venerdì 30 agosto 2013

LA BAMBOLA DI AMINA


L’ARRIVO DELLO ZIO ALFONSO - 

Aria di feste. 

Nella magione dove Amina vive con i suoi genitori, il fratello maggiore Federico e la sorellina Anita, sembra che tutti - compresa la servitù - siano in preda a una qualche strana forma di disforia. La mamma trascorre molto tempo nella nursery, insieme a lei e ad Anita, mentre spesso suo padre e Federico escono a cavallo insieme e tornano solo nel tardo pomeriggio, con le gote arrossate dal freddo e un’espressione greve in volto. Amina li osserva con un certo sospetto: da quando lo zio Alfonso ha scritto che sarebbe venuto a trascorrere le festività dicembrine - così ha scritto, ma si sa, che questo zio del babbo è un tipo strano - tutti sembrano in preda ad una dose di follia. 
«Mamma, quando arriverà lo zio?», chiede una sera alla mamma, mentre le sta rimboccando le coperte. Nel letto di fianco Anita dorme già da un pezzo. La donna le sorride, le labbra tinte di rosso. «Presto bimba mia. Forse già nella giornata di domani. Ha scritto che avrebbe portato un regalo per ognuno di noi. Sarà un periodo bellissimo, vedrai». Detto questo la mamma si alza e le manda un bacio, prima di uscire. «Dormi e fai sogni d'oro e d'argento», le sussurra mentre si chiude la porta alle spalle ma Amina non la sente: sprofondata sotto il piumone scivola nel sonno. Sogna, la piccola Amina. Sogna arcobaleni e farfalle, fate e giardini fioriti. Sogna un uomo alto e bello, che le sorride e la fa giocare: il misterioso zio Alfonso che trascorrerà con loro le vacanze. 
La mamma scende le scale e torna in salotto, dove trova il marito. «Amina e Anita stanno finalmente dormendo». Si siede sul divano, sollevando le gambe e sospirando. «Amina mi ha chiesto quando Alfonso arriverà, sembra molto emozionata per questa visita. Speriamo che non ne risenta, è così delicata e tutte queste emozioni potrebbero farle male». Il marito la guarda, un sorriso mesto compare sul suo volto. Le labbra si stirano e intorno agli occhi si irradia una ragnatela di rughe. «Spero presto, spero presto. Questa attesa mi sta logorando», è il suo commento. In piedi, di fronte al camino, scalza alcuni ciocchi e cerca di ravvivare il fuoco. All'esterno si può percepire il soffice cadere della neve. La notte è fredda ma limpida, una tipica serata invernale in campagna.
«Andiamo a dormire, caro. É tardi e siamo entrambi stanchi. Domani penseremo per bene a come accogliere lo zio, nel migliori dei modi e secondo il suo gusto», gli fa eco lei, porgendogli una mano. Lui la guarda ma non si muove. Un senso di freddo si è impadronito di lui: il fatto che lo zio, fratello di suo padre, andatosene dall'avita casa oltre venticinque anni prima, ritorni in seno alla famiglia, lo spaventa. Da un quarto di secolo non ha quasi dato notizie di sé e ora improvvisamente manda un telegramma dicendo che non vede l'ora di tornare a casa e di riunirsi alla famiglia. Ciò che Amina ha scambiato per euforia da parte dei suoi genitori, di solito così compiti e seri, è solo una reazione nevrotica alla notizia. Batte l’una quando finalmente i due adulti si ritirano nelle rispettive stanze, lei lo saluta sull’uscio con un casto bacio sulla guancia poi gli volta le spalle e in pochi passi è alla sua porta, dietro la quale scompare. Ettore sospira, non sopporta più quella ridicola situazione da separato in casa. Non sopporta più il distacco di sua moglie da lui. Rivuole indietro gli anni felici, prima della tragedia. «Forse la visita di Alfonso riporterà un po’ di pace in questa casa», si dice chiudendosi la porta alle spalle a sua volta, ma non crede ai suoi stessi pensieri.
Nell’altra stanza Francesca si spoglia ed indossa la camicia da notte di raso, rabbrividisce per il freddo e si infila sotto le coltri. «Speriamo che tutto vada per il meglio», è il suo ultimo pensiero mentre sprofonda in un sonno agitato, senza sogni. In camera sua, intanto, Ettore sta leggendo un vecchio libro di storia antica, in attesa di sentire le palpebre farsi pesanti e finalmente abbandonarsi a qualcosa di simile ad un riposo ristoratore ma il sonno si rifiuta di fargli visita. Sono quasi le tre e quarantatré quando, infine, si addormenta a pagina 92, poco dopo la conquista della Grecia da parte di Filippo il Macedone.
«É arrivato. É arrivato». Amina entra in camera della madre correndo e saltando sul letto, disfacendolo. «Mamma. Mamma. Mamma. É arrivato». Francesca emerge dal sonno, «Chi, tesoro?», riesce a chiedere biascicando le parole. «Lo zio Alfonso», trilla la bambina, battendo le mani con enfasi. A quella risposta Francesca si tira su a sedere di scatto, butta in aria coperte e lenzuola, corre in corridoio, in camicia da notte e scalza. La pendola in fondo al corridoio batte sette colpi e mezzo. Francesca bussa con forza alla porta del marito, chiamandolo con insistenza, una nota di ansia a spezzarle la voce. Infine Ettore compare, indossa il pigiama di sghimbescio, ha la barba sfatta e gli occhi sono rossi. «É qui. Alfonso è arrivato», ansima Francesca spostandolo a forza ed entrando nella camera del marito. Ettore la guarda, scarmigliata e in preda al panico, cercando il suo aiuto come sono mesi che non avviene.
«Cosa facciamo?», lo implora con gli occhi. Ettore si accascia sul letto, cercando di prendere il respiro. Prima di riuscire a rispondere, una voce potente e maschile, proveniente dall’ingresso, sente che lo chiama. «Ettore! Scendi subito ad abbracciare il tuo vecchio zio Alfonso». L’uomo deglutisce: il possente timbro baritonale dello zio Alfonso non si è indebolito in quegli anni. Viene colto da un improvviso tremito ansioso. L’ultima volta che ha visto il fratello di suo padre aveva quindici anni e un sacro terrore di quell’uomo grosso, burbero e dai modi spicci. All’udire il modo autoritario con cui lo sta chiamando non deve essere cambiato. «D-dobbiamo scendere», gli sussurra Francesca, seduta in terra con la testa tra le mani, incapace di alzarsi.
Un nuovo boato rompe il silenzio e Alfonso saluta con un urlo di gioia, o almeno così Ettore e Francesca percepiscono dal suono della sua voce, i loro tre figli. «Andiamo», Ettore riesce ad alzarsi e a prendere per mano la moglie, tirandola in piedi di peso. 
A piedi nudi, mano nella mano, i due scendono e trovano i tre figli avvolti nelle grosse spire delle braccia di Alfonso. «Finalmente», ride l’uomo dalla barba incolta. A stento Ettore riconosce lo zio ma gli sorride. «Su bambini, non disturbate lo zio, deve essere stanco per il viaggio», si rivolge a Federico, Amina ed Anita. «Andate in cucina a fare colazione poi a prepararvi».
I tre sbuffano ma ubbidiscono e veloci corrono in cucina, sotto lo sguardo divertito di Alfonso. «Benvenuto», mormora Francesca, lanciando timidi sguardi all’uomo e alle molteplici valigie che invadono l’ingresso di casa. «Chiamo subito Norvi perché si occupi dei bagagli», aggiunge e si sposta dal marito, afferra un campanellino d’argento e lo agita. Dopo pochi minuti compare un uomo di mezza età, che si inchina con deferenza. «Norvi occupatevi dei bagagli dello zio Alfonso, fateli sistemare nella stanza rossa, per favore». L’uomo si inchina di nuovo e, silenzioso come è comparso, sparisce. Alfonso guarda la scena con un sorrisetto. Quando il maggiordomo ricompare è seguito da due robusti giovani, che senza apparente fatica si impossessano delle due voluminose valigie e del grosso baule di pelle nera. «Piano piano con quello. Contiene cose preziose e ci tengo che non vengano rovinate», avverte Alfonso. I due fanno un cenno col capo e si avventurano su per le scale, dirigendosi alla stanza rossa.
Per qualche minuto restano tutti e tre nell’ingresso, guardandosi poi Ettore propone di prendere un caffè. «É quello che ci vuole», aggiunge dirigendosi verso la cucina. «Non hai perso la tua affettazione», ride Alfonso tirandogli una manata sulla schiena, così forte che quasi lo manda in terra, «Ma devo ammettere che hai un ottimo gusto in fatto di donne». Fa l’occhiolino a Francesca, che si ritira di qualche passo, arrossendo e rendendosi conto in quel momento di non aver indossato la vestaglia. D’istinto si stringe le braccia intorno alle spalle nude. «Torno subito», si scusa e corre di sopra. Si chiude a chiave in camera, ha il fiato grosso e il cuore le batte in petto così prepotentemente da darle l’impressione di essere sul punto di scoppiare. «Che uomo. Che uomo», si ripete senza riuscire a togliersi dalla mente l’espressione bramosa che ha intravisto guizzare negli occhi di Alfonso. Ettore le ha raccontato che venticinque anni prima Alfonso ha lasciato la famiglia per una vita errabonda e solitaria: non è tornato a casa nemmeno per i funerali di genitori e zii, non ha dato notizie di sé per anni, mandando una cartolina di tanto in tanto, da posti esotici, giusto per far sapere che era ancora vivo. «Scriveva proprio questo - le ha raccontato Ettore -. “Sono ancora vivo. Alfonso” e niente altro. Nemmeno la sua eredità ha mai richiesto».
Con questi pensieri che le turbinano in testa, Francesca si spoglia e prende da un cassetto la biancheria, dall’armadio una blusa ed una gonna, infila le calze e un paio di scarpe, quindi si avvolge nel vecchio cardigan di sua madre e si ravvia, alla bell’e meglio, i capelli. Si lancia una rapida occhiata nello specchio e finalmente torna di sotto, riunendosi in cucina al resto della famiglia. Pur struccata ed imbarazzata la donna appare di una bellezza rara, pur senza raggiungere la perfezione di poche fortunate. «Incantevole», la accoglie Alfonso, con in mano una tazzina fumante di caffè. Francesca arrossisce di nuovo. Ettore le lancia a malapena un’occhiata, si concentra sull’imboccare Anita con qualcosa che ha la consistenza di un budino. 
Le guance della bimba sono sporche di una crema color giallo uovo e così pure le manine paffute. Ride e alcuni pezzi finiscono anche sul bavaglino.
La cuoca le porge una tazza di tea e riceve un cenno di ringraziamento poi si ritira, in attesa di sapere cosa la signora vorrà che venga preparato per pranzo. Amina, seduta al tavolo di fianco ad Anita, guarda rapita lo zio, la barba nera appena striata di grigio, i vestiti sgualciti e scoloriti, gli orecchini d’argento che ornano i suoi lobi e i tatuaggi sulle braccia. É così diverso da suo padre. Senza togliergli gli occhi di dosso sorseggia una tazza di «cioccolatte», a base di cacao e latte caldo. Di Federico nemmeno l’ombra.
«É bello essere tornato», Alfonso rompe il silenzio familiare che si è creato. «Ho qualche regalo per voi, per festeggiare il mio ritorno a casa». Detto questo si alza ed esce dalla cucina, salendo le scale e dirigendosi con sicurezza alla stanza rossa. Nonostante tutti gli anni trascorsi in paesi lontani, non si è dimenticato la geografia della casa dove è nato e cresciuto.
«Forse dovresti andare a vestirti e renderti presentabile», dice Francesca al marito, con voce tagliente, da dietro il bordo della tazza di porcellana. Lui si guarda, scalzo e ancora in pigiama. «Almeno uno di noi due lo è, presentabile», risponde Ettore lanciando un’occhiata all’abbigliamento della moglie. Non sa se l’ha fatto apposta oppure è solo un caso ma indossa una stretta blusa e una gonna con un ampio spacco, che esaltano la sua figura snella. Francesca lo ignora. «Bambine andate a prepararvi poi andate in salotto, e comportatevi per bene», dice ai figli. Affida Anita alla governante perché la vesta. Rimasta sola, Ettore ha abbandonato il campo e si è andato a vestire a sua volta, chiama la cuoca e le impartisce pochi secchi ordini sul pranzo, la cena e i pasti per i giorni successivi. «Sarà fatto», è la semplice risposta della donna e lascia la padrona da sola con i suoi pensieri. 
Francesca abbandona sul tavolo la tazza di tea e si reca in salotto, si è appena seduta sul divano che vede Alfonso comparire sulla porta: tra le braccia regge una decina di pacchetti di varie dimensioni e sembra ancora più grosso. «Appoggiali pure sul tavolo», gli indica con un dito, cercando di non lasciar trasparire il disagio che prova nel trovarsi nella stessa stanza da sola con lui. A trarla d’impaccio è l’improvvisa comparsa del resto della famiglia. «Calma, calma», si rivolge soprattutto ad Amina ed Anita, che sgambettano intorno allo zio ridendo e battendo le mani, cercando di afferrare gli involti. «Venite a sedervi qui vicino a me», le invita Francesca, «Non date fastidio allo zio mentre sistema i pacchi». Federico si siede su un bracciolo, fingendo disinteresse per ciò che si sta consumando davanti ai suoi occhi. Osserva la scenetta con il distacco tipico di certi adolescenti solitari Dopo pochi minuti arriva anche Ettore, vestito ora di tutto punto e prende posto nella sua solita poltrona.
«Ci siamo tutti», esclama con soddisfazione Alfonso, guardandoli. Comincia a scegliere tra gli involti. Il primo è proprio per il nipote. Si tratta di un involto rettangolare, voluminoso e pesante. «Spero che ti piaccia. L’ho preso in Cina, una decina di anni fa», spiega Alfonso, mentre dal mucchio ne prende un secondo e lo porge, con deferenza, a Francesca. «Questo, invece, proviene dall’India», spiega sbrigativamente. La donna si appoggia sulle ginocchia la grossa scatola piatta. Stessa carta da pacchi che avvolge tutti i doni e spesso spago a chiuderlo. «Federico per favore prendimi le forbici nel cassetto», ordina al figlio maggiore, che sbuffando ubbidisce. Con quattro colpi ben assestati lo spago è tagliato, Francesca porge quindi al marito le cesoie. «Grazie», fa lui senza guardarla in viso.
Con delicatezza Francesca apre il suo regalo: è una scatola di cartone azzurra, la quale rivela, avvolto in una velina di pallido bianco, uno splendido abito di un rosso acceso con ricami dorati. «É un sari, l’abito tradizionale delle donne indiane. Se ti serve aiuto ad indossarlo, chiedi pure», le spiega Alfonso con un largo sorriso. Francesca arrossisce e mormora qualcosa. Ettore sta liberando il suo dalla rozza carta marrone e scopre un grosso volume. «Mi sembrava di ricordare che fossi un appassionato di storia antica e ho recuperato questo raro libro sulla storia imperiale della Cina». Ettore lo sfoglia con un misto di interesse, curiosità e stupore. Sta scoprendo più cose dello zio in quella mattina che in tutta la vita.
«E ora passiamo a voi», Alfonso si rivolge ai bimbi. Dal mucchio prende due pacchetti delle medesime dimensioni e ne porge uno ad Amina ed uno ad Anita. Le due bambine strillano di gioie poi cominciano a tirare per strappare i cordini di iuta fino a riuscire a sfilarli e poi procedono a ridurre a brandelli, senza smettere di ridere, la carta color caramello. Davanti agli occhi di mamma e papà, del fratello maggiore le due bambine scoprono due bambole. Quella di Anita indossa un abito principesco, di foggia orientale, ha la pelle scura e le labbra sorridenti. «Beaaaaaa», esclama la bambina e si alza per andare a farla vedere da vicino alla mamma. La bambola che Amina tiene tra le mani è una classica bambola di foggia europea: ha un viso pallido e paffuto, occhi cerulei e una boccuccia che può sembra tanto atteggiata tanto in un sorriso quanto corrucciata. Indossa uno sfarzoso abito di taffettà lilla con passamaneria di una tonalità più scura. Intorno al viso le scendono boccoli color del fuoco e le braccia sono protese verso la bimba. Amina la osserva ammirata, non riesce a distogliere lo sguardo da quello fisso della bambola. «La chiamerò Contessa Lavinia, si vede che è nobile», comunica con serietà, stringendola poi al petto.
«E ora veniamo a te giovanotto», Alfonso prende un pacco bitorzoluto e lo lancia a Federico, che lo afferra maldestramente. Anche lui strappa corda e carta rivelando un paio di guantoni per la boxe. «Ti darò un paio di lezioni mentre sarò qui», gli dice Alfonso. «Non c’è niente di meglio di un po’ di movimento per svegliare il corpo e la mente», aggiunge.
Sul tavolo restano altri pacchettini, che lo zio spiega essere dei ninnoli, con cui decorare la casa. «Niente di speciale ma oggetti per la buona sorte. Mi occuperò di sistemarli personalmente in casa più tardi. Inoltre daranno un tocco di oriente a queste vecchie stanze».
Ettore fa per replicare che non vuole cianfrusaglie in giro per casa ma Francesca lo precede. «É una splendida idea. Ci vuole proprio un po’ di fortuna in questa casa», afferma con un’espressione sorniona. Ettore scuote la testa, si alza e lascia la stanza. Alfonso lo segue con lo sguardo. «Va a chiudersi in biblioteca. Starà chiuso per tutto il giorno a leggere il suo nuovo libro. Lo rivedremo stasera, forse per cena. É il suo modo di affrontare le situazioni che non gli vanno a genio», spiega con voce priva di tono Francesca.
Fuori ha smesso di nevicare e Francesca propone a tutti un giro del parco. «Più tardi, adesso mi occuperò di quei ninnoli. Voi andate pure, avete bisogno di stare all’aperto, siete così pallidi». Poi si rivolge a Federico: «Tu tieniti pronto, oggi pomeriggio incroceremo i guantoni, ragazzo». Federico agita la testa in quello che può essere tanto una risposta positiva quanto un cenno di diniego poi esce.
Anita prende per mano sua mamma e insieme escono, la bambola orientale è abbandonata sulla seduta del divano, tra i cuscini di velluto color avorio. Amina le segue, Contessa Lavinia stretta tra le braccia. Alfonso la guarda e sul suo viso si apre una smorfia perfida. Torna a dedicarsi ai ninnoli, che ha lasciato sul tavolo.
LA BAMBOLA DI AMINA -
«Andiamo bella Contessa Lavinia. Ci mettiamo il cappottino e usciamo a passeggiare, è una bella giornata e vedrai come ti piacerà». Amina si rivolge alla bambola, carezzando le gote paffute e lisce, intrecciando le ditine tra i riccioli posticci. Sistema l’elegante abito della fantoccina e le ripete quanto sia bella. Non la lascia nemmeno quando Francesca l’aiuta ad indossare il suo montgomery. «Anche Contessa Lavinia ha bisogno di un cappotto. Uno bello, come il tuo». Allunga la manina e accarezza il velluto del pesante soprabito della madre. «Morbido», dice e lo stringe nel pugno, tirandolo verso di sé. «Amina non tirare così, rischi di strappare la stoffa», strilla Francesca afferrandole la mano e strattonandola fino a che si sente un suono secco e un triangolo di tessuto strappato penzola dal fianco destro. Amina guarda il disastro e il visetto diventa paonazzo, gli occhi si stringono e la bocca si storce in una smorfia di disperazione. Francesca guarda il disastro combinato dalla figlia e alza gli occhi al cielo. Amina scoppia in un pianto terribile, singhiozzi convulsi si alternano a urli disumani. Stringendo al petto Contessa Lavinia, la bambina si getta verso la madre, che riesce ad afferrarla all’ultimo momento, prima che cada e batta la testa.
Le tocca la fronte, è sudata e piangente. Il viso distorto dallo sconforto. Francesca sente la rabbia scemare mentre la preoccupazione prende il sopravvento: Amina è sempre stata delicata di salute. «Calma, calma Amina. Non è successo niente. Questo vecchio cappotto è così liso che basta un tocco e va in brandelli», cerca di rincuorare la figlia ma Amina continua a singhiozzare. Biascica parole senza senso mentre bagna di lacrime il viso della madre. Francesca tocca la fronte della figlia di nuovo, è bollente. «Forse è meglio se per oggi non usciamo. Adesso andiamo di sopra, ti metti a letto e la tua bella bambola ti terrà compagnia». «Contessa Lavinia», mormora singhiozzando Amina, appoggiando la testa sulla spalla della mamma. «Hai ragione, Contessa Lavinia».
Con la bambina stretta tra le braccia, Francesca passa davanti ad uno stupito Ettore, che ha assistito alla scena dalla balconata del primo piano. «Forse dovremmo...», comincia ma Francesca lo zittisce con uno sguardo. Lui la segue fino in camera della figlia e la osserva toglierle il cappotto, il vestito, farla sedere e prendere un catino con dell’acqua, una salvietta di cotone e cominciare a passarglielo sul viso, sul collo, sulle braccia. Spera in questo modo di far abbassare la temperatura febbricitante. 
Francesca, con delicatezza, lava via le lacrime e il dispiacere da Amina. Le porge la camicia da notte di cotone bianco e gliela fa indossare. «Adesso mettiti a letto e cerca di riposare. Se più tardi starai bene usciremo insieme nel parco, prima della merenda». Amina le sorride, l’espressione più tranquilla e non più contratta dall’angoscia. Francesca le bacia la fronte, l’aiuta a mettersi sotto le coperte e le passa Contessa Lavinia poi fa per uscire. «Mamma, un bacio anche per Contessa Lavinia, per farla dormire bene», la implora Amina porgendole la bambola.
La donna la guarda, poi si concentra sulla bambola: quell’espressione ambigua, quegli occhi fissi la inquietano un poco ma si fa coraggio e, tornata indietro, si china a baciare la fronte della bambola. La sente stranamente calda e cedevole, come se fosse quella di una vera bambina.
Infine esce e va a sbattere nel marito. «Allora?», le chiede lui, con una punta di fastidio nella voce. Deve essere stato disturbato dalla scenata di Amina. «Nulla, caro. Nulla». Francesca non spreca tempo a parlare ma torna in camera sua e cambia il suo soprabito con una giacca di pesante panno. Con l’anno nuovo lo porterò dal sarto di fiducia perché cerchi di sistemare il danno fatto dalla figlia. Il sole splende quindi dovrebbe bastare, pensa Francesca, legandosi la cintura stretta intorno alla vita sottile. Intorno al collo e alle spalle si sistema una stola .di pesante cashmere e ridiscende nell’ingresso. Trova Federico e Anita che l’aspettano e, mentre stanno uscendo, si unisce a loro anche lo zio Alfonso.
«É una giornata troppo bella per stare chiusi in casa. I ninnoli li potremo sistemare stasera tutti insieme», afferma mentre li precede e apre loro la porta. Quando Francesca gli passa di fianco, si sfiorano e lei si morde un labbro. Si volta ma del marito nessuna traccia, in compenso dalla biblioteca giungono le note di un qualche brano di musica classica.
In camera Amina parla con la sua nuova bambola, più bella di tutti i giocattoli che ha ricevuto fino ad ora. Ha dieci anni ma è ancora molto infantile. Per la sua salute cagionevole è sempre stata insieme a sua madre e questo ha limitato molto la sua crescita. Al di là della sua salute fisica ciò che ha sempre preoccupato Francesca è l’estrema sensibilità della figlia e la sua incapacità di reagire in modo positivo di fronte alle situazioni di maggiore difficoltà, cercando sempre il suo sostegno. Forse per la sua particolare situazione, Amina ha sviluppato un attaccamento quasi morboso nei suoi confronti e non sopporta di stare troppo tempo distante da lei. Comportamento che Francesca comincia a trovare difficile da sopportare, ma non può negare di avervi contribuito in larga misura: «Ma cosa avrei dovuto fare? Era così piccola allora?», si chiede per l’ennesima volta.
Un altro fatto che turba la donna è la spiccata fantasia di Amina. Teme, infatti, che l’abbandonarsi eccessivamente all’immaginazione faccia perdere il senso della realtà alla bambina. Osserva Federico e Anita, che davanti a lei camminano. Nessuno di loro sembra avere i problemi di Amina. Anita, anzi, è l’esatto contrario: spesso vessa sua sorella maggiore con scherzi cattivi. Da parte sua Federico non dimostra alcun interesse verso le sue sorelle e trascorre la maggior parte del suo tempo a leggere oppure fuori a cavallo. «Ha lo stesso carattere di suo padre», pensa Francesca con una punta di rammarico.
Mentre passeggia, Francesca cerca di non pensare alla situazione in cui si trova la sua famiglia, vuole godersi quell’attimo di pace e di tranquillità.
«Contessa Lavinia vedrai come ti piacerà uscire. Abbiamo un parco bellissimo e ci faremo accompagnare dalla mamma alla serra, dove ci sono dei fiori bellissimi. Le chiederemo di regalarcene uno, da mettere nei capelli. Sarai ancora più bella con un fiore tra i capelli», le dice scandendo appena le parole. Gli occhi glauchi di Contessa Lavinia la guardano immoti e resta in silenzio. Amina non ci fa caso. «Adesso è ora di riposare, altrimenti ci ammaliamo e saremo obbligate a stare in camera». Bacia in fronte la bambola e poi chiude gli occhi, sbadiglia e ripete «Buonanotte». Le sembra che da molto vicino le giunga una voce, simile alla sua ma ancora più delicata, che le augura«Buonanotte» ma ormai è troppo stanca per alzare il capo e vedere chi sia stato.
Amina sogna, cammina per il parco tenendo per mano una bambina simile a lei, che indossa un abito lilla e ha i capelli rossi.. Chiacchierano e ridono mentre passeggiano, lei si sente bene ed è felice come poche volte lo è stata in vita sua. D’improvviso, in lontananza, scorgono la mamma e i suoi fratelli. Amina li chiama con la mano ma loro non le badano. Continuano nel loro girotondo. Allora comincia a correre ma non riesce ad avvicinarsi mai abbastanza. Un senso di angoscia la coglie e si volta. Vicino a lei trova la bambina, che ha le fattezze della sua bambola. «Non ti preoccupare - le dice - ci sono io con te. Io non ti lascerò mai. Loro sono cattivi e non ti vogliono bene. Io ti voglio bene». Le porge la mano, Amina si gira e scorge le figure dei suoi familiari scomparire in lontananza. «Io e te staremo insieme per sempre, come sorelle», le dice ancora la versione umana di Contessa Lavinia, sul suo viso candido compare una smorfia, poi la cinge con le braccia, così forte da farle quasi male.
Con un gridolino e boccheggiando Amina si sveglia di colpo. Ha il respiro affannato, come se avesse corso, e si sente un peso in petto. La stanza è immersa nella penombra, non sa che ore sono o dove sono gli altri. Getta indietro le coperte e mette i piedi in terra. Il pavimento è freddo ma non ci fa caso. Afferra delicatamente Lady Lavinia e raggiunge la porta, la apre senza produrre rumore e mette la testa fuori. Il passaggio che conduce alle camere dai letto dei genitori è deserto e la casa silenziosa. «Andiamo», dice a voce alta, un po’ rivolta a Contessa Lavinia, un po’ per farsi coraggio. 
Percorre avanti ed indietro un paio di volte il corridoio poi, appoggiandosi al corrimano scende le scale. In pochi minuti si ritrova nel grande ingresso: sulla destra la strada che porta alla cucina e all’ala destinata alla servitù, a sinistra il salotto, la sala della musica e lo studio di suo padre. «Non c’è nessuno. Se ne sono andati e ti hanno lasciato sola», mormora ridacchiando una voce nella sua testa. Amina si guarda intorno ma non vede nessuno. «Se ne sono andati a passeggiare, senza di te. Ti hanno lasciata sola, ma io non ti lascerò mai sola. Io e te siamo come sorelle», ripete la voce. La bambina guarda la sua nuova bambola: l’espressione, ne è sicura, è diversa. Invece di quella smorfia ambigua, ora sulla faccia del fantoccio è comparso un largo sorriso. Contessa Lavinia sembra felice che siano loro due sole. Amina si avvicina al grande portone d’ingresso e sbircia all’esterno ma non vede nessuno. «Ho ragione: se ne sono andati», aggiunge la bambola nella testa di Amina. «Quando torneranno gliela faremo pagare, non possono essere così cattivi verso di te». Una lacrima riga la guancia della bimba, che tira su col naso e si asciuga con una manica della camicia da notte. La mamma non approverebbe ma la mamma l’ha lasciata sola. «Sola», sussurra a se stessa e alla bambola. Si sente stanca e spaventata ma Contessa Lavinia la sprona. «Non vale la pena stare male per loro, sono solo stupidi. Impareranno che non ci si comporta così con noi».
Amina comincia a girovagare per le stanze, parlando con la bambola. In salotto nota i pendenti che lo zio Alfonso ha lasciato sul tavolo, ne prende uno e lo osserva: è una palla di metallo lucido. Lo scuote e dall’interno proviene un delicato tintinnio. «Le fate!», esclama Amina. «Lo zio ha fatto prigioniere le fate», ripete facendo risuonare i cinque gingilli. Questa volta la bambola non dice nulla. Amina cerca di aprirli per liberare le fatine, ma riesce a produrre solo una serie di differenti scampanellii. Vuole a tutti i costi liberare le fate, che sono rinchiuse dentro alle sferette argentate. Poi le viene un’idea. Appoggia con delicatezza la bambola sul piano di legno, quindi corre via. Si ferma a pochi passi dalla cucina, in punta di piedi percorre l’ultimo pezzo di corridoio e spinge piano la porta. Grazie al fatto che sua mamma odia i rumori molesti come i cigolii, ogni uscio della casa è ben oliato. Prende vittoriosamente possesso della cucina e si guarda in giro, nota un grosso coltello e pensa che è esattamente quello che ci vuole per rompere quelle brutte palle di metallo che tengono imprigionate le fatine. Lo afferra ed esce, tornando con cautela verso il salotto. Regge il coltello per il manico, tenendo la lama quasi all’altezza del viso. Gli occhi sono lucidi e si sente accaldata, ma non le sembra la solita febbre che la coglie quando si emoziona troppo. Si sente investita di un compito importante: liberare le fate. Quando raggiunge il tavolo del salotto è in preda ad un’eccitazione sconosciuta. Sorride a Contessa Lavinia e prende la prima sferetta, la posizione davanti a lei e la colpisce. L’oggetto, senza riportare scalfitture, rotola lontano. Amina appoggia il coltello e corre a riprenderlo. Prova una, due, più e più volte ma sempre con lo stesso risultato. Sente le lacrime salirle agli occhi, scuote i globi, producendo una cacofonia assordante di tintinnii. «Non riesco a liberarle. Non ci riesco». Piange e si siede in un angolo. La bambola stretta al petto, il coltello vicino e le cinque palle sparpagliate davanti. «É colpa dello zio se le fate sono rinchiuse lì dentro. E la mamma mi ha lasciata da sola. Non mi vuole più bene», ripete come in trance. Gli occhi sono vitrei e hanno assunto, forse per effetto della luce invernale che entra dal grande finestrone, una tonalità cerulea.
«Sono cattivi: hanno abbandonato te e guarda cosa hanno fatto alle fate», le ripete Contessa Lavinia, le labbra rosse appoggiate all’orecchio. «Meritano di essere puniti. Sono cattivi e non ci vogliono bene».
Il rumore dell’uscio che si apre e le risate di Francesca riportano Amina per un momento alla realtà. Si alza da terra e prende il coltello. Si avvicina all’ingresso e vede la mamma e lo zio che ridono e parlano. Federico sta salendo le scale insieme ad Anita.
«CAAATTTTIIIIIIVVVVVVVIIIII!», urla con quanto fiato ha in gola e si getta sulla mamma e Alfonso, alzando il coltello sopra la testa. Nonostante sia solo una bambina riesce a menare fendenti a destra e a manca, ferendo i due adulti. Alfonso prova a bloccare la ragazzina ma quella riesce, chissà come, a sfuggirgli. Gli occhi sono fissi e la bocca è spalancata in un ghigno terribile. I lineamenti delicati sono stravolti dalla ferocia. Sulle mani dell’omone compaiono striature rosse. Lasciando libero sfogo alla rabbia cieca che l’ha colta la bambina riesce anche a portare a segno qualche colpo e in pochi minuti madre e zio sono in terra, in una pozza di sangue, ma ancora vivi.
In cima alle scale compaiono Ettore, seguito a breve distanza da Federico, che ha udito a stento le urla belluine della sorella minore. Anita è al sicuro, in un’altra ala della casa, affidata ad una cameriera perché le faccia un bagno. «AMINAAAA», urla l’uomo ma la bambina sembra non sentirlo. Continua a colpire la madre e lo zio a turno con il coltello, come un’automa impazzito. La camicia da notte è chiazzata di rosso, come pure il viso e i capelli castani. Nell’altra mano regge la bambola che ha ricevuto in dono poche ore prima, anch’essa inzaccherata di sangue. «Amina, tesoro», comincia a blandirla Ettore, scendendo le scale e cercando di avvicinarla. Ode appena sua moglie gemere. «Tesoro, calmati, metti giù il coltello», cerca di richiamare la sua attenzione. 
Amina, di scatto, si volta verso di lui: il volto è un misto di odio ed estrema tristezza. «Le hanno uccise. Le hanno uccise. Le hanno messe nelle palle di metallo e ora non cantano più», urla con voce stridula. «E non ci vuole più bene. Più bene. Ci ha lasciato sole. A me e a Contessa Lavinia. Ci ha lasciate sole, sole, sole...Non ci vuole più bene», aggiunge, subito dopo, con voce atona. «Calma, calma. Piccola mia». Ettore le si avvicina e allunga una mano per toccarla ma lei fa scattare il coltello e lo ferisce al polso. Dietro di lei Alfonso è immobile e occhi vitrei si intravedono. Francesca gorgoglia, spruzzando saliva rossastra, mentre rivoletti rossastri percorrono le gambe poi tace anche lei.
Ettore fa un passo indietro, con una mano sbarra il passo al figlio maggiore, che l’ha raggiunto. L’ingresso della casa è ora immerso in un silenzio innaturale. Al centro della stanza Amina si riscuote e il coltello le cade di mano. Federico scende di corsa gli ultimi gradini e si getta sul corpo di sua madre, scuotendola ma senza avere risposta. Ettore scatta in avanti e recupera il coltello, che sistema su una mensola alta. 
Quando torna a dedicarsi alla figlia, lei lo guarda con aria spaesata: gli occhi sono vivide pozze nere, fino a poco prima - ne è più che certo - avevano sfumature di un azzurro pallido. Quasi identici a quelli della bambola, da cui sembra non voglia separarsi. Un comportamento fuori dalla norma, dato che Amina non ha mai amato le bambole. La figlia gli sorride, poi si avvicina tendendogli le braccia. Nel fare quel gesto le cade la bambola ma lei la ignora. Ettore non sa che fare, Federico piange, in terra, pochi metri più in là.
Improvvisamente l’ingresso si riempie di persone: cameriere, sguattere, la cuoca, Norvi. Tutti compaiono, richiamati probabilmente dalle urla e cominciano a parlare tutti insieme. Amina continua a guardare suo padre, le braccia aperte perché lui l’abbracci. Ettore non riesce a muoversi, o meglio: ad ogni passo della figlia per avvicinarsi lui arretra. 
A trarlo d’impaccio è una delle cameriere, che si mette sul passaggio di Amina e la prende in braccio. La bambina emette un urletto di protesta, poi accetta di farsi portar via. Contessa Lavinia resta sul pavimento, inzaccherata di sangue e con quel suo sorriso di traverso sul volto. Nessuno bada a lei. Una volta che Amina è stata allontanata, Ettore si riscuote a sua volta e riprende il solito piglio deciso, che lo caratterizza sia nella vita privata che negli affari. Si rivolge al maggiordomo.
«Norvi, avverti le autorità e fai in modo che tutto resti come è. E toglimi quella bambola maledetta dalla vista. Ricorda, alla cameriera di non mettere a lavare la camicia da notte di mia figlia, la polizia vorrà vederla», dice Ettore. E finalmente si fa vicino al figlio maggiore e si china ad abbracciarlo, in silenzio. Il vecchio maggiordomo ubbidisce, senza fiatare.
Norvi recupera la bambola e la consegna a una delle sguattere, ordinandole di portala alla signorina Amina, quindi si reca nello studio del padrone, dove si trova l’apparecchio telefonico e compone il numero della stazione di polizia del paese. Una volta comunicata la richiesta di far venire, con urgenza, qualcuno alla villa degli Ardigoti, si reca in cucina e parla con la cuoca, che si mette a preparare il caffè per i poliziotti e per il padrone.
«Sarà dura. Molto dura», commenta, prima di tornare nell’ingresso, a disposizione di Ettore e pronto ad accogliere la forza pubblica. La tragedia, per la seconda volta, incombe sulla famiglia.
In camera di Amina, Nina cerca di spogliarla ma la bimba scalcia e urla. Chiama la mamma, chiama il babbo. Piange e strepita. Quando Nina prende la bambola da Norvi e riceve la disposizione del padrone di mettere da parte l’indumento macchiato per la polizia, la bimba cerca di infilarsi nello spazio tra i due. «Mamma...Mamma...Mamma» ripete senza tregua ma Nina è veloce a prenderla in braccio e a riportarla sul letto. Le porge la bambola e Amina la guarda tra le lacrime e fa un passo indietro, cadendo sul piumone. Nina, senza perdere la calma, appoggia la bambola su un tavolino e poi torna ad occuparsi della bimba. «Su vieni - le dice con dolcezza, porgendole nuovamente la mano -. Togliamoci questa brutta camicia da notte e mettiamoci un bel vestitino». Amina afferra la mano e viene tirata in piedi di nuovo, Nina afferra l’orlo, stando ben attenta a non toccare le zone sporche, tira la stoffa arrotolandola pian piano e infine facendola passare sopra la testa. L’indumento finisce sul tavolo, accanto alla dimenticata Contessa Lavinia. Recupera il catino con l’acqua, posto sotto il comodino. Pulisce il viso e le mani della bambina, quindi le fa indossare, sopra alla biancheria miracolosamente pulita, un vestitino di percalle rosa e un paio di pantofole in tinta. La mette a terra e, afferrandole la manina, la conduce da suo padre, che si è ritirato nel suo studio privato, poi torna nella cameretta dove prende camicia da notte e bambola e li porta da Norvi, che a sua volta li pone sulla stessa mensola dove Ettore ha messo il coltello.
La casa e i suoi abitanti restano in attesa dell’arrivo della polizia, nessuno ha pensato a coprire i corpi martoriati di Francesca e dello zio Alfonso. I due cadaveri giacciono nell’ingresso fissando il soffitto.
LE FATE NON CANTANO PIÙ -
Nina bussa allo studio di Ettore, l’uomo apre l’uscio e fissa la cameriera, con una punta di stupore negli occhi. Accanto alla ragazza nota la figlia, ora ripulita dal sangue della madre e dello zio. «Signore - comincia Nina, arrossendo per l’evidente imbarazzo -. Forse è meglio che si occupi di Amina prima dell’arrivo...». Non riesce a finire la frase, fa una rapida riverenza e corre via, in direzione della cucina. Ettore la osserva scendere le scale veloce e dirigersi verso la cucina. Dallo studio non riesce a scorgere i corpi abbandonati dello zio e della moglie. Sente che dovrebbe essere, in qualche modo, in preda alla disperazione per la perdita di Francesca: non può negare a se stesso di aver amato - di amare ancora, gli mormora una vocina nella sua testa - la donna di un sentimento profondo. É conscio che i suoi occhi asciutti e l’essersi ritirato nello studio saranno considerati in modo strano dalle autorità. Ha spesso letto sui giornali di fatti di sangue e ha imparato, dalle enfatiche parole dei giornalisti, come un comportamento identificato come “fuori dal normale” può risultare pericoloso.
Ettore volge lo sguardo su Amina, che gli sorride. All’uomo appare la solita bambina, sembra inconsapevole di quello che ha fatto, i suoi occhi castani sono lucenti e appare tranquilla. Nessuna traccia della maledetta bambolotta che lo zio Alfonso le ha regalato poche ore prima. «Avanti, entra», si risolve a dirle, si scosta per permetterle di passare e poi si chiude la porta alle spalle. Ettore si sente a disagio insieme alla figlia come spesso gli è capitato.
Senza degnarla di ulteriore attenzione Ettore torna alla scrivania, recupera il pregiato libro di storia e si accomoda sull’ampia poltrona. Nel camino un grosso ciocco di legno arde allegramente e riscalda l’ambiente. La lampada diffonde una luce morbida e gialla. Un ambiente calmo e lontano dalle brutture del mondo.
«Papà mi leggi questo», Amina si arrampica sulle ginocchia di Ettore e punta il dito sulla pagina, producendo un secco fruscio. L’uomo si trattiene a stento dallo scostarsi con un gesto di ribrezzo, non tanto per quello che ha appena compiuto la bimba quanto per una sua naturale avversione per i bambini. Solleva il volume in modo da permettere alla figlia di sistemarsi poi pone il libro sulle sue ginocchia pallide e comincia a leggere. Amina appoggia la testa sulla sua spalla, rilassata e sorridente, mentre ascolta con espressione assorta.
La scena, vista da un casuale visitatore, apparirebbe deliziosa ma ad un osservatore più attento non sfuggirebbe l’espressione tirata del viso dell’uomo, senza difficoltà potrebbe riconoscere la fatica compiuta nei confronti dell’inconsapevole figlia.
Non son passati nemmeno quindici minuti da quando Amina è stata consegnata da Nina al padre, un forte bussare interrompe la lettura. Ettore intima alla figlia di scendere e si alza a sua volta. Con poche falcate è alla porta e la apre: si trova di fronte Norvi, più grigio del solito. Il maggiordomo si inchina rispettosamente e con poche frasi concitate lo avverte che di sotto la polizia è arrivata e richiede la sua presenza.
Ettore deglutisce e porta le mani al collo, si sistema la cravatta e poi supera il domestico. «Accompagnala tu di sotto, ma passa dalla cucina e controlla che sia in ordine», gli mormora prima di scomparire. Amina fa per seguirlo ma Norvi la ferma. «Signorina Amina, venite». Le prende la mano e l’accompagna verso la cucina. «Dove è la mamma?», chiede, a metà corridoio Amina. Norvi si ferma e si volge a fissarla: lei gli sorride, gli occhi castani brillanti. «Andiamo signorina», ripete, senza rispondere alla domanda.
Il vecchio e la bimba percorrono in silenzio il resto del corridoio, in pochi minuti sono in cucina. Nell’ampio ingresso della villa, con il marmo rosa scurito dal sangue rappreso, Ettore sta parlando con il commissario di polizia . É un uomo azzimato, magro e con due occhi neri acuti e profondi che, da sotto un Fedora di panno nero, scrutano l’uomo di fronte a lui.
«Ero nel mio studio, a leggere un libro di storia - racconta Ettore, cercando di ricostruire nel modo più preciso possibile i fatti. Sente il viso avvampare e le lacrime pungergli le ciglia ogni volta che ripensa a ciò che è successo e alla perdita che ha subito -. Mia moglie Francesca, insieme a mio zio Alfonso, era uscita per una passeggiata nel parco. Con loro erano andati anche nostro figlio maggiore Federico e l’altra figlia Anita. Amina era rimasta a casa per un po’ di febbre. Non so dire cosa sia successo ma ad un certo punto ho sentito delle urla e un gran trambusto provenire dall’ingresso». Il signor Ardigoti si blocca un momento, trattenendo il respiro. Davanti agli occhi scorrono le immagini terribili: Amina, il sangue, il coltello, la maledetta bambola Contessa Lavinia coperta di rosso. Il commissario Vanni Ragato annuisce e attende. Ettore si schiarisce la voce e prosegue. «Sono uscito e ho visto - si blocca di nuovo, poi si fa coraggio e prosegue nel racconto -...ho visto Amina davanti ai corpi di sua madre e suo zio. In mano aveva un coltello e la camicia da notte, la faccia...tutto insanguinato». 
Si guarda in giro, con espressione attonita: vede i poliziotti che si agitano. quando è sceso chiamato da Norvi ha notato che i corpi Francesca ed Alfonso erano stati coperti da un lenzuolo, poi scoperti per essere mostrati all’anatomopatologo, poi nuovamente nascosti, infine dovevano essere stati portati all’obitorio. Qualcuno gli deve aver detto che entro fine settimana i corpi saranno restituiti alla famiglia, in modo da poter esser celebrate le esequie.
Il solerte Norvi, impassibile come sempre, ha consegnato agli sbirri la camicia da notte di Amina e il coltello, entrambi avvolti in un panno in modo da non comprometterne l’integrità come prove. Anche la bambola Contessa Lavinia è finita in una busta delle forze dell’ordine. Sarà analizzata dagli esperti quale prova. Ettore, mentre la stanno imbustando, afferma, «Potete tenervela. Non vogliamo più vederla». Il commissario lo guarda e ribatte «Forse sua figlia la rivorrebbe indietro, una volta completata l’indagine», ma si pente immediatamente di quanto detto: la bambola è insanguinata tanto quanto i corpi martoriati dal coltello. Impossibile che torni pulita. 
«É colpa di quella maledetta bambola se è successo tutto...se Amina ha accoltellato sua madre. É colpa sua», sbotta Ettore con rabbia senza riuscire a trattenersi. Da quando ha trovato sua moglie e lo zio morti è la prima volta che la sua voce si incrina ad un’emozione. Rotto l’argine la disperazione sfocia in lacrime
Il commissario Ragato fissa l’uomo: in paese ha fama di studioso e di letterato. Spesso è stato indicato come persona molto colta e intelligente e, soprattutto, non ha l’aspetto di uno sprovveduto, uno che crede alle storie di bambole maledette e storie simili. «Scusi, in che senso?», gli chiede, cercando di apparire gentile. Ragato è un poliziotto dal carattere rude e dai modi spicci, abituato più a trattare con i criminali che con le vittime. Ettore lo fissa: devono essere circa coetanei ma non potrebbero essere più diversi: l’uomo di legge con lo sguardo sveglio dai modi bruschi e lui, studioso e con uno scarso rapporto con la realtà. 
Ettore si sente perduto senza Francesca, è - era - lei che si occupava di tutto: dalla casa ai bambini. «Scusi, diceva», sospira Ettore cercando di concentrarsi per rispondere alle domande. «Stia tranquillo - lo rassicura il commissario -. Diceva, poco prima, che è stata la bambola. Cosa intende? Mi pare che mi abbia detto che è stata Amina a compiere...». Sta per dire “massascro”, ma si blocca. Si sistema il Fedora e cerca di sorridere, sperando di essere accattivante e rassicurante.
Ardigoti asserisce, «Amina ha delirato qualcosa a proposito di fate, della bambola e che era stata abbandonata. Ha detto che sua madre non voleva più bene a lei. E anche alla bambola». Ettore si afferra la testa, come colto da un malore. «Posso sedermi?», chiede mentre le mani cominciano a tremare: una reazione nervosa. Ragato fa un cenno positivo e Ettore si dirige nel salone. 
La maggior parte degli agenti ha lasciato la casa e tutto sembra di nuovo normale e tranquillo. Il sole è scomparso e qualcuno ha acceso le lampade. 
Ettore si lascia cadere sulla sua poltrona, mentre il commissario ammira lo sfarzo dell’ambiente, poi il suo sguardo viene catturato dalle palle color argento. Si avvicina e con attenzione ne prende in mano una, quando la solleva dall’interno si sprigiona una sinfonia di scampanellii. «Le fate - urla Amina entrando di corsa nella sala -. Le fate, non fare del male alle fate. Le hanno uccise. Povere fate».
Ettore si alza di scatto e si dirige dalla figlia. La prende in braccio e fa per uscire dalla stanza per riportarla in cucina. In mezzo all’ingresso trova Nina. «É scappata», si scusa la ragazza e fa per prendere a sua volta Amina in braccio quando il poliziotto emerge. «Per favore, vorrei parlare con lei...In sua presenza, ovviamente, signor Ardigoti».
In fondo, pensa Ettore, non ha torto dato che Amina ha commesso gli omicidi. L’idea gli mette i brividi ma per quanto terribile sia l’idea è solo la nuda e cruda verità e dovrà imparare a conviverci per il resto della vita. Torna meccanicamente indietro e insieme alla figlia si siede sul divano. Ragato li raggiunge e, prima di chiudere le porte del salone alle sue spalle, lancia un’occhiata alla cameriera, che se la da a gambe scomparendo in cucina.
Lo sconosciuto raggiunge padre e figlia, sorride e torna al tavolo. Le strane sfere sono ancora sparpagliate sul piano, Ragato ne afferra una e la mostra ad Amina. La ragazzina l’afferra e la struscia sulla guancia. «Povera fata - mormora -. Povera fatina. Ti ha uccisa», si stringe al petto la palla e poi la bacia e una lacrima riga la guancia pallida. Ettore le accarezza i capelli con dolcezza, lei solleva gli occhi castani verso di lui e gli riserva un mesto sorriso. Ettore sente che sta per cedere e si alza, rifugiandosi nella sua poltrona. Ragato prende il suo posto, vicino ad Amina. Il gingillo è ancora stretto tra le mani. Il commissario si chiede come rivolgersi alla ragazzina, i bambini lo mettono ancor più a disagio degli adulti. Prima che riesca a dire qualcosa è lei che si rivolge a lui. «Lo zio aveva ucciso le fate, io ho dovuto punirlo. Non si uccidono le fate. Ora non cantano più». Scuote l’oggetto ma non proviene alcun suono. Ragato la fissa, stupefatto. «É morta», dice Amina con voce atona.
Il commissario sta per rivolgerle una domanda quando la bambina comincia ad essere scossa da un tremito. L’uomo fa un balzo indietro mentre il padre si alza di scatto e la prende al volo, prima che rovini a terra. Della bava esce dalla bocca e gli occhi sono rovesciati all’indietro. «É meglio portarla in ospedale. L’accompagno io», Ragato guida l’uomo con in braccio la bambina alla porta e poi verso la sua auto. Amina tra le braccia del padre continua ad essere scossa da quella che sembra una crisi epilettica molto grave.
Ragato guida veloce verso il paese, la nebbia avvolge il paesaggio invernale come una coperta grigia spessa e pesante e rende quasi impossibile scorgere la strada.
Con uno stridio di freni la macchina si ferma davanti al piccolo nosocomio e Ragato balza fuori, circumnaviga il mezzo e aiuta Ettore ad uscire poi entra di corsa. Facendo valere il suo tesserino di commissario requisisce un medico del turno di notte e lo scorta fino all’ingresso. Ora Amina è calma, tra le braccia del padre. Il medico fa cenno ad un’infermiera e fa strada al poliziotto e all’uomo con la ragazzina fino ad un ambulatorio. Si presenta velocemente come Antonio Malvaldi, anche lui da poco è stato trasferito da un’altra sede per sostituire il vecchio primario, che è andato in pensione qualche mese prima.
Ettore adagia Amina sul lettino sistemato a sinistra e le accarezza il viso, umido ma freddo al tatto. «Povera figlia mia», mormora. Intanto il commissario ha fatto un riassunto della situazione al medico. «É stato il primo caso di, diciamo, atti convulsori?»; domanda. Ardigoti annuisce, «Per quel che ne so...Ma Francesca me l’avrebbe detto, se avesse avuto qualche problema di salute. É sempre così attenta. Amina le crea sempre così tante preoccupazioni...», aggiunge senza distogliere lo sguardo dalla bimba, che riposa sulla branda.
L’uomo in camice bianco, sgualcito quasi quanto il suo viso asciutto, si siede alla scrivania. «Le cause di questo evento potrebbero essere molteplici e dovremo sottoporla ad esami per accertarne l’origine». Gli occhi sono arrossati dalla mancanza di sonno ma lo sguardo è attento e vigile. «Potete lasciarla qui per stanotte e domani mattina ce ne occuperemo», aggiunge il dottor Marvaldi, cercando di mostrarsi rassicurante.
Ettore lancia un’occhiata al commissario, che si fa avanti. Si schiarisce la voce e cerca, con tatto, di spiegare la situazione.
«Mi rendo conto che l’ora è improba ma questa bambina è parte importante di un’indagine di polizia e deve essere ancora interrogata». Dal lettino Amina emette un singhiozzo e suo padre le si fa vicino. «Si sta svegliando», comunica. La voce gli trema ma non è chiaro se per l’emozione o per la preoccupazione.
Malvaldi si alza e si avvicina, la bimba lo guarda con occhi lucidi di febbre. Il viso è arrossato ma sorride. Il poliziotto resta in disparte ad osservare la scena, sposta il peso del corpo da un piede all’altro e alla fine raggiunge i due uomini. Fa un cenno al dottore e chiede se la bimba possa rispondere ad alcune domande. 
«Sarebbe meglio aspettare domani pomeriggio», risponde Malvaldi tornando alla scrivania. «Non vorrei che si agitasse nuovamente, scatenando un altro episodio convulsorio o reazioni peggiori. Non sappiamo nulla, per il momento». Poi si rivolge, di nuovo, ad Ettore: «Se riusciste a procurarvi qualche informazioni dal medico di famiglia sulla salute di vostra figlia...sarebbe per noi molto utile». Ardigoti annuisce. «Il nostro medico di famiglia è il dottor Fausto Cernaja, il numero dello studio e del’abitazione coincidono». La risposta è vaga, sintomo del disinteresse che l’uomo deve aver riservato alle piccolezze legate alla famiglia.
Amina comincia ad agitarsi, cercando di mettersi seduta. «Calma, calma», la ammonisce Ettore ma il medico lo esorta a lasciarla fare. Le si avvicina e le sorride. «Come ti senti?», le chiede con garbo. Amina trae un lungo sospiro e mormora un bene, poco convinto, cui fa seguito un lungo sbadiglio.
Malvaldi sorride e con un interfono convoca un’infermiera e le affida la piccola Ardigoti, raccomandandosi di metterla in una camera da sola. 
Ragato è sempre più impaziente ma non può fare molto, non vuole correre il rischio di ritrovarsi con una denunzia perché ha sottoposto ad interrogatorio una bambina malata. Anche se si tratta di un’omicida.
Rimasti soli il commissario si offre di accompagnare Ettore a casa. «Tornerò domani pomeriggio a prenderla, se lo desidera», ma quello scuote la testa. «Se non è un problema per il dottore preferirei dormire qui...per non lasciare Amina da sola. É una bambina così fragile, alle volte. Da qualche tempo Francesca si lamentava di improvvisi momenti di debolezza e febbre alta o improvvisi attacchi di sonnolenza, che si manifestavano nel corso della giornata». Il medico non obietta, sebbene il regolamento del piccolo nosocomio non lo permetterebbe ma si rende conto che quella è una situazione anomala.
Per quanto nessuno dei due gliel’abbia palesemente detto, è chiaro che sono coinvolti nel brutale duplice omicidio che si è consumato poche ore prima a Villa Primavera. Non riesce a capire quanto sia coinvolta la piccola ma, dalle reazioni del poliziotto, sembra che abbia un ruolo centrale nella tragica vicenda.
«Arrivederci. Tornerò domani pomeriggio. Spero che per allora sia possibile parlare con la bambina», saluta Ragato, poi scompare fuori dall’ufficio. L’ultima avvisaglia della sua presenza è il rombo della macchina che si allontana nella notte.
Il medico e il padre di Amina sentono l’assenza del poliziotto in modo fisico. L’uomo senza il camice si appoggia al lettino e nasconde il viso tra le mani: contro i palmi sente le lacrime pungere e il corpo scosso dai tremiti.
Il medico resta in disparte, dall’armadietto alla sua destra una boccetta contenente un liquido trasparente, ne versa alcune gocce in un bicchiere e vi aggiunge dell’acqua quindi lo porge ad Ettore. «Beva. La calmerà», gli dice, affabile. Ettore si scola in un sol sorso il liquido trasparente, è amarognolo e gli ricorda una medicina che sua madre gli somministrava da bambino. Man mano che l’ansiolitico fa effetto sente una strana calma impossessarsi di lui. «Posso andare da Amina?», domanda al dottore, che gli fa strada. Il piccolo ospedale è silenzioso, i malati riposano e il personale del turno di notte si è preso una pausa prima di tornare ai propri doveri. In una saletta alcune infermiere sorbiscono una tazza di tea caldo, sperando che nessuno per qualche decina di minuti abbia bisogno di loro.
La piccola è stata sistemata in una bella cameretta, con due letti. L’abito è ben piegato su una sedia e ad Amina è stata fatta indossare una camicia da notte di cotonina bianca. Sta dormendo e si tiene stretta una ciocca di capelli. Il letto di fianco è libero ed è stato preparato. Ettore si siede sulla sponda e comincia a togliersi le scarpe. La stanchezza ha preso il posto alla rilassatezza di pochi minuti prima, Malvaldi gli lancia un’occhiata e gli dice: «Vado a vedere se le trovo un pigiama e una vestaglia», prima di scomparire in corridoio. 
Ettore guarda l’orologio, sono le 11.45. A casa si staranno chiedendo che fine possono avere fatto, pensa che forse avrebbe fatto meglio ad accettare il passaggio del poliziotto e poi avrebbe sempre potuto far ritorno all’ospedale con la sua macchina. «Avrei potuto prendere anche il necessario per domani», si dice togliendosi la camicia poi i pantaloni. Con cura piega gli abiti e li dispone su un tavolino, si siede sul letto attendendo il ritorno del medico.
Sente Amina lamentarsi nel sonno, come se stesse avendo un brutto sogno. La mancanza di Francesca si ripresenta con prepotenza e sente nuovamente le lacrime salirgli agli occhi.
Malvaldi riappare alle sue spalle, reggendo degli abiti candidi e glieli porge. Ardigoti indossa la casacca e i pantaloni del pigiama. Sono puliti e freschi di bucato. «Grazie», mormora con riconoscenza, mentre il medico lo accompagna a letto e lo aiuta a infilarsi sotto le coperte. «Cerchi di riposare», gli dice lo specialista. «Domani visiteremo sua figlia e vedrà che andrà tutto bene» poi esce e socchiude la porta ma viene fermato dall’uomo. «Aspetti, voglio spiegarle - comincia a parlare -. Usciamo». A piedi nudi lo raggiunge ed esce in corridoio. Chiude la porta. «C’è una cosa che non le ho detto, prima, su Amina - Ardigoti è visibilmente agitato, nel tentativo di raccontare con chiarezza mentre la sua mente si fa sempre più confusa -. Da dopo la tragedia la salute della bambina è andata peggiorando, ma il nostro dottore ci ha assicurato che sarebbe migliorata...che ci voleva solo del tempo». Malvaldi ascolta attentamente, la memoria di Ettore si scioglie e riassume tanti piccoli avvenimenti, dispersi nella quotidianità. La narrazione manca di elementi e particolari ma riesce a dare un quadro abbastanza generale delle condizioni della bambina al dottore. «Grazie, ora vada a risposare. Ne ha bisogno», gli dice aprendo la porta, poi fa un cenno con la mano e si allontana verso le scale. Intorno tutto è bianco e silenzioso. 
Ettore torna a letto, rabbrividendo e cerca conforto tra le coltri. Cede ad un sonno chimico e senza sogni, in cui sono lavate via le emozioni violente vissute quel giorno. Il medico torna nel suo studio e dall’armadio di metallo trae alcuni volumi, che dispone sulla scrivania. Prima di immergersi nella ricerca di qualche informazione che possa fare chiarezza sullo stato di salute della piccola Ardigoti, chiama una delle infermiere e le chiede di cercare il numero di telefono del dottor Cernaja. La donna prende il foglio con le informazioni e torna al gabbiotto della telefonista, mettendosi a scartabellare l’elenco telefonico. Per sua fortuna in paese c’è un solo Fausto Cernaja, medico generico e meno di un quarto d’ora dopo consegna il biglietto con il numero al suo capo. «Grazie Gabriella, sarebbe così gentile da portarmi una tazza di caffè». La donna fa un cenno d’assenso ed esce, dirigendosi alla sala riunioni, dove è a disposizione del personale una macchina per preparare bevande calde. 
Intanto il primario apre i libri, alcuni se li è portati dall’università e altri li ha acquistati recentemente: in essi spera di trovare una risposta ai sintomi presentati da Amina Ardigoti.
Un lieve bussare lo distrae dalla sua lettura. Gabriella, la caposala, entra reggendo una tazza fumante. «Eccola, cerchi di non stancarsi troppo», gli si rivolge con una certa apprensione. Malvaldi aspira l’odore intenso del caffè e l’appoggia sul tavolo, distante dai libri ma abbastanza vicina da essere raggiunta allungando il braccio.
«Mi sembra di essere tornato a quando preparavo l’esame di chirurgia», ride ma l’infermiera resta seria. «Io vado - dice, guardando l’orologio che le pende sul petto -. É ora del giro». A passo di carica esce e Malvaldi può tornare ai suoi libri.
Man mano che spulcia tra le pagine e i capitoli dei grossi tomi, .un sospetto si insinua e scava nella sua testa come un verme nella terra e si artiglia ai suoi pensieri. 
Prende appunti e fa schemi, cancella opzioni e ne aggiunge altre: alle tre di notte, infine, sembra essere giunto ad una conclusione ma sa che ci vorranno esami specifici per sapere il suo sospetto è corretto oppure no. In fondo spera di essersi sbagliato. Si stira e stropiccia gli occhi, carica la vecchia sveglia che gli ha regalato sua madre quando si è laureato e si sdraia sulla branda, prendendo subito sonno.
Dall’altra pare del villaggio, in un appartamento spoglio, messo a disposizione dal comando provinciale, il commissario Vanni Ragato si rigira nel letto. É arrabbiato con se stesso per aver ceduto alla richiesta del padre dell’assassina e si chiede che cosa diranno i superiori del suo comportamento. «In un posto peggiore di questo non possono spedirmi», si ripete, avvolto nelle coperte, fissando il soffitto. 
Senza aver chiuso praticamente occhio per buona parte della nottata, alle sei si alza e si prepara. Albeggia appena quando scende in strada, il bar all’angolo sta aprendo e lui si infila dentro, aiutando il ragazzo a sollevare la serranda.
Lo accoglie il barista, un giovanotto allegro e socievole. Ordina un cappuccino e lo scola così: bollente e senza zucchero. Paga e se ne va. In tutto non ha pronunciato più di dieci parole.
La sua meta è, prima di tutto, il comando. Fa qualche domanda in giro chiedendo di leggere il rapporto sull’omicidio in casa Ardigoti e domanda se si sa qualcosa dal medico legale o dal laboratorio, dove sono stati spediti la camicia da notte, il coltello, la bambola e le forbici. Le risposte che ottiene gli fanno capire che è meglio desistere. «Vado», dice al piantone e quello non fa in tempo a chiedergli dove, che è già scomparso. 
Sale in macchina e si dirige all’ospedale. Vuole ignorare che lo spaccaossa gli ha detto di presentarsi nel pomeriggio, e comunque ha deciso di seguire da vicino tutti gli esami a cui Amina Ardigoti sarà sottoposta: dopotutto è pur sempre l’autrice di uno dei più efferati omicidi di cui si sia occupato durante tutta la sua carriera. Non vuole rischiare di perdersi un indizio.
Parcheggia il più lontano possibile e marcia verso l’ingresso, si confonde con i parenti dei ricoverati. Alla reception scorge una bella ragazza, vestita con la divisa da ausiliaria e fa per avvicinarla ma è intercettato dal dottore Malvaldi. L’uomo appare ancor più spiegazzato del giorno prima. «Speravo proprio che si presentasse», gli dice, afferrandolo per un braccio e tirandolo verso il suo studio. Ragato sente i peli del collo drizzarsi e sa che non è un buon segno. Il primario chiude la porta e lo invita a sedersi. «Perdoni il mio modo di fare un po’ brusco, ma ho bisogno di parlare con lei. Ieri non c’è stata occasione». 
Tace un momento e prende fiato. «Solitamente non mi immischio in questioni dove è coinvolta la polizia, ma dato che sembra che quella bambina, malata per di più, sia per voi così importante, mi sento in dovere di non lasciare nulla al caso. Sarebbe, quindi, così gentile da dirmi in che modo quella povera creatura è coinvolta con il suo duplice omicidio?».
Ragato sente un raschio in gola mangiarsi le parole. «L’ha commesso». La frase è buttata lì, come se fosse la risposta più ovvia. «Così ci è stato riferito dal padre, dal maggiordomo, da tre cameriere e dal fratello maggiore, sebbene nessuno l’abbia vista materialmente commettere il reato. É stata trovata con in mano l’arma, dal padre. Non abbiamo motivo di credere che sia stato qualcun altro, a questo punto dell’indagine anche se io sarei più contento che venisse fuori. Non mi piace l’idea che una bimba di dieci anni abbia commesso un duplice efferato omicidio», aggiunge. «Altri particolari non posso rivelarli, sono protetti dal segreto istruttorio. Le sto anche dicendo più di quello che sarei autorizzato a fare in circostanze più normali, ma mi rendo conto della particolarità della situazione e penso che sia più utile averlo come alleato che dover combattere con lei».
Ragato si zittisce e pensa che avrebbe bisogno di una sigaretta, per calmarsi e schiarirsi le idee. «Sarebbe utile, per noi, riuscire almeno a prendere le impronte alla bambina e anche al padre. Ci servono per il confronto. Ieri non siamo riusciti». Aggiunge in un secondo momento, titubante.
Il medico accenna ad un sorriso schivo ma torna subito serio: «Al momento la bambina deve stare tranquilla, prima di avere i risultati degli esami non mi sento di sottoporla ad alcun tipo di stress inutile. Per quel che riguarda il padre potete agire come meglio credete, senza dimenticare che vi trovate in un ospedale e dovete tenere un certo contegno».
Ragato sa che è improbabile riuscire a trovare qualche residuo addosso alla piccola ma continua a sperarci. Sarebbe un bel colpo di fortuna. «Potete almeno far consegnare ai nostri gli abiti che aveva indosso ieri? Per vedere se ci sono residui, che potrebbero aiutarci a sbrogliare la matassa di questo strano caso».
Malvaldi si accarezza il mento, con aria dubbiosa. «Per gli abiti non ci sono problemi, spero solo che non siano già stati lavati. Manderò subito un’infermiera a prenderli e glieli farò portare. Mi attenda qui». Malvaldi si alza ed esce, sulla porta ferma una giovane e parlottano per un lungo momento quindi rientra. Si siede di nuovo e attende, in silenzio. Ragato si sente a disagio ma non osa. 
L’uomo di legge non sa se sia opportuno raccontare al medico la storia delle fate, dei gingilli argentati, della bambola ma pensa che per quello ci sarà tempo.
Un bussare delicato attira l’attenzione dei due uomini e l’infermiera di poco prima entra, reggendo una busta di plastica trasparente contenente un abitino da bambina. Pulito. Poi si ricorda: non è quello che aveva indosso quando aveva commesso i delitti. Cercando di apparire cordiale lo afferra e lo appoggia vicino alla sedia, quindi ringrazia con un cenno la donna. Il medico la invita ad uscire con un movimento della mano.
Quando sono di nuovo soli Malvaldi ricomincia ad accarezzarsi il mento. «Prima che parliate di nuovo con Amina Ardigoti, voglio che gli esami che ho ordinato questa mattina siano completati. Ho fatto delle indagini, confrontando informazioni datemi dal padre e sto attendendo anche che il medico di famiglia arrivi. Se avete tempo potete aspettare. Penso che possa essere utile per le indagini. Dovete solo pazientare. Se volete posso farvi portare qualcosa».
Il commissario si passa una mano sul viso, dovrebbe passare al comando per consegnare un primo rapporto ai suoi superiori ma non saprebbe scrivere molto di più rispetto alle poche informazioni che ha già messo nelle loro mani. E per i quali si è preso non poche occhiatacce di biasimo. Come se fosse colpa sua se una bambina isterica aveva preso a coltellate mamma e zio a pochi giorni dal natale e dai giorni di riposo per molti di loro.
«Grazie dell’opportunità, professore - risponde -. Se non le dispiace esco a fumare una sigaretta poi magari, se fosse possibile, avere un caffè». Ragato si alza e si reca alla porta. Il medico, dopo aver parlato con la caposala, gli si avvicina e lo accompagna in corridoio. «Quando avete finito tornate pure al mio studio. Adesso devo andare a fare un giro di visite ma tornerò in breve tempo. Poi discuteremo della faccenda».
Il commissario esce e assapora l’aria fresca del mattino dicembrino. Si ravvia una ciocca di capelli e si accende la sigaretta. Aspira a lungo e lentamente, godendosi ogni boccata. Appoggiato ad un muretto osserva il via vai di medici e dei parenti in visita.
Dopo aver gettato il mozzicone Ragato rientra e attende il dottor Malvaldi in corridoio, sentendosi in imbarazzo ad entrare nel suo studio senza di lui. Mentre aspetta il medico vede arrivare un signore trafelato. Non è tanto alto e  regge una borsa da medico. Si rivolge ad una donna in divisa da ausiliara, «Cerco il dottor Malvaldi, sono Fausto Cernaja». Quel nome accende una lampadina nella testa di Ragato, che si fa avanti e allunga la mano all’uomo. «Commissario Vanni Ragato, piacere». L’uomo lo guarda poi a sua volta allunga la destra e gliela stringe. «Piacere. Sto cercando il dottor Malvaldi, mi ha chiamato ieri per una questione inerente Amina Ardigoti. Spero che non le sia successo nulla di così grave da richiedere la presenza della polizia».
Ragato si schiarisce la voce e sta per rispondere quando dal fondo del corridoio compare Malvaldi. Li raggiunge e chiama, di nuovo, la caposala. «Per favore, ci porti tre caffè e magari qualche cornetto, anzi a me porti un cappuccino. Non ho ancora mangiato nulla da ieri. Per favore mandi Ottone al bar. Prego seguitemi». Il medico fa cenno ai due uomini di seguirlo nello studio, sventolando una cartella recante il nome di Amina Ardigoti.
La capo sala scuote il capo mentre torna alla reception, compone un numero interno e dopo poco ecco giungere un ragazzone grande e grosso dall’espressione pacifica e sorridente. 
Confabula brevemente con lui e gli mette in mano due banconote. Quello scatta sull’attenti poi esce. Pochi minuti dopo si lancia, a bordo di una vecchia motoretta, giù dalla strada.
Intanto nello studio privato del medico, i tre uomini chiacchierano in attesa della colazione. Cernaja è a disagio e continua a sistemarsi la cravatta, Ragato trattiene la necessità di fumare una sigaretta. «Appena bevuto il caffè parleremo. Mi sono stati appena consegnati gli esami di Amina e vorrei discuterne con voi, dottor Cernaja. Quanto a voi, commissario, avrete preziose informazioni da dare ai vostri capi. Informazioni che spero vi aiutino nelle vostre indagini».
Cernaja lancia un’occhiata storta al poliziotto poi al medico poi di nuovo al poliziotto. «Posso sapere come mai mi ha chiamato. É successo qualcosa di grave alla bambina?». Malvaldi ignora la domanda e si appoggia allo schienale della poltrona e intreccia le mani dietro la testa. Ragato non sa se rispondere al posto del primario, alla fine preferisce tacere e osservare lo svolgersi della vicenda.
Dieci minuti dopo qualcuno bussa alla porta e Ottone fa il suo ingresso reggendo un vassoio coperto. Con abilità lo appoggia sulla scrivania e lo scoperchia, rivelando tre cappuccini fumanti e paste di vario genere. Il barista ha fatto un ottimo lavoro. Vedendo i croissant freschi, Ragato si rende conto di aver fame. «Grazie Ottone», gli dice il dottore afferrando un grosso cornetto. L’uomo scatta sull’attenti e sorridendo esce, tornando alla sua mansione di magazziniere.
Gli uomini si godono il rinfresco in silenzio e quando hanno infine finito, Malvaldi si occupa di liberare il tavolo. «Ora alle faccende serie», esordisce prendendo la cartella. «Per prima cosa, grazie di essere venuto con così breve preavviso, dotto Cernaja. Questi che ho qui con me sono gli esami cui ho fatto sottoporre Amina Ardigoti. Per prima cosa, penso debba sapere cosa è successo perché la bambina sia ricoverata qui e può farlo in modo esaustivo il commissario».
Ragato trae un lungo sospiro e si stropiccia le mani. «Ieri pomeriggio Amina Ardigoti ha ucciso a coltellate sua madre e suo zio, senza apparente motivo. Sia al momento dell’atto criminoso che in seguito, rispondendo a mie domande, ha parlato in modo sconnesso riguardo a fate morte, all’essere stata abbandonata dalla mamma». Malvaldi sgrana gli occhi, quella manciata di notizie conferma le scoperte fatte durante la sua ricerca. A quella notizia Cernaja quasi cade dalla sedia dalla sorpresa e fa cadere la borsa da medico, che ancora tiene stretta al petto.
«Come è stato possibile? Quando l’ho visitata l’ultima volta, tre mesi fa, mi è sembrata tranquilla. Da dopo la tragedia ha fatto molti miglioramenti importanti», quasi urla, con voce stridula.
«Che tragedia?», chiede Ragato, lasciando venir fuori la sua anima da segugio.
L’uomo sgrana gli occhi e inizia a raccontere. «Amina aveva una sorella gemella identica, Flavia. Come spesso capita in questi casi, le due bambine erano molto unite. L’inverno passato Flavia ed Amina hanno contratto una brutta forma di polmonite, che ha minato il loro fisico. Contro ogni previsione sono guarite ma Flavia è rimasta molto debole e la primavera seguente, durante un’escursione, ha avuto un incidente. Per quasi due settimane ha lottato ma non ce l’ha fatta. Da allora Amina ha cominciato ad avere problemi caratteriali. Ettore e Francesca si sono rivolti a me e insieme abbiamo cominciato un percorso per cercare di capire come procedere. Tre mesi fa ho visitato Amina e l’ho trovata migliorata». Il medico di campagna tacque, Malvaldi e Ragato si lanciano un’occhiata perplessa. Questa nuova informazione chiarisce un quadro prima nebuloso.
«Le avete fatto delle visite di tipo psicologico più che mediche, se non ho capito male», domanda il primario e l’altro annuisce. Senza aggiungere altro gli passa la cartella e quello legge velocemente.
«Non è possibile», sospira infine. «Avrei voluto sbagliarmi ma purtroppo non è così: quella bambina sta molto male e starà sempre peggio».
«Se potete spiegare anche a me», interviene il commissario, che ha tirato fuori taccuino e penna.
«Amina Ardigoti ha un medulloblastoma», la voce di Malvaldi suona cupa. Il viso è pallido e le occhiaie scure spiccano su quel candore. «Si tratta di un tumore maligio, tra i più diffusi in età infantile. Si sviluppa per lo più nel cervello o in altre parti dell’encefalo».
Cernaja si stropiccia la cravatta, sempre più nervoso. «Come ho fatto a non accorgermi. I sintomi erano palesi. Mal di testa, nausea, vomito, debolezza e febbre, sonnolenza e cambiamenti dell’umore...ma ho pensato che fosse tutto causato dalla morte di Flavia».
Ragato sente addosso tutto il peso di quelle frasi: con quella diagnosi non è possibile imputare alcunché alla bimba, se mai prima ci fosse questa opzione.
«Signori - il commissario si alza in piedi -. Io devo andare a fare rapporto. Grazie per la collaborazione». A Malvaldi porge un cartoncino, «Il mio numero diretto». Fa un saluto con la mano ed esce. Una volta nel piazzale si ferma e comincia a respirare con lentezza.
Nello studio i due dottori continuano a parlare, la previsione di vita della bambina non è delle migliori. «Possiamo solo cercare di alleviare il dolore. Da quello che si evince dalle analisi e dalle radiografie, il tumore è troppo esteso per intervenire con la chirurgia. Inoltre la bambina è molto debilitata per quello che è accaduto ieri, quindi qualunque terapia che non sia palliativa potrebbe risultare controproducente».
La discussione è interrotta da un bussare sordo. Malvaldi si alza ed apre, trovandosi davanti Ettore Ardigoti. Ha un’espressione provata e i vestiti spiegazzati. «Scusate - appare imbarazzato -. Vorrei sapere se ci sono novità dagli esami. Amina ora è con un’infermiera e sta giocando. Sembra stare meglio di ieri».
Malvaldi si fa da parte ed invita l’uomo ad entrare. Cernaja si alza in piedi di scatto vedendo Ardigoti e gli si avvicina, con espressione comprensiva.
«Si sieda», lo invita il primario, accomodandosi a sua volta. «Signor Ardigoti - la sua voce è spezzata ed incerta - gli esiti degli esami di Amina, non sono per niente buoni. Ho chiamato il dottor Cernaja perché è il vostro medico di famiglia». Fa una breve pausa, poi riprende a parlare. «Mi ha parlato di quello che è accaduto la primavera scorsa. Penso che Amina fosse già malata allora ma il trauma potrebbe aver scatenato i sintomi più importanti».
Ettore volge lo sguardo su entrambi, «Cosa ha mia figlia?». La sua voce esprime tutta la tristezza che ha nel cuore. É Cernaja a rispondere: «Amina ha un brutto tumore al cervello. Non operabile. Io, io ho frainteso come psicologici quelli che invece erano i sintomi della malattia. Ora è troppo tardi, la sola cosa che possiamo fare è farle vivere al meglio questi ultimi mesi di vita».
Nel sentire la condanna che grava sulla testa di sua figlia, Ettore non riesce a trattenersi e scoppia in lacrime: prima Flavia, poi Francesca e lo zio Alfonso e ora Amina. «E cosa posso fare? E la polizia cosa dice? E la storia della bambola, delle fate?», ha così tante domande da fare che non riesce più a trattenersi.
Malvaldi si alza e gli si fa vicino, appoggia una mano sulla spalla. «Le “fate” che Amina sostiene di aver sentito cantare e le parole pronunciate dalla bambola sono solo allucinazioni causate dalla malattia».
Il primario aggiunge che ha avvertito il commissario e che è sicuro che non ci saranno ripercussioni su Amina, data la sua particolare situazione.
«Può venire a casa?», chiede un ormai prostrato Ettore.
«Al momento non ancora, dobbiamo ancora fare qualche esame per capire come sarà meglio agire, inoltre vorrei che il vostro medico la visitasse. Per cercare di avere un’idea chiara della sua condizione mentale. Penso che tra un paio di giorni potrete tornare a casa».
Ettore non può far altro che accettare. «Oggi tornerò a casa per avvertire Federico e portarlo a trovare Amina. Vi ringrazio della vostra premura verso mia figlia».
L’uomo esce dallo studio, le spalle curve e l’aria di chi porta addosso tutti i mali del mondo. «Che tragedia», commenta Cernaja.
Quando torna in camera Ardigoti trova la figlia intenta a disegnare insieme ad un’infermiera. «É stata bravissima», gli dice la donna. L’uomo fa un cenno di ringraziamento e si prepara. «Io devo andare via per qualche ora, se potete occuparvi di lei». L’infermiera risponde con un cenno del capo, è stata assegnata ad Amina dal dottor Malvaldi. «Andate tranquillo, mi occuperò io di lei».


Ragato bussa all’ufficio del suo capo. La voce rude gli intima di entrare. «Eccovi Ragato, iniziavo a temere che foste scappato». L’uomo non risponde ma si siede e trae dalla tasca del cappotto il taccuino.
«Avete novità su quell’incresciosa storia dell’omicidio Ardigoti?». Il commissario si limita ad annuire, si schiarisce la voce e comincia a parlare.
Per due ore Ragato e il suo capo parlano e si confrontano. La conversazione è interrotta ad un certo punto da un giovane agente, che comunica a Ragato di essere atteso al telefono.
Il commissario esce e dopo pochi minuti rientra, un’espressione triste in volto.
«Le condizioni di Amina Ardigoti si sono aggravate. Mi ha appena chiamato il primario. Ha poche settimane, forse giorni».
Ragato tace e attende che il suo capo gli dica come procedere, se fosse per lui chiuderebbe quel caso senza infierire oltre sulla famiglia ma con il suo superiore non si può mai sapere.
«Fate come volete. A questo punto a che serve», ringhia l’uomo dietro la scrivania.
Ragato scatta sull’attenti, fa il saluto ed esce, prima che l’altro cambi idea.

4 commenti:

  1. quando lo inizi non riesci più a fermarti, quando arrivi in fondo ti viene istintivo cercare la pagina dopo e a malincuore sai che devi aspettare per poter leggere il resto, rimani in trepidante attesa di come prosegue

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  2. e chi riesce ad aspettare, adesso?? mik

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  3. Davvero un ritmo e una storia che ti prendono! Robby

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  4. Davvero un ritmo e una storia che ti prendono! Robby

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