, poi si affrettò a mettere insieme i suoi oggetti personali e, di nuovo le offrì la mano. «L'alba giungerà presto e dobbiamo affrettarci per trovare un posto dove trascorrere il diurno. La prossima notte organizzerò il nostro ritorno nella mia patria...e vi procurerò i più bei kimono che abbiate mai visto. Prima di andare, un ultimo tocco». Prese uno spesso scialle e lo drappeggiò intorno al capo di lei, nascondendo la chioma di fuoco. «Per la vostra sicurezza, mylady».
Un cigolio potente anticipò di pochi secondi la caduta di una trave di legno, che li mancò di pochi centimetri. Si guardarono un'ultima volta prima di incamminarsi verso il cancello e da lì si lasciarono alle spalle Gion e il suo magico mondo del salice e del fiore.
Conall trovò un hotel dove poterono rifugiarsi e, appena sorse la luna, fece un paio di telefonate organizzando il ritorno in Europa per lui e per la sua misteriosa accompagnatrice. Grazie alle sue conoscenze locali, ottenne in pochi giorni un passaporto per la ragazza, che ad ogni nuova notte imparava qualcosa di più su come il mondo si era trasformato durante la sua prigionia.
«Siete felice?», le domandò una notte mentre ritornavano in hotel dopo una notte di caccia. I sensi ebbri dei sapori e dei rumori della città, Aimi rispose «Non penso di esser mai stata così felice prima di ora. Non ho quasi ricordi del tempo in cui sono stata una geisha. É morto, insieme alla okasan».
Sui giornali di Kyoto, per qualche giorno, molto risalto ebbe la notizia della scoperta che l'antica Okiya del Sole era crollata in modo misterioso e la leggendaria storia della Geisha no kami no kasai tornò alla ribalta.

Nonostante la rinnovata notorietà della storia di Aimi, con tanto di foto sue apparse sui giornali, nessuno fece caso alla donna dai lunghi capelli rossi raccolti a treccia ed abbigliata con moderni abiti di foggia occidentale, che una notte si imbarcò sul piroscafo diretto a New York in compagnia di un aitante giovane uomo abbigliato in modo altrettanto elegante.

lunedì 20 aprile 2015

COLATURE DI SOGNI

Dibattuta tra realtá e sogni,
Sciolti i ghiacci del cuore
vaneggio in questa realtá
Riparata anima,
immersa in colature di sogni
che mi restano appiccicati addosso,
belletti e maschere,
Per proteggermi dal mondo.

(from Ophelia Mezzanotte - http://facebook.com/atripinwonderland)

martedì 1 luglio 2014

IL DRAGO DI MALAMORN

Il giorno in cui Hetzal si trasformò in drago mise la parola fine alla tranquillità del principato di Malamorn. Fino a quel momento Malamorn era stata una delle Signorie meno turbolente dell’intero Anterland.
La popolazione era pacifica, dedita al commercio e allo studio delle arti liberali. Da almeno tre secoli non si erano combattute guerre entro i suoi confini e l’esercito aveva partecipato a forse un paio di scaramucce nel corso dei passati sessant’anni.
L’amenità dei paesaggi del piccolo regno lo rendeva una delle mete favorite per viaggiatori e pellegrini. Le chiese della capitale Halamern, infatti, richiamavano persone da ogni parte del continente. I suoi porti erano approdo sicuro per le navi e le sue associazioni commerciali intessevano rapporti e scambi lungo le principali rotte. Infine, ad ovest, una catena montuosa proteggeva i confini e scoraggiava eventuali invasioni.
Entro le mura di Halamern aveva sede il governo e le prestigiose scuole ed accademie del paese. Tra queste spiccavano l’Oratorio della Negromanzia e l’Accademia delle Arti Guerresche, cui venivano iscritti i figli maschi delle famiglie nobili e dell’alta borghesia. A queste due antiche istituzioni scolastiche si affiancavano, inoltre, gli studi degli artisti, dove i giovani più dotati potevano imparare a dipingere, scolpire, realizzare pregiate ceramiche e mosaici. Mantenevano alto il livello dell’istruzione anche le prestigiose scuole di studio superiore dove venivano formati i giuristi del regno, gli insegnanti, i tecnici e più o meno tutti i professionisti del paese.
I figli del popolo, maschi e femmine senza distinzione, potevano frequentare scuole, finanziate dalla casa reale, dove veniva loro insegnato non solo a leggere, scrivere e contare ma anche un mestiere, secondo le proprie inclinazioni. C’era chi imparava a cucire e a creare splendidi abiti, chi a riparare scarpe e ancora chi diventava un abile fabbro e mastro armiere. 
Ciò che rendeva Malamorn diverso tra tutti i regni dell’Anterland era il fatto che l’accesso a queste strutture era liberamente aperta anche alle bambine. Non sempre era stato così, ma il bisnonno della principessa Hetzal aveva deciso di abrogare la legge che limitava ai soli maschi la possibilità di frequentare le scuole, con l’unica eccezione dell’Accademia delle Arti Guerresche, dato che insieme a sua moglie aveva generato solo figlie femmine e nemmeno un erede maschio. Per evitare che i suoi parenti potessero rivendicare il trono e il potere - il buon re aveva una pessima opinione dei suoi familiari, e non a torto - aveva modificato il codice delle leggi in modo che una donna potesse diventare regina ma, altresì, si era reso conto che senza una cultura non sarebbe stata in grado di governare e avrebbe rischiato di diventare un manichino nelle mani di consiglieri e cortigiani. 
Aveva modificato il codice delle leggi in modo che una donna potesse diventare regina, si era reso conto che senza cultura non sarebbe stata in grado di governare quindi aveva deciso di aprire le scuole alle ragazze e le prime iscritte erano state proprio le principessine. La maggiore, destinata a sedere al tavolo del governo, aveva frequentato la scuola di legge, le altre si erano divise tra l’Oratorio di Negromanzia e le scuole letterarie e di matematica.
In particolare l’Oratorio divenne la scelta prediletta dalle bambine e dalle famiglie e nel giro di pochi anni le giovani di Malamorn divennero tra le più rinomate negromanti dell’intero Anterland, chiamate in ogni paese del continente per portare la loro conoscenza e le loro arti magiche segrete in aiuto dei monarchi. Al fianco delle potenti maghe le gioielliere, le cuoche, le ceramiste, le pittrici esportavano in ogni dove la propria esperienza, tanto che dagli stati vicini molte famiglie nobili e non cominciarono a mandare le proprie figlie nella capitale di Malamorn per farle istruire.
La vita procedeva tranquilla, il commercio prosperava, la fama del piccolo principato si spandeva in ogni parte del mondo conosciuto e le sagge decisioni dei re e delle regine che si erano succedute negli anni avevano mantenuto una pace duratura. 
Niente sembrava in grado di rovinare quell’idillio. Fino a che Hetzal non si ritrovò trasformata in drago per un esperimento magico andato male e la tranquillità del regno divenne un vago ricordo. Quando la futura regina si ritrovò mutata, Hetzal frequentava il nono anno di pratiche negromantiche ed aveva acquisito una certa «esperienza» per quel che concerneva la preparazione di pozioni e filtri. Era lo stesso una ragazzina e questo la portava, spesso, ad agire in modo avventato.
Figlia di re Zamoyn e della regina Khanlae, Hetzal aveva dimostrato precocemente uno spiccato interesse per la negromanzia. I suoi genitori all’inizio erano stati contrari al desiderio della bambina di entrare nell’Oratorio di Negromanzia come allieva, dato che era la sola erede al trono. Suo padre aveva cercato di convincerla a seguire le sue stesse orme e frequentare la scuola di legge ma Hetzal si era dimostrata cocciuta. In quel frangente la madre di Zamoyn aveva commentato che nella loro famiglie c’erano state solo due negromanti ma dodici generali. L’anziana regina aveva perorato la causa della nipote, «La bambina può benissimo studiare l’arte magica. In questa famiglia abbiamo sempre avuto una carenza di persone di buon senso e studiare all’Oratorio le sarà certo più utile che frequentare, se fosse stata un maschio, l’Accademia».
Zamoyn e sua moglie non ritenevano che quella scelta fosse la migliore per la loro figliola, ritenevano che la popolazione avrebbe potuto avere qualche difficoltà ad accettare una strega come governante, ma alla fine avevano accettato ed Hetzal aveva potuto seguire la sua passione per boccette, alambicchi e polverine strane.
Per nove anni la principessa aveva studiato e si era impegnata, con diligenza e perseveranza. Eccelleva in alcune materie e meno in altre, ma nel complesso risultava un’allieva di grandi capacità. «La principessina ha davanti a sé un fulgido futuro - aveva ripetuto la Negromanta Excelsa, che si diceva dirigesse la scuola da circa 125 anni, ai genitori durante l’annuale colloquio all’inizio del decimo anno di frequentazione - e sono certa che sarete molto soddisfatti degli insegnamenti che ha ricevuto. É molto intelligente e ha una autentica abilità per la negromanzia». Dopo questo colloquio l’ultima cosa che i sovrani si sarebbero aspettati era ritrovarsi la figlia trasformata in un drago più alto della più alta guglia del palazzo, grosso quanto dodici carri da guerra messi insieme, con ali squamose così grandi che quando erano aperte coprivano per intero il palazzo reale e soprattutto con un carattere pessimo.
Il tragico ed infausto evento si era verificato subito dopo la consegna del diploma di «Negromanta Minor» ad Hetzal. L’attestato consentiva a chiunque l’avesse conseguito di svolgere le mansioni di divinazione, di lettura delle rune e dei tarocchi araldici e di praticare qualche incantesimo molto scenico ma di poco potere. Inoltre l’allievo negromante, senza distinzione di sesso o di estrazione sociale, era titolato ad essere assunto come «Apprendista Mastro Mago di Prima Classe». 
Hetzal aveva appeso le pergamene nella sua stanza e trascorreva le sere osservandole e chiedendosi quando avrebbe avuto occasione di dimostrare quello che aveva imparato. Aveva due mesi di riposo prima di cominciare il primo corso per conseguire il titolo di «Negromanta Maior». Già sognava quando avrebbe potuto indossare il mantello nero e fare tutte le magie che il suo cervello le avrebbe suggerito. 
Con questi pensieri in testa la futura regina di Malamorn aveva, un pomeriggio torrido e tranquillo, invitato al castello alcune sue compagne di corso, per la precisione Galanthya Tzarley e Lamberya, e insieme avevano deciso di tentare qualche esperimento imparato ai corsi di pozioni e sortilegi.
Non c’era voluto molto tempo per mettere insieme gli ingredienti necessari per ricreare una pozione divinatoria e le quattro giovani maghe li avevano fatti, con diligenza e attenzione, fatti bollire negli alambicchi, filtrati e infine fatto colare il liquido verde intenso in un’ampolla di cristallo finemente lavorata.
Il libro, a quel punto, spiegava che chiunque avesse bevuto l’intruglio avrebbe potuto, per qualche ora, avere una visione chiara dell’immediato futuro.
Galanthya, la migliore amica di Hetzal e figlia di una delle più ricche famiglie nobili del principato, si fece avanti per sperimentare il magico infuso ma la principessa la fermò. «Lo farò io», disse con convinzione e senza dare alle altre il tempo di obiettare, afferrò il bottiglino di vetro e si scolò in un sorso la mistura.
Le altre tre si fecero vicino a lei, in trepida attesa. Sempre secondo quello che avevano letto e che il professore di pozioni e sortilegi aveva spiegato in classe, l’effetto era pressoché immediato. «Per prima cosa gli occhi della persona che ha bevuto diventeranno di un intenso color verde quindi passeranno al giallo oro e a quel punto le nebbie del futuro prossimo si apriranno davanti a lei». 
Galanthya e le altre videro gli occhi azzurri di Hetzal diventare prima verdi poi cangiare in giallo oro. «Allora?», dissero le tre ragazze quasi all’unisono. La principessa stava per parlare e dire ciò che riusciva a vedere ma invece delle parole il suo corpo produsse un lento e pesante boato. Hetzal, a quel suono, sbiancò in volto e cominciò a sudare. Le sue amiche arretrarono di un parecchi passi mentre i rumori provenienti dal corpo della principessa si facevano sempre più minacciosi.
D’improvviso Hetzal si piegò in due e, accasciata sul pavimento, vomitò una bava densa e verdastra prima di cadere a terra come svenuta.
«Presto, presto dobbiamo farle prendere un po’ d’aria fresca», urlò Tzarley, figlia di un ricco commerciante che si era comprato una baronia e l’ingresso della figlia all’Oratorio grazie alle fortune accumulate in anni di traffici con tutti i paesi con cui Malamorn aveva stretto un patto economico.
Insieme si ingegnarono e trascinando Hetzal riuscirono a portarla all’esterno del palazzo, in uno dei giardini. Quando guardie e servi le videro, corsero in loro aiuto e qualcuno andò a chiamare il re e la regina, perché venissero a constatare di persona ciò che era capitato.
I reali trovarono le tre ragazze in lacrime, che invano tentavano di far svegliare la loro amica. «Cosa è successo?», tuonò Zamoyn e fu Galanthya a farsi avanti e a raccontare, tra i singhiozzi, gli avvenimenti dell’ultima mezz’ora. La regina, al sentire il racconto, stramazzò a terra ansimando e piangendo per la sorte toccata alla figlia. Qualcuno suggerì al re di chiamare la Negromanta Excelsa perché trovasse una soluzione e un messo fu immediatamente inviato all’Oratorio della Negromanzia mentre uno dei medici di corte si affaccendava intorno alla principessa, cercando di capire cosa fosse successo e se la sua medicina potesse essere in qualche modo d’aiuto ma giungendo in fretta alla conclusione che l’unica soluzione sarebbe stato un contro incantesimo. 
Intanto un suo collega si occupava della regina, facendole prendere un tonico, facendo approntare un gazebo perché trovasse sollievo dal caldo e rassicurandola circa le abilità in materia del collega.
«Ad una primo esame - riferì il dottore al re, senza farsi udire dalla regina - sembra che sia solo svenuta, ma c’è questa bava verde che ha sputato prima e, auscultando il suo petto, si odono strani rumori…come di ossa che si riposizionano all’interno del corpo».
Ciò che accadde subito dopo la frase dell’uomo di medicina trovò ampio spazio nelle cronache del principato e nelle ballate dei cantori di fiera oltre a mettere la parola fine alla pace e alla tranquillità della popolazione.
Hetzal, così come era caduta a terra priva di conoscenza quasi un’ora prima, aprì gli occhi tossendo violentemente e sparpagliando bava verdastra intorno a lei. Pallida, sudata, scossa da tremori e in preda a spasmi terribili la principessa non sembrava nemmeno più lei. Il re cercò di farsi vicino ma il medico lo trattenne. Gli occhi della ragazza, che imploravano i presenti di fare qualcosa, non erano più azzurri ma di un brillante e liquido color verde dorato e la pupilla era sottile e oblunga mentre avrebbe dovuto essere rotonda. «Sta cambiando», sussurrò il cerusico trascinando in una zona riparata Zamoyn. 
La principessa cercò di tirarsi in piedi quando il tremito che l’aveva assalita smise e fu allora che la trasformazione avvenne: prima gli arti inferiori e poi quelli superiori si modificarono, ricoprendosi di squame verdi e lucenti. Con un nuovo terrore la fanciulla si osservò le braccia ritrarsi verso il suo torace e le sue mani trasformarsi in zampe a tre dita dai lunghi artigli adunchi.
Rivolse ai genitori, ai presenti un muto grido d’aiuto mentre il suo corpo cominciò a gonfiarsi, la pelle candida e liscia che si ricopriva di scaglie, il viso dai lineamenti regolari perdere la propria fisionomia a favore di quella di un muso adunco. Quando le ali, lunghe simili a quelle di un pipistrello, bucarono la pelle della schiena della principessa questa lanciò un ruggito disperato.
La mutazione di Hetzal in drago si consumò in pochi minuti e la corte, accorsa richiamata dalle urla della regina, assistette al primo ruggito del più grande drago che si fosse visto in quelle lande da almeno trecento anni.
Hetzal-drago sbuffò mentre cercava di raccapezzarsi nel suo nuovo sembiante, mosse qualche passo incerto distruggendo aiuole e martelline, muretti e fontane. Il movimento delle ali, che quasi in maniera autonome cominciarono a sbattere e, sollevando di qualche metro il bestione squamato, produssero un tale spostamento d’aria da scaraventare lontano buona parte delle guardie e in generale degli astanti.
Le tre amiche di Hetzal osservavano la scena chiuse in un silenzioso terrore, cosa poteva mai essere andato storto? La pozione divinatoria era una delle più semplice e l’avevano preparata almeno una dozzina di volte e niente era mai andato male.
Con un tonfo l’enorme rettile, perché in fondo questo era la bestia che stava davanti a loro, ricadde a terra sulle zampe posteriori e due densi fili di fumo cominciarono a uscire dalle nari mentre il grosso corpo verde veniva scosso fino a che, aperta la bocca dotata di una tripla chiostra di zanne, sputò un ampio fiotto di fuoco. Mancò di poco una delle torri del castello ma quasi distrusse un paio di posti di sentinella. Con un sibilo, seguito da un lamento, il drago arretrò di qualche passo calpestando nuove aiuole, distruggendo una casina di caccia e una parte del bosco che si estendeva ai limiti della proprietà reale.
La regina non vide tutto ciò perché era stata trasportata nei suoi appartamenti in preda ad un cedimento di nervi quando a sua figlia erano spuntate le ali. Zamoyn assistette a quell’evento impietrito, la sua speranza era riposta nelle arti magiche della Negromanta Excelsa, della quale si attendeva ancora con un lumicino di speranza l’arrivo.
Seminascosto dalle frasche e lontano dagli sguardi il drago si calmò e si sedette a terra. Una parte del cervello, rimasta ancorata ad una certa umanità, si rendeva conto di ciò che era capitato e cercava di dare una risposta razionale a quella situazione ma era sempre più difficile perché la ferinità tipica dei draghi sta prendendo il sopravvento. Il drago emise un lungo lamento, che dilagò per chilometri raggiungendo anche le zone più remote del regno poi scoppiò in quello che avrebbe potuto essere scambiato per pianto, se qualcuno vi avesse assistito ma anche quella esternazione così tipica dell’animo umano scemò in poco tempo e di Hetzal non restò niente nel drago verde smeraldo.
Intanto al palazzo la Negromanta Excelsa si era finalmente presentata e, dispersa per prima cosa la corte, aveva portato poi il re e le tre ragazze in uno studiolo e chiese delucidazioni su quanto accaduto. Era stata Galanthya a raccontare ciò che era avvenuto e scoppiando in lacrime.
A metà del racconto l’attenzione era stata attirata da un forte fruscio proveniente dall’esterno e, raggiunta la finestra l’anziana maga aveva visto il drago, svolazzare intorno al castello e poi allontanarsi verso la montagna, lanciando di tanto in tanto urla di rabbia e sfogando la sua frustrazione con enormi fiammate, che distrussero raccolti, bruciarono parti di bosco e villaggi lungo il suo cammino.
Il re si accasciò su una poltrona e implorò la donna di restituirgli la figlia ma quella, con una frase, distrusse ogni speranza dell’uomo. 
«Non si possono invertire gli effetti», spiegò la Negromanta Excelsa e aggiunse che, se anche fosse riuscita a renderle il suo aspetto umano, Hetzal non sarebbe mai mai tornata ad essere la ragazza che era stata fino a prima di bere l’intruglio che aveva preparato.
«In ogni caso mi metterò a studiare un incantesimo che almeno possa ammansire la bestia in modo da non farle distruggere questo paese», aggiunse raccogliendo le code del suo mantello color ebano ed abbandonando la stanza senza dire altro. Sapeva che l’attendevano giorni, e notti, di studio e di lavoro per riuscire a creare una magia potente a sufficienza da rendere quasi inoffensivo il drago.
Prima di lasciare lo studiolo si girò e si rivolse alle tre allieve, «Vi aspetto domani al tramonto all’Oratorio…mi darete una mano in questa impresa. Sarà il modo migliore per riparare al danno che avete fatto. Inoltre, secondo le regole della nostra sorellanza, entrerete tra le fila delle Negromantesse e vigilerete per la sicurezza della popolazione di Malamorn fino a che avrete fiato in corpo. Così ho deciso, così dovete obbedire». Le parole rimasero sospese tra loro e il punto dove la Negromanta Excelsa era svanita. Galanthya, Tzarley e Lamberya si guardarono. La loro vita era finita: le Negormantesse erano invero le più potenti maghe esistente in tutto il paese ma erano altresì costrette a vivere entro le mura dell’Oratorio, lontano dal mondo e dalla vita. La loro unica occupazione era lo studio di nuove formule e di nuovi incantesimi: ma per intraprendere questa via si doveva avere una grande dedizione allo studio, cosa che nessuno di loro tre possedeva. Comprendevano la decisione della Negromanta Excelsa perché in quegli anni avevano imparato a conoscerne la serietà e la severità. Dovevano considerarsi fortunate…
La prima a rompere il silenzio ferale disceso sulla stanza fu Lamberya, una lontana parente della famiglia reale, «Dove si sarà andata a nascondere?». Sapevano bene di chi stava parlando. Galanthya si avvicinò alla finestra e osservò la scia di fuochi e fumo che Hetzal-drago si era lasciata dietro. «Verso Oriente, in direzione della parte più impervia del Massiccio Irraggiungibile. Direi un luogo appropriato». Cercò di sorridere ma nessuno sembrò cogliere la sua ironia.
Il re, sempre sprofondato nella poltrona, piangeva silenziosamente e alla fine le tre fanciulle lo lasciarono solo e tornarono velocemente alle loro dimore. Dovevano dare la notizia di quello che era accaduto e di quale sarebbe stata la loro sorte dal giorno dopo alle loro famiglie.
Mentre Malamorn conosceva, nel modo più traumatico immaginabile, la disgrazia occorsa alla principessa Hetzal, il drago che fino a poche ore era stato la futura regina del piccolo principato raggiunse una grotta situata appena al di sotto della cima più alta del Massiccio Irraggiungibile. Lassù, in mezzo ai venti e alle bufere perenni, il drago si nascose. Man mano che i minuti trascorrevano il drago prendeva dimestichezza con il suo essere, il suo aspetto, scopriva le sue capacità - oltre a sputare fuoco e a poter volare - e quello che avrebbe potuto essere considerato un pensiero coerente si faceva strada nel suo elementare cervello di rettile. «Me drago. Me potente. Me grande. Me invincibile». Questo pensava la creatura mentre si avventurava fuori dal rifugio per cercare di nuovo le piantine da far bruciare. Questa volta invece di incendiarle sul posto, il drago - che aveva deciso che il suo nome sarebbe stato Alverna - ne sradicò alcuni e se li portò fino alla sua nuova dimora, li ridusse facilmente in pezzi e alla fine, modulando il suo potente getto di fiamma, li fece ardere. Alverna aprì la bocca in quello che poteva essere considerato un sorriso, godendo il calore che si sprigionava e alla fine si addormentò.
Non aveva più alcuna memoria che fino a quella mattina era stata una giovane donna di diciotto anni dai capelli castani e gli occhi azzurri con una passione per la magia e poca voglia di diventare regina. Per Alverna esisteva solo il ricordo di essere sempre stata un enorme drago.
La creatura dormì ininterrottamente per quasi 30 ore filate, sognando alte fiamme che devastavano campi villaggi e città, e al tramonto del terzo giorno si destò, affamata e desiderosa di mettersi alla prova.
Uscì dal suo antro e fu investita da una tempesta di neve ma non vi diede peso. Con un poderoso colpo d’ali Alverna si levò sopra i turbinii di neve e ghiaccio e si diresse verso la capitale di Malamorn.
Gli abitanti furono colti di sorpresa quando il drago color smeraldo si abbatté come una maledizione sulle loro case. Quel giorno i danni che si contarono furono quantificabili in 25 vittime, oltre un migliaio di feriti e una quantità di edifici distrutti o comunque danneggiati dalle vampate emesse dal lucertolone.
Il re, che tentava di riprendersi da ciò che era successo a sua figlia, si disperò nell’udire i racconti resigli dai messi mandati a palazzo dai cittadini e promise che si sarebbe occupato della faccenda. Mandò a chiamare il Generale dell’Accademia delle Arti Guerresche e gli ordinò di addestrare guerrieri in grado di combattere contro un drago, quindi cercò di convocare, di nuovo, la Negormanta Excelsa ma per tutta risposta ottenne un biglietto in cui la donna non solo si negava, adducendo il fatto che stava lavorando per trovare una soluzione, ma anche lo invitava a non richiedere più la sua presenza a palazzo, dato che il suo posto erano entro le mura dell’Oratorio. Stava per buttare il biglietto nel fuoco quando sul retro Zamoyn trovò un ultimo messaggio, più incoraggiante, da parte dell’Arcimaga. «Ogni nostro respiro, ogni nostro potere, ogni nostra conoscenza è al servizio della Casa Reale per cercare di rendere alla principessa Hetzal non solo il suo aspetto ma anche la sua anima».
-178 anni dopo - 

Alla luce di undici candelabri da cinque bracci tre vecchie dall’aspetto incartapecorito stavano abbarbicate ad altrettanti sgabelli parlandosi fittamente. Le schiene incurvate dagli anni di studio ininterrotto erano avvolte da lisi mantelli neri. I visi, i cui lineamenti erano nascosti da un reticolato di rughe profonde e sottili, avevano un’espressione grave e le parole che si scambiavano erano tremolanti quasi quanto i loro respiri stessi.
Intorno a loro l’ambiente rispecchiava il loro aspetto: muri di spessa pietra crepati per quasi tutta la loro altezza, intorno a loro pezzi di legno prendevano polvere e offrivano riparo a ragni e topi. La volta dell’enorme cripta dell’Oratorio della Negromanzia cadeva a pezzi e reggeva ancora grazie ai puntelli che giovani guardie, prestate dalla vicina Accademia delle Arti Guerresche, avevano sistemato in più di un’occasione in quei quasi 180 anni.
Pur trovandosi parecchi metri sotto terra l’ambiente fu squassato da un rombo sordo che fece tremare quella parte dell’Oratorio fin nelle fondamenta. Dai corridoi laterali si udirono i tonfi dei corpi delle passate consorelle Negromantesse caduti a terra a causa delle scosse. In pochi minuti una decina di giovani comparvero e si diressero verso i cunicoli delle catacombe per rimettere al loro posto le mummie.
Una delle tre anziane sacerdotesse sospirò, avvolgendosi nel suo mantello. «Abbiamo trascorso l’intera nostra esistenza cercando una pozione che potesse rendere a quel mostro la sua forma originaria ma abbiamo fallito. Il nostro tempo è quasi finito». La voce di Galanthya aveva perso tutta la freschezza della gioventù e la forza che in quegli anni giovanili l’aveva animata nella ricerca di una pozione per rendere a Hetzal il suo aspetto umano.
Sopra le loro teste il soffitto tremolò di nuovo e della polvere di mattone cadde tutto intorno, imbiancando il pavimento e ricoprendo ciò che restava di scrittoi e degli scaffali dove i libri più antichi riposavano da secoli.
Lamberya allungò una mano e un volume volò alla sua mano. la vecchia maga lo aprì e scorse le pagine. «É inutile - disse con tristezza Galanthya -. Sorella Tzarley ha già consultato quel libro milioni di volte sperando di trovarci qualcosa di utile». Con uno sbuffo l’anziana negromantessa lo chiuse e lo rimandò a posto con un movimento della mano. Oltre ottanta anni di studi quasi ininterrotti e le uniche cose che avevano imparato erano quei trucchetti da baraccone.
Le guardie, che avevano il compito di difendere le tre anziane maghe, tornarono nella sala e domandarono se volevano qualcosa. Uno di loro aggiunse che si trovavano in quel luogo da almeno sedici ore e che forse era opportuno che si prendessero un po’ di riposo. «Ragazzino - lo apostrofò Sorella Lamberya con una certa alterigia - siamo chiuse in questo Oratorio da quasi 180 anni…sedici ore in più o in meno non faranno certo la differenza».
Sorella Galanthya tossicchiò cercando di ridere ma, con fatica, scese dallo sgabello e chiamò un giovane allievo dell’Accademia per farsi aiutare a camminare. Le altre due la seguirono, sorrette da altrettanti baldi guardie. Gli uomini erano a tal punto preoccupati per la loro incolumità che non si accorsero delle tre bottigliette di cristallo blue, colme di un liquido all’apparenza trasparente, nascoste sotto i loro sai di streghe.
Gli uomini dell’Accademia scortarono le tre donne ai piani superiori, fino alle loro celle. Dall’esterno li raggiunsero le urla degli uomini e delle donne sorpresi da Alverna per strada.
Uno degli uomini sospirò, «Quando finirà questa persecuzione». Sorella Tzarley scosse il capo velato. «Non finirà mai, a meno che noi non riusciamo a trovare un modo per restituire ad Hetzal il suo aspetto originario oppure qualcuno riesca a scoprire il suo punto debole ed ucciderla».
Con un inchino le guardie lasciarono le tre anziane davanti alle porte delle loro celle e si allontanarono, diretti verso la vicina Accademia. Il loro turno per quel giorno era finito. Si sarebbero ripresentati alla porta dell’Oratorio nel giro di sei ore, avevano bisogno di riposare. Le ultime ore erano state le peggiori: Alverna aveva attaccato almeno quattro volte e il fumo ancora si alzava dagli edifici colpiti.
Appena usciti i giovani scudieri, le tre Negromantesse - ultime dell’antico ordine che aveva divulgato il sapere magico nell’Anterland per secoli - - invece di entrare nelle loro stanze, si avviarono per il corridoio e raggiunsero una porta. Sorella Lamberya trasse fuori da sotto la veste una pesante chiave di ottone arrugginito e l’inserì nella toppa. Con un cigolio prolungato aprì il vecchio uscio. Di fronte a loro si snodava un lungo corridoio buio. Senza timore si incamminarono per quell’oscurità densa e profonda. A parte loro nessuno sapeva, o si ricordava, di quel passaggio che conduceva al palazzo reale. Nonostante la veneranda età delle tre donne non ci misero molto a raggiungere il castello, ridotto ormai, come buona parte delle costruzioni di Halamern, ad un rudere. 
Senza emettere un rumore aprirono il portoncino ed entrarono nel famoso studiolo, dove 178 anni prima la Negromanta Excelsa aveva decretato il futuro delle loro esistenze all’interno della sorellanza. I libri che un tempo avevano trovato posto sugli scaffali di mogano, ora giacevano abbandonati a terra ed erano ricoperti da uno spesso strato di polvere. La poltrona del re, dove il padre di Hetzal aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita, era ancora al suo posto ma l’imbottitura era stata mangiata dai topi. 
Intorno a loro tutto appariva abbandonato e il palazzo inabitato ma loro sapevano che non era così. Si lasciarono alle spalle lo studiolo e a passo decisamente più sicuro di quanto avessero mostrato agli allievi dell’Accademia, si incamminarono verso un’altra ala del palazzo. Se dall’esterno l’aspetto non differiva dal resto dell’edificio, il suo interno era ben mantenuto. Era tutto merito di uno degli incantesimi più potenti creati dall’Arcimaga per proteggere la famiglia reale. In quel piccolo spazio protetto i regnanti che si erano succeduti sul trono erano stati allevati , lontani dalle minacce costanti di Alverna.
Senza bussare e senza farsi annunciare le tre sorelle nella negromanzia fecero il loro ingresso nella stanza centrale dell’enclave reale, ricavata proprio all’interno di quello che un tempo era stato l’appartamento di Hetzal. Davanti a loro trovarono una scena di vita familiare: la regina accudiva i figlioletti mentre il re - seduto alla scrivania - leggeva gli ultimi dispacci dalle vedette. Le notizie non erano buone, anzi per dirla tutta erano pessime e a lui non restava altro che attendere con speranza che le tre Maghe trovassero una soluzione.
Quando le vide entrare corse loro incontro come un bambino, con la non tanto segreta speranza che esse avessero buone nuove da dirgli. Bastò un’occhiata ai loro visi per capire che non era così e l’uomo ripiombò di colpo alla dura realtà. Gli attacchi di Alverna erano diventati quotidiani e sempre più violenti, impedendo anche le più semplici operazioni di riparazioni dei danni. O la possibilità di impiantare qualche nuova coltura. O impiantare un nuovo mercato. O riaprire i cantieri navali. Ma Alverna non lasciava scampo. 
«Maestà - Sorella Tzarley si rivolse con deferenza all’uomo che ancora portava la corona di Malamorn ma che valeva quanto l’ultimo ciabattino del regno - nemmeno ora abbiamo notizie positive. Nei nostri libri, che contengono tutta la conoscenza sulla negromanzia e sulle arti magiche, non abbiamo trovato nulla che possa esserci utile. Vi abbiamo dedicato la vita, superando i limiti imposti ai nostri corpi mortali, per portare a termine questa missione». Il tono era di rammarico ma vi era una punta di rabbia malcelata per il fallimento. «Non disperiamo, in ogni caso, di trovare una soluzione. Prima o poi», aggiunse Sorella Galanthya, delle tre quella che aveva maggiore influenza sul sovrano.
«Ho capito. Ho capito», tagliò corto re Olward girando loro le spalle. E in quel momento la stanza fu scossa da un terremoto, solo che non era la terra a scuotersi ma il cielo. Con un tonfo pesante e un frenetico movimento alare, Alverna discese in ciò che restava del parco reale, ormai trasformato in un intrico di rampicanti ed edera, e ruggì.
I vetri tremarono ma non si ruppero, grazie alla barriera creata dal potente sortilegio. 
Le tre dame della negromanzia corsero, più velocemente di quello che la loro vetustà avrebbe dovuto consentire loro, a vedere Alverna seduta in mezzo a quello sfacelo naturale. La stazza non era cambiata in quegli, le squame che 
Si guardarono perplesse e quando il drago si volse verso di loro quasi cacciarono un grido strozzato. Gli occhi della bestia si mossero veloci verso di loro e per un momento alle tre donne sembrò di vedere baluginare un riflesso azzurro. Si guardarono tra loro di nuovo e si parlarono nell’antica lingua della negromanzia. «Non possiamo esserci sbagliate tutte e tre», disse Sorella Galanthya. Olward ordinò alla moglie di portare al sicuro i figli e poi andò nella stanza accanto, dalla quale emerse con indosso una vecchia armatura. Da dietro l’elmo due occhi azzurri, identici a quelli di Hetzal, lampeggiavano di rabbia e desiderio di vendetta.
Brandendo una spada arrugginita il sovrano si fece avanti, chiedendo alle tre Arcimaghe la loro benedizione per quello che stava per fare ma Sorella Lamberya lo fermò. «Non potete sacrificarvi», ma il re scosse la testa. «É compito mio liberare il mio regno e il mio popolo da questa maledizione. Spetta a me. E se devo sacrificare la mia vita per questo, lo farò. Non mi importa di morire, se questo renderà liberi e sicuri gli abitanti di Malamorn».
Olward era agguerrito e alla fine fu chiaro che non sarebbero riuscite a dissuaderlo. «Permetteteci - si intromise Sorella Ttzarley - di porre su di voi un incantesimo di protezione». E prima che quello potesse obiettare, le tre Negromantesse pronunciarono arcane rime e una luce investì il re. L’armatura ora riluceva come appena uscita dalla bottega di un Mastro Fabbro e la spada era tornata affilata come quando era stata forgiata.
All’esterno Alverna restava seduta, osservando il cielo terso. Della ferocia che l’aveva caratterizzata da quando si era trasformata non sembrava restare nulla in quel grosso lucertolone. 
Con una magia Sorella Galanthya trasportò all’esterno il re, pronto al combattimento definitivo con la Bestia.
Con circospezione Olward mosse qualche passo verso Alverna, pronto a difendersi in caso di attacco ma il terribile drago non si mosse quando lo vide. Tra le enormi zampe reggeva pezzi di marmo annerito. In un passato ormai dimenticato lontano e dimenticato avevano formato una serie di panchine sistemate negli angoli più ameni del parco ma negli anni i ripetuti attacchi le avevano ridotte in briciole. Proprio su una di quelle panchine la principessa Hetzal si era cangiata nell’enorme drago sputafuoco Alverna.
Il re si fece più vicino, brandendo la spada ma appena fu all’altezza di una delle zampe del drago vide che intorno a lei era umido. Volse il viso in su e vide che dagli occhi giallo oro colavano pesanti lacrime saline. 
Prima che lui potesse rendersene conto, le Negromantesse lo avevano raggiunto. In alto, sopra le loro teste, il sole brillava caldo e l’aria era satura di umidità. Si avvicinarono al drago e gli si rivolsero in una strana lingua ma Alverna rispose con un grugnito e si indicò la gola. Non poteva più sputare fuoco non poteva più ruggire, riusciva solo ad emettere sordi grugniti.
Prima che le tre donne o il re potessero fare qualcosa, un urlo strabordante ruppe il silenzio. Un rumore di ferraglia si udì e dal buio di uno dei corridoio dismessi emersero un gruppo di guardie, armate e pronte alla battaglia.
Alverna aprì le ali e le mosse, appena appena, librandosi sopra i presenti ma senza scatenare un ciclone di fiamme e fumo. Prima che i soldati potessero farsi vicino Sorella Lamberya si frappose tra loro e il drago mentre le sue due consorelle cercavano, con gesti concitati di far tornare al suolo il bestione.
Olward non esitò oltre e alzò la spada, appartenuta ai suoi avi, costringendo il plotone al fermarsi, stupito di trovarsi davanti il re, le tre sorelle Negromantesse e, ovviamente, Alverna.
«Fermi e non procedete oltre - urlò all’improvviso Sorella Galanthya, mentre con la mano guidava Alverna a terra di nuovo -. É un momento epocale». 
Lasciando tutti di stucco, la decrepita maga si sollevò in aria e si pose davanti agli occhi del drago. Di nuovo, inaspettatamente, vide dell’azzurro baluginare in mezzo all’oro liquido degli occhi da rettile del drago.
«Hetzal?», mormorò e ottenne in risposta un grugnito sospiroso.
La vecchia strega sorrise e richiamò a sé le sue due amiche e consorelle. Imitandola, Sorella Lamberya e Sorella Tzarley si sollevarono e si presero per mano, formando una catena. Cominciarono ad intonare un’antica nenia, utilizzando un perduto linguaggio. Alverna, sedotta da quella musica e dalle parole, che penetravano il suo cervello draghesco, tornò a terra calma e remissiva.
Fu allora che le tre streghe trassero dai loro manti neri le boccette e le scagliarono contro il drago e davanti agli occhi di Alverna esplose un fascio di luce accecante…

…senza alcuna grazia Hetzal mugugnò quando il sole la colpì in viso. Aprì gli occhi e si guardò intorno, era semisdraiata per terra, nella sala centrale dei suoi appartamenti. Sul tavolo ancora gli alambicchi e le provette che aveva utilizzato per preparare la pozione divinatoria. Si ricordò che l’aveva bevuta e poi il mondo si era spento.
Stava per andare a cercare le sue tre amiche, quando esse rientrarono seguite dalla Negromanta Excelsa e dai genitori di Hetzal.
La principessa dovette sorbirsi una ramanzina con i fiocchi e dovette promettere che non si sarebbe più cimentata in alcun genere di incantesimi fino a che non fosse stata assegnata a un Arcimago per fare pratica.

lunedì 10 febbraio 2014

LA VICENDA DELLE SORELLE MORÉLL


Due impercettibili bagliori: alle sorelle Moréll, strette dietro i vetri di una finestra del piano terra, fu così che i fanali della lussuosa auto dello zio Marcel apparvero, baluginando nella notte. Era l'inizio di dicembre e la visita dell'anziano era attesa. Le donne dovevano dare all’anziano parente una risposta definitiva alla richiesta presentata durante la visita precedente.
Erano nervose, le cinque donne, ma non si sarebbero lasciate distrarre dai modi sussiegosi dello zio. Osservarono l'automobile percorrere il viale che conduceva all'ingresso della dimora, dove avevano scelto di vivere da recluse dopo la morte dei genitori. Trascorrevano le giornate coltivando le attività a loro più congeniali, grazie alla rendita che lo zio Marcel doveva versare ogni mese alla loro banca, secondo le disposizioni testamentarie paterne.
Non uscivano mai, non avevano spasimanti, non si recavano nemmeno alla messa domenicale, raramente si facevano vedere in paese. Accadeva solo quando dovevano acquistare lo stretto indispensabile e per vendere alla proprietaria del ristorante le loro speciali torte salate. Spesso era avvenuto che qualcuno, soprattutto forestieri, si presentasse a casa loro per acquistarle senza passare dalla locale drogheria. Dopo un piacevole pomeriggio in loro compagnia se ne andavano soddisfatti con i loro tortini e nessuno di loro aveva più messo piede in paese, almeno così spiegavano le donne.
Le eredi della benestante famiglia Moréll avevano sempre vissuto in quella casa, vi erano nate e, quando fosse giunta la loro ora, vi sarebbero morte. Non avevano nessuna intenzione di andarsene e avrebbero fatto qualunque cosa per mantenere quel loro inalienabile diritto.
Lo zio fu accolto con molta solerzia dalle nipoti. Lo fecero accomodare nel salotto dalla carta da parati color smeraldo, davanti al fuoco. Sul tavolino di fianco alla sua poltrona, trovò una tazza del suo tea preferito e un bicchiere di brandy. «É sempre un piacere rivedervi caro zio», esclamò Linney, sorridendo, trascinandosi dietro una riluttante Gertry, precedendolo di poco. L'anziano procuratore si fermò ad osservare di nuovo la giovanetta. Gertry era da poco uscita dall’adolescenza, non era tanto alta ma aggraziata, la delicata curva della schiena fatta risaltare dal vestito nero, la pelle serica e candida. Occhi sorridenti e un nasino delicato le conferivano un certo fascino.
La guardò senza pudore, intensamente, tanto che Gertry abbandonò la stanza, sbattendosi dietro la porta, irritata da quel comportamento. Marcel sogghignò con soddisfazione mentre si accomodava e sorbiva la bevanda calda ed il liquore. Notò che entrambi avessero uno strano sapore ma era molto stanco, voleva una risposta e non ci badò. Era là per una ragione precisa. Marcel Moréll voleva che gli dicessero che si poteva prendere la casa e la piccola Gertry, se avessero risposto positivamente avrebbero potuto rimanere a vivere entro quelle mura  insieme a lui, altrimenti avrebbero dovuto andarsene senza indugio. Era stato molto chiaro in merito. 
Ribadì senza mezzi termini ciò che considerava un suo diritto legittimo, dato che era il loro unico parente ancora in vita.
Invece di rispondergli, con un inchino, Halley e le altre uscirono alla ricerca della piccola, in preda ad una gran rabbia. «Quel maledetto bifolco...», balbettò Halley in preda ad una crisi nervosa, mentre avanzavano lungo il corridoio, «Vorrebbe prendere in sposa Gertry e trasferirsi qui, a vivere. Ha avuto il coraggio di dircelo in faccia, come l'ultima volta che ha posato il suo grasso deretano sulla poltrona, ma vi rendete conto? Nostro zio, fratello di nostro padre...sposare Gertry, che è solo una bambina ed è sua diretta nipote». Le altre quattro la guardarono. «Non lo permetterò!», sbottò Emmeline con rabbia, stringendo i pugni ma Halley la zittì «Ha detto che ci manderà via da casa e sospenderà la rendita se non lo accontentiamo». 
La maggiore delle Morèll si sedette su una poltroncina: «Sostiene che, dato che nessuna di noi è sposata o ha intenzione di farlo, la casa passerà a lui, come unico parente prossimo. La sua intenzione è prendersela il prima possibile, vista la sua età avanzata. Conosce la legge e, senza dubbio, sa come aggirarla. Se non troviamo un modo per liberarci di lui si prenderà tutto ciò che ci è più caro». Scosse il capo sperando di riuscire a scacciare i terribili pensieri che le affollavano la mente.
«Non voglio sposarlo. Punto.», squittì Gertry, seduta in un angolo, sopraffatta dalla notizia. Si strinse le braccia intorno al petto e serrò le labbra in un'espressione di corrucciato rifiuto.
Emmeline e Jacintha camminavano avanti e indietro, riflettendo su come evitare quella catastrofe, l'esser scacciate dalla loro amata dimora e perdere quella che era la quasi unica fonte di sostentamento che avessero. Il peggio sarebbe stato vedere la loro adorata sorellina sposata a quell'essere viscido e avido che si era rivelato essere loro zio. «Ospitiamolo, mentre cerchiamo un modo per fargli cambiare idea. Intanto spero che abbia gradito il tea e il liquore...», disse Jacintea con un sorriso furbetto che le alzava gli angoli della bocca. «É il minimo per nostro zio», le fece eco Emmeline, che strizzò l'occhio alla sorella, intuendo cosa stesse escogitando, con un sorriso sornione.
Nel mentre Marcel Moréll si crogiolava nella poltrona, pensando alla scena, che parecchie stanze più in là si stava consumando. Un largo sorriso da avvoltoio gli si aprì sulla faccia. Dopo pochi minuti, molto più composte e tranquille le cinque sorelle tornarono dallo zio. Catherine gli si inginocchiò di fianco a lui e gli propose di fermarsi presso di loro per tutto il tempo che avrebbe voluto. Gli ricordarono che poco mancava a natale e che avrebbero potuto trascorrerlo insieme. Per la prima volta avrebbero partecipato ai consueti trattenimenti organizzati dalla comunità. 
L'uomo fu sorpreso dell'invito ma non rifiutò, sentendosi già proprietario di tutto e, vivendo lì, avrebbe potuto attingere all'eredita delle nipoti e spenderla come avrebbe voluto.
Ma nulla andò come si era immaginato l'avvocato. 
Nei giorni che seguirono il suo arrivo a casa delle nipoti, le sue condizioni di salute peggiorarono. Nonostante le premurose cure delle cinque donne. Al mattino lo accompagnavano al salottino, lo aiutavano a mangiare, gli leggevano i libri o sceglievano i dischi più belli da ascoltare. Si avvicendavano, premurose, al suo capezzale e non mancavano mai di preparargli brodi caldi, tisane, manicaretti preparati per lui. Nonostante il cagionevole stato di salute l'uomo rimase fisso nella sua idea: mettere le mani su quella villa, sui soldi, su Gertry.
In meno di una settimana il vecchio non poté più alzarsi dal letto e, per quanto esse si prodigassero, subito prima di natale, spirò. Fu chiamato subito il medico, le cinque sorelle si sentirono dire che doveva essere eseguita un'autopsia e non poterono rifiutare ma chiesero, ottenendolo, di potersi portare a casa la salma una volta terminati gli esami. 
Il responso fu che il vecchio Marcel Moréll era morto per le complicazioni di una malattia molto comune: la vecchiaia.
Il funerale si svolse dieci giorni dopo, alla presenza di tutti gli abitanti del villaggio e quella sera servirono, a coloro che andarono a far loro visita, quello che fu definito il miglior tortino che avessero preparato fino ad allora.
Ripresero la vita di sempre ma un giorno dalla capitale giunse una lettera che chiedeva la loro presenza in città e lasciarono la casa che tanto amavano. 
Passarono mesi, poi un giorno arrivò una donna mai vista al villaggio, chiuse le imposte, appese un cartello per la vendita nel giardino e se ne andò. In poche settimane la dimora dei Moréll fu venduta ad un gruppo di artisti, che vi si stabilirono, occupando ogni ambiente a disposizione: dalla soffitta alla cantina.
Furono eseguiti una serie di interventi di ristrutturazione e, durante uno di questi, la cantina restituì una ventina di scheletri, appartenenti a uomini e donne, tra cui quello che fu riconosciuto appartenere a Marcel Moréll. 
I resti erano semi sepolti sotto quella che sembrava essere una presa d'aria ma che, fu dimostrato essere in collegamento con la cucina. Gli investigatori  riuscirono a risolvere il mistero grazie ad un «ricettario», forse dimenticato apposta sul tavolo di cucina, e la verità fu rivelata in tutta la sua crudezza: per anni le dolci e riservate fanciulle avevano venduto torte ripiene di carne umana ai loro concittadini, l'ultimo preparato con la carne del loro stesso zio.

martedì 28 gennaio 2014

HORKAN'S REVENGE (mai fidarsi degli estranei)

Le acque dell’oceano erano tiepide, la corrente dolce e lasciarsi trasportare da essa una delizia. Lamantina pensava così mentre nuotava sul dorso, le braccia dalla carnagione perlacea sollevate appena sopra il pelo dell’acqua. La sensazione dello sciabordio sulla pelle le procurava brividi di piacere. Chiuse gli occhi e diede un lieve colpo di coda. 
Erano giorni lieti quelli: il sole scaldava la terra e dalle profondità marine si poteva salire verso la superficie e trascorrere qualche ora con la testa fuori dall’acqua. Alcuni si avventuravano fuori dall’acqua, strisciando sulla sabbia le loro lunghe code color argento per raggiungere gli scogli e bearsi di quel tepore prima di tornare nelle loro dimore tra gli anfratti oceanici, nascondendosi dai grandi predatori. Laggiù la luce non riusciva a giungere e vivevano in un ambiente freddo e oscuro, i loro occhi si erano adattati a quei luoghi nei lunghi secoli trascorsi da quando il primo gruppo dei loro progenitori si erano immersi per sfuggire agli sconvolgimenti terrestri. Le cronache tramandate erano abbastanza chiare, in quei tempi lontani i loro antenati era profondamente differenti da loro, fisicamente. 
Lamantina diede una seconda spinta e inarcò la schiena, immergendo completamente prima la testa poi il resto del corpo e compiendo una giravolta per girarsi. Cominciò a nuotare veloce, dall’acqua trasparente si scorgeva solo il suo profilo e una piccola pinna color perla.
Intorno a lei i capelli si muovevano in onde scomposte. Andava molto fiera della sua chioma color verde acqua, che insieme alla pelle candida e alla coda color argento scuro le permetteva una certa mimetizzazione tra le rocce e la vegetazione dei fondali.
Procedeva spedita, pensando di raggiungere un gruppo che sapeva essersi diretto verso un isolotto per trascorrere qualche ora al sole prima di andare a caccia di pesci.
Aumentò il ritmo delle pinnate, utilizzando le braccia come remi, immersa nei suoi pensieri. Dal nulla una figura comparve al suo fianco. Lamantina si fermò di botto, spaventata al pensiero che potesse essere qualche predatore. Anche l’ombra si fermò. Con un colpo di coda la ragazza salì verso la superficie, quello dietro. Emerse e si guardò intorno cercando di scorgere qualche segnale dell’imminente attacco ma, invece, incontrò solo gli occhi neri di un giovane. Lamantina si scostò con timore mentre l’altro non si mosse. Da sotto l’acqua sembrava sorridere e Lamantina intravide una fila acuminata di denti. 
Fece per allontanarsi ma il misterioso giovane la seguì, nuotandole al fianco senza difficoltà. Percorsero non più di qualche metro, alla fine Lamantina si fermò e si voltò verso di lui allungando un braccio per impedirgli di farsi più vicino.
«Cosa vuoi da me? Vattene. L’oceano è grande». Aveva paura. Non aveva mai visto un abitante dell’oceano come quel misterioso giovane uscito dal nulla. Era più muscoloso ed alto rispetto agli uomini che conosceva. L’espressione del suo viso era anche simpatica, quando non metteva in mostra quella sua chiostra di zanne. Il naso non era schiacciato come la maggior parte di quelli come loro ma a punta e la pelle era simile alla sua. Aveva capelli bianchi, che scendevano ai lati del viso in ciuffi dritti. I muscoli del torace guizzavano ad ogni movimento di coda. Non aveva mai visto una pinna caudale come quella: era lunga e liscia e senza squame, con una pinna caudale oblunga invece che piatta con una membrana finale come la sua. La parte interna era più chiara di quella dorsale. «Sei bella», disse quello, storcendo la bocca. Lamantina si sentì avvampare a quell’affermazione. Parecchie volte le era capitato di sentirsi fare quel complimento, ma non in modo così aperto e soprattutto mai da uno sconosciuto. Rimase senza parole e quello, da parte sua, non aggiunse altro.
La sirenide sorrise a sua volta, ancora timorosa che quello strano uomo, così diverso da quelli della tribù di cui faceva parte, potesse farle qualcosa di male.
«Horkan», disse l’uomo pesce indicandosi. Aveva una voce gutturale e profonda. «Lamantina», rispose lei, modulando le alte note della sua. Gli occhi cominciavano a dolerle per la luce e fece cenno all’uomo di seguirla mentre si inabissava.
Si lasciarono scivolare sotto la superficie fino a che si ritrovarono in un luogo buio e fresco. Si osservarono con attenzione. Più Lamantina lo osservava più scopriva di non averne paura, anche solo per prudenza. 
Cominciarono a nuotare vicini, sfiorandosi di tanto in tanto con la punta delle rispettive code. La ragazza si chiese se anche lui poteva utilizzare quello che le cronache definivano come «telepatia» oppure no. Era un sistema che permetteva loro di comunicare senza produrre un suono. Molto comodo nelle situazioni di pericolo o durante la caccia.
Nuotarono per molto tempo e infine giunsero vicino ad una striscia di terra rocciosa, che confinava con il territorio abitato dalla tribù di Lamantina. Le leggi proibivano di spingersi oltre, perché le antiche storie sostenevano che in quelle zone, tanto in mare quanto sulla terraferma, vivessero orrende creature.
Horkan indicò un vago punto all’orizzonte, la luce baluginava tra l’oscurità dell’acqua creando ombre, e disse «Io vengo da là». Ricominciò a nuotare ma Lamantina non si mosse, in preda ad un improvviso terrore, poi si girò e fuggì ma non riuscì a fare che pochi metri. Sentì due braccia forti stringerla. Il cuore le batteva all’impazzata e cercò di divincolarsi ma non vi riuscì.
D’improvviso in lei crebbe una paura mai provata prima di allora. Una sensazione che le mozzò il respiro a metà e la bloccò. Non aveva provato un tale smarrimento nemmeno quelle volte che, durante le esplorazioni ai confini del loro territorio, si era imbattuta nei grandi pesci della zona sud, che potevano divorare quelli come lei senza fatica. 
Horkan era molto forte e la tratteneva senza sforzo. Lamantina lanciò un grido, sperando che qualcuno arrivasse a salvarla ma fu sfortunata. Intorno a loro si estendeva un deserto color blue acceso.
«Stai tranquilla», mugolò quello e disse qualcosa che poteva suonare come «Non voglio farti del male. Mi piaci» e la lasciò andare. Lamantina era ora terrorizzata, lui la fissava con quei suoi occhi neri freddi, senza apparente espressione. Una cosa che conferiva un che crudele a tutto il suo aspetto. Con goffi tentativi sembrava cercare di farle capire che non voleva farle del male.
«Sei bella», disse ancora in quel suo modo profondo e sgraziato, cercò di farsi vicino ma lei lo tenne lontano, sempre più impaurita. Lui parlò ancora, sebbene fosse chiaro che non fosse abituato ad utilizzare la voce come mezzo di comunicazione. Le ripeté il complimento e a quel punto lei si voltò e nuotò via, lasciandolo da solo.
Horkan le andò dietro ma Lamantina si nascose dentro una grotta seminandolo. Quando fu certa che si fosse allontanato abbastanza, uscì dal suo nascondiglio e nuotò verso un posto sicuro, dove lo strano personaggio non potesse raggiungerla.
Non le ci volle molto per arrivare allo scoglio dove alcuni suoi amici stavano godendosi il sole. La salutarono con grida e richiami, lei si arrampicò sulla roccia, raggiungendoli.
Non parlò a nessuno di loro del suo incontro, si sarebbe scatenata la follia se si fosse venuto a sapere che esisteva un’altra popolazione di gente come loro ma con caratteristiche analoghe a quelle del grande Predatore Azzurro: gli occhi, la forma della coda, i denti affilati.
Durante il suo intermezzo con questo Horkan, Lamantina aveva potuto notare i denti affilati e la sua possanza fisica, osservando ora i suoi amici maschi la superiorità fisica dello sconosciuto era palese. In un eventuale confronto era chiaro chi avrebbe avuto la meglio.
La giovane donna si disse che avrebbe taciuto dell’incontro con gli amici ma avrebbe parlato con suo padre, perché a sua volta riferisse agli gli Anziani quello che le era accaduto. Deciso questo Lamantina si unì all’allegra conversazione e si dimenticò per un po’ di Horkan e della minaccia che poteva rappresentare per la loro sicurezza.
La sua amica Ellaria ruppe quell’atmosfera gioiosa lanciando un urlo e indicando un punto non troppo distante da loro. «Guardate, un Predatore Azzurro».
Lamantina e gli altri allungarono lo sguardo, facendosi schermo con le mani, e scorsero una pinna triangolare spuntare dalle onde. Riparandosi con la mano osservò il gigante del mare muoversi nella loro direzione. «É troppo piccola per essere quella di un Predatore Azzurro. Sarà di un qualche pesce che se ne va a zonzo per queste acque. Non abbiamo di che preoccuparci», disse con competenza Lashin, sdraiandosi di nuovo. «Secondo me è un cucciolo. E dove c’è un cucciolo ci sarà sicuramente la madre e non sarà lontana. Meglio scappare adesso che è ancora lontano e cercare un posto dove nasconderci», aggiunse Ellaria, con voce tremante. Lamantina scosse la testa, prima che i piccoli fossero svezzati era raro che una femmina transitasse per quelle aree, che pullulavano di pesci abbastanza grossi da mangiarsi anche un piccolo di Predatore Azzurro ed affrontare poi una madre inferocita. «Non è stagione, la maggior parte di quelli nati lo scorso anno adesso sono cresciuti. In questo periodo dell’anno poi nuotano verso zone più fredde, qui è troppo caldo per loro. E come ha detto Lashin, la pinna è troppo piccola per essere uno di loro», disse Lamantina, cercando di apparire tranquilla.
La grossa pinna continuava la sua corsa verso il loro angolino di terra e si fermò a pochi centimetri dalla roccia. Una testa dai capelli bianchi emerse dall’acqua. Horkan sorrise a Lamantina, la chiostra di denti brillò al sole. «Lamantina», gracidò il suo nome. Senza attendere una reazione da lei si arrampicò sullo scoglio e la raggiunse.
Lashin, Ellaria e gli altri del gruppo guardarono la scena senza capire. Lamantina non seppe altro che presentare il visitatore. «Horkan». Poi si tacque.
Quello si voltò e salutò, mettendo di nuovo in mostra la sua dentatura. «Almeno non è un Predatore Azzurro». sospirò Ellaria. «Infatti sembra un incrocio tra uno di noi e uno di loro. Osserva la sua coda. É identica a quella di uno di quei mostri», le rispose Kunn, sarcastico. Horkan non badava alle loro chiacchiere, troppo intento a cercare di comunicare con Lamantina.
«Ti ho cercata dovunque, sono tornato indietro», cominciò a dire quello, la voce era uno stridio cupo per le orecchie delicate della ragazza e dei suoi amici. «Cosa vuoi da me? Perché continui a seguirmi?», domandò Lamantina, spazientita, cercando di allontanarsi da lui.
«Sei bella», rispose Horkan. La sua voce gutturale aveva un sottofondo di imbarazzo poi aggiunse, «Sei la prima che vedo simile a me». A quella confessione Lamantina e i suoi amici lo osservavano perplessi. Lui proseguì: «Dove vivo io, sono l’unico così», si indicò e si toccò i capelli. «Da dove provieni?», chiese Lashin, più incuriosito che spaventato dallo strano essere. Horkan indicò oltre le loro spalle, verso la barriera rocciosa che delimitava i loro territori. Secondo quanto stava dicendo proveniva da una delle zone più pericolose di tutto l’oceano, dove si potevano incontrare i più temibili predatori. «Forse dovremmo portarlo dagli Anziani», propose Lamantina. «Sicuramente loro sanno cosa fare». «Se l’avessero seguito?», chiosò Ellaria, ormai in preda al panico e desiderosa solo di andarsene. I suoi genitori erano stati uccisi da un Predatore Azzurro quando era piccola e da allora viveva nel terrore di trovarsi faccia a faccia con uno di questi mostri. Lashin era sempre più incuriosito dallo strano tizio. La sua coda era molto simile a quella di un predatore azzurro, ma per il resto era del tutto identico a loro. «Lamantina ha ragione, portiamolo con noi e cerchiamo di chiarire questa strana faccenda».
Horkan cercava di seguire la conversazione muovendo la testa da un viso all’altro. Lashin, Ellaria e gli altri si tuffarono in acqua e lo invitarono a seguirli.
Nuotarono per un po’ appena sotto la superficie, fino a che giunsero ad un’insenatura sottomarina. Si inabissarono e nuotarono per qualche metro, quindi si infilarono in un tunnel e, dopo quella che ad Horkan sembrò un’eternità, uscirono in una grotta. Era fresco e l’acqua limpida, nonostante intorno non vi fosse alcun tipo di luce naturale. Horkan notò delle piante, simili ai coralli, che emettevano una rifrazione luminescente.
Il gruppo si inoltrò ancora, fino a giungere in una piazza circolare. Durante il percorso Horkan scorse parecchie persone, che li osservavano incuriositi. Soprattutto dalla sua presenza.
Lamantina andò avanti e tornò quasi subito, seguita da un uomo barbuto. Indicò Horkan e la sua espressione mutò. Le sue labbra erano ferme ma sembrava impegnata in una conversazione con il nuovo venuto. Avrebbe voluto dire qualcosa ma il suo cervello sembrava essersi perso tutti i pensieri. Gli capitava spesso, dato che passava tutto il suo tempo da solo a nuotare entro i territori del branco che l’aveva allevato e a malapena sapeva esprimersi. . In certi momenti si era nascosto e parlava da solo, per non perdere l’abitudine ad utilizzare la voce e non i ringhi gutturali con cui si esprimevano i grossi pesci con cui viveva da quando era piccolo. Ogni giorno che passava diventava sempre più difficile pronunciare le parole e collegare il significato a qualcosa di reale. All’interno del suo clan qualcuno capiva il linguaggio parlato ma nessuno aveva la sua capacità di articolare i suoni in quel modo. Appena era diventato abbastanza forte aveva cominciato ad esplorare quelle aree, sperando di incontrare qualcuno. Nei suoi giri si era spinto sempre più verso il limite del territorio che chiamava casa, senza mai trovare il coraggio per lasciarselo alle spalle. Quella mattina, come al solito, si trovava su una roccia ad osservare il resto dell’immenso oceano. Era sul punto di tornare indietro quando aveva scorto Lamantina nuotare e la visione di lei aveva fatto scattare qualcosa nella sua testa. Aveva preso coraggio e aveva abbandonato la sicurezza dei lidi per avventurarsi oltre la barriera rossa. Aveva nuotato verso di lei, fino a che non era stato abbastanza vicino per parlarle. Aveva pensato che avrebbe potuto fargli compagnia e ora si trovava in un posto dove c’erano tanti simili a lui, fatta eccezione per la forma della pinna caudale.
Numerose persone si erano accalcate intorno ai giovani e guardavano il visitatore con un misto di curiosità e timore. Due ali di folla si formarono e Horkan poté vedere quattro vecchi uomini venire verso di loro. Muovevano lentamente le loro code e avevano espressioni serie sui visi pallidi e rugosi. Lamantina si fece da parte, lasciando che fosse l’uomo con la barba a rivolgersi ai nuovi venuti. Quelli ascoltarono il racconto lanciandogli occhiate penetranti. Horkan sorrise, mostrando i denti appuntiti. Si sentiva a disagio e voleva solo capire cosa stesse succedendo. Avrebbe voluto chiedere a Lamantina chi fossero quelle persone ma lei era troppo distante e nessuno dei nuovi amici era comunque abbastanza vicino da potergli parlare.
Quando il resoconto fu terminato uno dei vecchi si fece avanti e raggiunse Horkan. «Tu sei quello che proviene dai confini estremi, dai territori dove nuotano i Predatori Azzurri. Assomigli ad uno di loro ma anche ad uno di noi. Potresti essere un pericolo per noi ma non lo sapremo fino a che non ci dirai tutto». Lo invitò a parlare e Horkan gli disse ciò che sapeva.
«Mi ha cresciuto un clan di lodon, che vive dove c’è la barriera rossa. Non so come sono arrivato là o quando, ma ero molto piccolo. Alcuni di loro capiscono questa lingua ma non la parlano». Horkan tacque. Non sapeva nulla di sé o di chi fossero i suoi genitori.
L’anziano lo osservò con severità. Intorno a loro tutti stavano in silenzio, il mistero dell’arrivo del misterioso visitatore si infittiva.
All’improvviso un’anziana si fece largo tra l’assiepamento di gente e nuotò verso Horkan. Aveva lunghi capelli bianchi e una coda rosata. Di slancio si proiettò verso il giovane e lo abbracciò, di fronte alla perplessità generale. Quella vecchia era considerata un po’ fuori di testa, da anni girovagava per la loro regione straparlando di un rapimento, di un’aggressione e di altre storie cui nessuno aveva mai dato credito. In quel momento, quando la donna abbracciò lo sconosciuto proveniente dalla zona oltre la barriera rossa, quelle affermazioni assunsero un altro significato.
Il saggio la invitò a lasciarlo e a spiegarsi, a sua volta. Quella, fissando i suoi occhi glauchi, in quelli del vecchio emise un lungo fischio. «Adesso, adesso che è comparso vuoi sapere tutto? Sono oltre due cicli che cerco di dirti cosa è successo e non hai mai voluto ascoltarmi ma mi hai fatto passare con tutti come se fossi una lunatica visionaria e mi hai isolato dalla comunità per tutti questi anni». 
L’anziano le fece cenno di tacere mentre gli altri cercavano di disperdere la folla, ma dato che nessuno sembrava avere intenzione di muoversi il saggio confabulò con gli altri per qualche minuto e invitarono Horkan, la vecchia, Lamantina e gli altri a seguirli all’interno dell’aula dove si riuniva il consiglio durante i momenti di crisi. Le porte furono chiuse e due guardie armate di lance furono poste di fronte alla porta.
Una volta all’interno gli anziani presero posto sui loro scranni e invitarono gli altri a prendere posto. «Ora, di grazia, Innora, vuoi raccontare quello che sai», disse uno di loro. Innora si riavviò i lunghi capelli e poi parlò di nuovo, con tono più pacato. «Oltre due cicli fa stavo tornando da uno dei campi di coltivazione, verso il lato ovest. Era il periodo in cui ci eravamo appena trasferiti dal sud in cerca di un posto sicuro da cui sfuggire ai predatori. Se ti ricordi, erano appena nati i miei gemelli e uno di loro mi fu portato via mentre ero appunto al campo per svolgere i miei compiti. Lui è quello che è stato rapito. L’ho cercato, trascurando i miei doveri. Ho cercato aiuto ma voi avete negato ciò che cercavo di mostrarvi. Forse ora lui ci potrà dire chi è che l’ha allevato dopo averlo portato via da me e da suo fratello».
Tutti si volsero a guardare Horkan, che si era messo in disparte e aveva ascoltato quel breve racconto. L’anziano sgranò i vecchi occhi. «Avanti ragazzo, tocca a te raccontare». Horkan scosse il capo e si ritrasse con un energico colpo di coda. Non sapeva cosa dire e aveva paura di non riuscire a farsi capire, la sua capacità espressiva era limitata.
Lamatina si fece avanti e gli si avvicinò. A bassa voce gli parlò e poi si volse agli altri, «Lui dirà a me e io riferirò a voi. Non è abituato a parlare e fa fatica ad esprimersi ma io e lui sappiamo capirci». Horkan si sentiva sempre più imbarazzato e cominciava a pentirsi di essersi avvicinato a Lamantina.
La ragazza si volse verso di lui e gli fece cenno di parlare. Nell’orecchio Horkan le mormorò qualcosa, lei assentì e tornò a rivolgersi ai presenti. «Ricorda molto poco, sa di aver vissuto sempre e solo entro i territori della Barriera Rossa e dei Lidi terrestri». Horkan ancora disse qualcosa e Lamantina ripeté. «Ha vissuto con un branco di lodon fin da quando è arrivato in quelle aree. Ha imparato la lingua di quegli esseri ma allo stesso tempo ha sviluppato da solo la capacità di esprimersi con il nostro stesso tipo di linguaggio».
Ancora una volta parlottarono e di nuovo ci fu un resoconto per i presenti, Innora era sempre più sconvolta e tremava per l’emozione nell’udire ciò che il giovane aveva passato in tutti quei cicli. «I lodon lo chiamarono Horkan, che nel loro linguaggio significa “Dalla coda bianca e scura”, per via del colore. I lodon lo hanno sempre trattato bene pur considerandolo un membro debole del loro clan, dato che non è effettivamente un predatore azzurro. Ha passato molto tempo da solo, proprio per questa sua diversità e oggi, mentre si faceva un giro ha intravisto me e...il resto lo sapete».
Lamantina tornò dai suoi amici e attese il verdetto. Innora era ormai prossima alle lacrime e gli Anziani si ritirarono in un angolo per discutere tra di loro. La loro comunità era piccola e indifesa, vivevano in quelle caverne per potersi difendere dai predatori marini che si aggiravano in quelle zone e non erano portati ad accogliere stranieri. «Questo è un caso diverso da quelli del passato - disse, a bassa voce, il più anziano tra loro -. É l’unico superstite dei due figli di Innora» ma gli altri scossero il capo: Innora era sempre stata considerata strana, da quando aveva accettato di dare ospitalità nella sua casa ad uno sconosciuto e con lui aveva generato ben due figli. Era andata avanti quando lui se ne era andato, probabilmente portandosi via quello che ora avevano davanti e uccidendo l’altro, devastando la sua casa e lasciandola in preda alla follia. Così avevano cercato di convincerla riguardo al “rapimento” di cui lei parlava sempre. 
Confabularono ancora per qualche minuto quindi tornarono dagli altri. Dalla severità delle loro espressioni si capiva che le notizie non erano buone. Guardarono gli occhi neri senza pupille di Horkan e quelli di Innora e pronunciarono la sentenza. «Straniero chiamato Horkan, dopo aver sentito la tua storia e a causa di essa non possiamo accettare la tua presenza entro i confini di questo luogo, che ci offre riparo e sicurezza dai predatori azzurri e non solo. Dobbiamo garantire la protezione di tutti coloro che vivono qui. Se tu rimanessi, senza dubbio i lodon verrebbero a cercarti e non ci metterebbero molto tempo a trovarti e a scoprire questo rifugio».
A quelle parole Innora diede in un urlo e cominciò a ripetere «No. No. No. No», Lamantina e i suoi amici sbiancarono di fronte alla crudeltà dimostrata dagli anziani. Come potevano essere così sicuri che i lodon sarebbero venuti a cercarlo. 
Horkan ascoltò il verdetto mentre un’espressione cupa gli si dipingeva sul viso me non disse niente. Di nuovo i pensieri erano spariti dalla sua testa, ma questa non per l’emozione ma per la rabbia. Aveva trovato qualcuno simile a lui e questi lo mandavano via, come se fosse colpa sua l’essere stato cresciuto dai lodon. «Voi l’avete portato qua e voi lo riporterete dove lo avete trovato poi tornerete qui e per un po’ scordatevi di uscire dal rifugio. É stato sconsiderato da parte vostra questo comportamento e meritate una punizione esemplare».
Lamantina cercò di protestare ma fu zittita dal vecchio con uno schiaffo. «Così è», disse nuotando fuori dalla stanza seguito dagli altri.
Gli amici della ragazza si fecero intorno a lei, Horkan restò in disparte. In viso un’espressione rabbuiata poi a sua volta nuotò via. Nella mente avevano cominciato a rifluire nuovi pensieri ed erano tutti tinti di nero e rosso.
L’uomo con la barba, che era il padre di Lamantina, abbracciò la figlia e cercò di consolarla. «Non capisco come si possa essere così crudeli», sospirò Innora tra le lacrime. «Che senso ha vivere in un luogo sicuro se dobbiamo vivere nella paura? In passato non erano così, c’era più libertà e nessuno, nemmeno gli Anziani, si sarebbe mai permesso di impedire a qualcuno di non poter lasciare questo luogo. Adesso invece...». 
Innora si guardò intorno e si rese conto che Horkan se ne era andato. «É andato via...andato via...via», aggiunse con un tremito nella voce. «Dobbiamo trovarlo», esclamò Lamantina.
Un senso di inquietudine animò i presenti: non sapevano come Horkan avrebbe potuto reagire nei confronti dei vecchi. Fecero per uscire quando Innora li fermò. «Devo dirvi una cosa importante riguardo mio figlio - la sua voce tremava -. Non ci avevo più pensato fino ad ora, quando mi sono accorta che se ne era andato. Il padre dei miei figli, voi non potete saperlo perché non eravate ancora nati, era uno straniero. Fisicamente sono molto simili e qui è il punto. Un giorno, poco prima che lui scomparisse, mi raccontò che aveva la capacità, maledizione furono le sue precise parole, di trasformarsi in un lodon. Mi disse questo e poco dopo io rimasi sola, a piangere colui che avevo amato con tutta me stessa, un bambino morto e a disperarmi per uno rapito. É stato terribile e a poco a poco sprofondai nella mia stessa disperazione».
Innora si portò le mani al petto e tacque, sollevò gli occhi verso Lamantina e i suoi amici e aggiunse: «Horkan potrebbe avere la stessa capacità di suo padre. Il mio amato mi aveva spiegato che questa trasformazione gli capitava nei momenti di profonda rabbia. Horkan potrebbe avere la medesima capacità e se così fosse, dovremmo trovarlo prima che possa succedere il peggio. Non è detto che accada, ma ritengo che sia plausibile che possa accadere». La voce di Innora era ormai un sussurro tremante.
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