venerdì 17 maggio 2013

MARE D'INVERNO - incontro casuale


Ore 2.30 pm.
Alice si stringe nel giubbotto di pelle e si sistema il foulard nero intorno al collo, il vento le spazza i capelli arruffandoli. Si ritira ancor più sotto la pensilina della fermata del bus, cercando di evitare le raffiche. Con gesto sinuoso scosta da viso alcune ciocche e ritorna a guardare la spiaggia, che si estende dirimpetto a dove si trova. La sabbia è umida, friabile e sembra riflettere il grigio del cielo producendo strane luci cangianti. Le giunge un odore di alghe marce e uno che non riesce a definire, simile a metallo bagnato. Densi cumuli di nuvole si addensano in cielo e una brezza solleva deboli mulinelli. Le onde del mare si sollevano sporadiche andando ad infrangersi sul bagnasciuga. 
La ragazza si perde nei propri pensieri, soffermandosi su quel paesaggio di desolazione: alla maggior parte delle persone i luoghi di mare durante la stagione invernale mettono addosso un senso di depressione, di tristezza e di solitudine. Ad Alice, invece, piacciono. Ama passeggiare per le vie deserte respirando l'aria greve del mare, le rievoca la sua infanzia. Persino il tramonto anticipato del sole riesce a metterla di buonumore. Il suo animo crepuscolare riemerge prepotentemente. É per quello che è lì: per il suo nuovo romanzo; ha deciso che il suo bell'appartamentino mansardato, nel centro di Firenze, non andava bene. Per scrivere la nuova storia che sta prendendo corpo nella sua mente ha bisogno del mare, del mare di inverno. Si sente invadere da quell’atmosfera pallida e silenziosa, da quell’abbandono grigio e solitario. Le idee si affollano e dovrebbe prendere appunti...
«Promette pioggia, signorina, entro sera verrà giù un bell'acquazzone. Meglio che si incammini verso casa se non vuol prendersi una lavata, una di quella forti. Qui quando piove, piove seriamente. Rischia di buscarsi un malanno, uno di quelli brutti».
Alice, interdetta da quel discorso pronunciato con un forte accento, si volta e osserva, a metà tra lo stupito e il divertito, l'ometto che le sta alle spalle. Le arriva a malapena alle spalle, tenuto conto che lei indossa i suoi stivali con la zeppa - che le regalano quasi otto centimetri in altezza - e lui è un po' curvo.
Sbircia da oltre la pensilina e ammette con se stessa che è molto probabile che la pioggia sia imminente. e con quello che ha da fare nelle prossime settimane un'influenza o peggio non le ci vuole proprio.
«Sto aspettando l'autobus 22, per andare alla Marina, dove c'è il residence Pino Mugo».
Alice, senza sapere bene perché, risponde. Quella zona non la conosce, lei non è una che solitamente va al mare, non d'estate. E fino a quel giorno nemmeno in inverno. 
«La linea 22 è attiva solo fino al 30 settembre, quando si chiude la stagione estiva. Per arrivare alla Marina, dopo quella data, non ci sono mezzi pubblici. Le conviene prendere un tassì», le ribatte l'omino, con gentilezza.
Alice lo guarda, probabilmente è un tassista e cerca una ignara turista da fregare. «Ma sul sito del residence c'è scritto che la linea è attiva tutto l'anno», risponde Alice, che comincia a preoccuparsi quando sulla pensilina risuona il rumore del primo gocciolone di pioggia, seguito da molti altri. Il rumore si fa sempre più fitto ed insistente.
L'uomo la guarda e si stringe nelle spalle. «Non so, forse allora è solo in ritardo. Di solito passa ogni venti minuti circa: è perché fa un percorso circolare. Da qui alla Marina e ritorno. Io la saluto, comincia la pioggia ed è meglio che rincasi». Le fa un cenno con la mano e si allontana trotterellando sotto i cornicioni.
Alice si stringe ancor più nel suo giubbotto e si tira su il cappuccio della felpa. Guarda l'ora, le 2.35...ma quel bus arriverà o no? Il suo stomaco brontola e si ricorda che tra il viaggio e la chiacchierata inaspettata ha saltato il pranzo. «Che pessima giornata!», si lascia sfuggire a voce un po' troppo alta e sbatte un piede per terra. «Non posso restare qui tutta la giornata sperando che un bus transiti». Si guarda intorno: di taxi nemmeno l'ombra. Torna a guardare il mare, ogni goccia di pioggia sembra una freccia che ne ferisce la superficie increspata, il vento si è calmato e intorno regna una pace e un silenzio quasi innaturale. Non c'è in giro anima viva cui chiedere un'informazione.
Alice pensa a come risolvere quella situazione incresciosa. Il vecchio ha parlato di un tragitto di venti minuti e prova a calcolare quanto possa distare sto benedetto residence rispetto a dove è lei ora, davanti alla stazione. Potrebbe farsela a piedi ma guarda ai suoi piedi: due borsoni pieni di vestiti e accessori vari, la custodia del computer, la borsa, il trasportino dove il gatto Jago dorme ancora.
Un'impresa impossibile, pure se si fosse allenata per le olimpiadi!
«Andiamo a vedere se almeno un bar aperto c'è», si dice raccattando le sue cose e avviandosi verso la stazione. L'insegna del bar è accesa e da dentro proviene il rumore del macina caffè: per la prima volta Alice è contenta di sentirlo.
Entra e sistema il bagaglio sulle sedie di un tavolino. Il locale è, come prevedibile, vuoto ad eccezion fatta del barista. «Un cappuccino tiepido, una bottiglietta di naturale, un toast con crudo e formaggio. Ben cotto, per favore. E un piattino di latte per il mio micio, per favore», ordina, poi torna a sedersi ad un tavolino d'angolo, un po' distante dalla porta. É stanchissima, ha voglia di farsi una doccia, dormire qualche ora e non pensare a niente fino al giorno dopo. Sempre se riuscirà ad arrivare al residence Pino Mugo. «Che nome del cazzo per un residence...ma era l'unico aperto e anche abbastanza economico. Però che nome del cazzo», pensa tra sé e sé.
Mentre aspetta, giocherellando con il suo iphone, rispondendo a mail del suo editore che le chiede come mai non risponda al telefono e a sua madre, che si informa su che fine abbia fatto Jago...
Quando il barista le porta la sua ordinazione, Jago lancia un miagolio dal suo trasportino e Alice, aprendo abilmente la gabbietta, infila la ciotolina di latte prima che il micio sgusci via.
Il barista la fissa, gente strana ne ha vista passare parecchia da quando lavora in quel bar ma come quella mai. Sembra una scampata a qualche catastrofe. «Grazie», gli sorride Alice dopo essersi scolata in una sorsata metà della bottiglietta d'acqua. Prende il toast, un paio di tovagliolini, si alza, andandosi a sistemare alla porta finestra, per osservare l'acquazzone. Si domanda se il vecchietto di poco prima sia arrivato a casa sano e salvo. Lo spera.
Dal trasportino proviene il lappare soddisfatto di Jago.
Alice resta a mangiare guardando fuori, quante volte a casa l'ha fatto: mangiare in piedi, appoggiata al muro, guardando fuori dalla finestra la pioggia inzuppare la terra. Quel senso di pace che la pervade, la fa sprofondare nei meandri del nuovo romanzo. L'intreccio si snoda nella sua testa, i personaggi prendono corpo e nuove situazioni emergono. É così assorta nei suoi pensieri da non accorgersi subito di bloccare il passaggio allo sconosciuto che cerca di entrare, bagnato zuppo.
"Ohhhh...ops....Scusi", gli fa balzando indietro, imbarazzata. Come risposta ottiene un gesto della mano del tizio.
Alice torna a sedersi, Jago è tornato a ronfare e recupera così la ciotolina, ormai vuota. Gli fa una grattatina "Bravo MicioJago" e, finita l'acqua, sorseggia il cappuccino ormai freddo.
Nascondendosi in parte dietro la tazza lancia un'occhiata al nuovo arrivato. A parte essere bagnato in modo inverosimile, ha l'aria interessante. Tutto vestito di nero, giacca di pelle nera, stivali da cowboy neri, jeans aderenti che delineano quello che sembra un gran bel...
Alice distoglie lo sguardo arrossendo. Le scappa anche da ridere per il suo comportamento da quindicenne in preda ad una crisi ormonale. Lei che non è mai stata così...Ma va anche detto che sono un bel po' di mesi che non batte un chiodo, sarà quello che la fa comportare in quel modo isterico.
Non le sfugge la chitarra appoggiata a terra. Musicista: il destino è contro di lei e gioca pure sporco.
Fuori nemmeno l'ombra di un taxi o di un bus. 
Guarda l'ora. Sono le 4.14 del pomeriggio e sta scurendo. Deve trovare una soluzione in fretta. Jago miagola, infastidito da chissà cosa e con una zampetta gratta una delle pareti del trasportino.
Riporta al banco tazza e piattino, butta la bottiglietta nel cestino e chiede al barista se c'è un modo alternativo, che non sia bus o taxi, per arrivare al residence Pino Mugo. Quello la guarda come se avesse detto una specie di bestemmia e scuote la testa. «No. A parte il 22 no e i taxi passano solo su prenotazione ma a quest'ora e con questo tempo non penso che qualcuno sia disposto ad uscire».
«Grazie. E dista molto il residence?», aggiunge mesta Alice. «Intende a piedi?», chiede il barista, con voce decisamente incredula.
«Ehm si», ribatte la ragazza con il gatto. «Non so...forse un paio di chilometri, anche tre», risponde quello con aria dubbiosa. «Grazie», risponde Alice allungandogli una banconota da dieci e riponendo il resto nella tasca della giacca.
Lancia un'ultima occhiata all'esterno e si fa forza. Ci metterà almeno un'oretta o più a raggiungere il maledetto residence, si dice.
Pensa al povero Jago che si bagnerà un po' (anche se mai quanto lei) e sbuffa, afflitta.
Lancia un'ultima indagatrice occhiata al tizio con la chitarra ed esce, chiedendosi dove sia diretto, cosa faccia nella vita - oltre a suonare la chitarra - e altre mille inutili domande che non avranno mai risposta. É il suo modo per far passare il tempo nelle brutte situazioni: si concentra su qualcosa di impossibile e si perde nelle riflessioni, in modo da non stare a guardare l'orologio ogni due minuti. La accoglie il rombo di un tuono e il fulgore di un lampo, Jago lancia un miagolio disperato e si agita all'interno della gabbietta di plastica dura. Lei guarda l'orologio, si dice per l'ultima volta poi lo riguarderà una volta arrivata al residence.
Le 4.40...se riesce a mantenere un'andatura decente e a non fare soste ogni tre passi pensa che in un'oretta dovrebbe esserci. «Ma come si fa ad interrompere ogni mezzo di trasporto pubblico? Non ci vivono persone durante l'inverno in questo posto?», si domanda a voce un po' alta ma tanto in strada non c'è nessuno che possa sentirla o risponderle.
Senza darsi risposta si carica le borse in spalla, la custodia del computer e solleva il più delicatamente possibile il trasportino di Jago, che se non altro ha ripreso a dormire.
Si incammina costeggiando il muro e riparandosi con i cornicioni, «l'ombrello dei cani» lo definiva suo babbo. Un piede avanti all'altro e a ogni passo una domanda/risposta sullo sconosciuto.
«Se fosse un film ora arriverebbe a bordo di una macchina figa, mi darebbe un passaggio, mi porterebbe in sto cacchio di residence e poi ovviamente lo inviterei a bere qualcosa e quindi scatterebbe una bella scena di sesso...Ma questo non è un film e io dopo nemmeno 50 metri sono già più bagnata di una foca nel mare», pensa Alice caracollando verso la sua meta.
«Che strana ragazza», commenta il barista dando il resto al misterioso ragazzo. «E chi va in pieno inverno al residence Pino Mugo?», si chiede il ragazzo. É del posto, cresciuto in quel pezzettino di riviera in cui la vita si consuma da giugno a fine settembre e per il resto dell'anno si vivacchia in attesa che torni l'estate. Molti se ne vanno e non ritornano.
«Io vado al residence Pino Mugo», gli dice l'altro serio, «Con la mia band siamo stati chiamati per un concerto in un paese qui vicino e ci hanno mandato là a dormire. Gli altri dovrebbero essere già arrivati. Io mi sono fermato qui per un caffè, ero via per un altro impegno e ho perso il conto delle ore che ho guidato. Ciao, grazie e buona serata».
Il giovanotto dietro il bancone lo guarda e non sa cosa ribattere, sembra che il Pino Mugo stia riscuotendo molto successo al di fuori dei confini del loro piccolo borgo. In quel periodo, poi. Il mondo sta veramente andando a catafascio.
In lontananza il campanile batte cinque rintocchi e mezzo e il barista è di nuovo solo. Potrebbe anche chiudere, sa che è improbabile che qualcun altro si faccia vivo con quel tempaccio...decide di aspettare un'altra mezz'ora poi tornarsene a casa.
Alice, intanto, arranca per la via e non sa dire se è bagnata per il sudore oppure per la pioggia, che ora cade fine fine. «Le mie maledette idee», si ripete. Ormai non riesce nemmeno più a pensare al tipo intravisto al bar. Jago brontola da dentro il trasportino. «Saranno almeno due ore che cammino, chissà poi se sto andando dalla parte giusta...». Alice si ferma e appoggia a terra borse, gatto. Si appoggia al muro di una casa e cerca di riprendere fiato. Se non altro quell'allenamento inaspettato gioverà al suo fisico. L'orologio segna le 5.40...e non ha percorso molto perché in lontananza riesce ancora a scorgere stazione e fermata del bus. Prende due grossi respiri, recupera borse, trasportino e computer e si rimette in marcia. Ha fatto nemmeno cinque metri che una grossa macchina nera accosta e qualcuno all'interno suona il clacson. Dato che è l'unica persona nel raggio di miglia Alice desume che chiami lei.
"Il maniaco ci mancava anche", pensa mentre si avvicina meditando in caso di lanciargli addosso la gabbietta con Jago. Il finestrino del passeggero si abbassa e intravede metà del viso dello sconosciuto del bar. «Ciao - fa quello un po' titubante - ho sentito dal barista che vai al residence Pino Mugo e, dato che anche io sono diretto lì, se vuoi posso darti un passaggio». Alice sorride e, senza nemmeno ricordarsi che potrebbe essere un maniaco o un serial killer, fa cenno con la testa.
«Puoi mettere le tue cose dietro», indica il retro del macchinone, una specie di suv o jeep, ma Alice non capisce niente di macchine. Intravede la chitarra, gli ampli e altra roba che non sa cosa sia. A parte il suo computer e il povero Jago, il resto finisce nell'enorme bagagliaio.
Sale e si sistema il trasportino tra le gambe. «Grazie, mi hai salvata. E hai salvato anche lui», gli dice sorridendo., infilando un dito tra le grate del trasportino. Jago la mordicchia debolmente poi cede al grattino e comincia a fare le fusa.
«Piacere mio, avrei voluto proportelo al bar ma sei scappata prima che potessi dire alcunché», si schermisce lui. Le sorride e Alice pensa che è proprio bello. Assomiglia un po' ad Alain Delon, lei ha un debole per quell'attore e cerca una somiglianza in tutti quelli che conosce ma la voce profonda da bluesman. «Perdona, che maleducato. Non mi sono nemmeno presentato» allunga una mano e afferra la sua, sfiorandole la coscia. "Piacere, Evan». Alice si fa stringere la mano e risponde, «Alice...come quella del paese delle meraviglie». Il suo io maturo e responsabile scuote la testa per quella vecchia e becera battuta.
«Paese delle meraviglie. Interessante», ride Evan girando sulla destra ed imboccando una viuzza stretta, che quasi quasi la macchina non passa. Il navigatore comunica con voce solenne «meta raggiunta».
Alice guarda il famigerato residence Pino Mugo, nell'appartamento cinque passerà i prossimi tre mesi...speriamo che almeno un posto dove acquistare cibo, caffè e altri generi di prima necessità ci sia e sia aperto. Ormai non sa cosa aspettarsi da quel posto.
«Grazie del passaggio. Sei stato gentilissimo...Non so nemmeno come sdebitarmi». Evan ride e scuote la testa come a dire che non c'è alcun bisogno ma quando lei scende non disdegna di osservarla per bene...e un'idea su come lei potrebbe sdebitarsi si fa strada nella sua testa. Le sorride. 
Scendono e recuperano le rispettive cose. «Aspetta. Ti do una mano», il ragazzo lascia in macchina strumenti e le sue valigie prendendo invece le sue due borse. La segue fino alla reception ipnotizzato dal suo ancheggiare, che intravede alla fioca luce dei lampioni del vialetto. La ragazza, nonostante sia il mese di dicembre, indossa degli shorts aderenti e delle calze nere. I capelli lunghissimi ondeggiano in onde scomposte sulla sua schiena. Infine li accoglie il tepore del residence.
Al bancone sta una donna sulla cinquantina, dal viso rubicondo e sorridente. «Buonasera», saluta Alice, appoggia a terra il trasportino di Jago, che ora cerca di aprirlo con una zampina. «Sono Alice Mezzanotte, ho prenotato un appartamentino fino a fine febbraio». La donna prende il grosso libro delle prenotazioni e scorre con un dito, «Eccola. Si. Il numero cinque, che è il più piccolo che abbiamo...camera, cucinino soggiorno, bagno e balcone». Alice sorride e le allunga il documento prima che quella possa chiederglielo. La donna lo prende, si gira sulla sedia - che emette uno stridio preoccupante -, afferra la chiave appesa al talloncino numero 5 e la porge alla ragazza. «E lui?, qui c'è la prenotazione per una sola persona..gli ospiti pagano un sovrapprezzo a notte». «Lui mi aiuta solo con le valigie», risponde Alice, sperando di non risultare maleducata.
«Io sono Evan Devlin. Ci dovrebbe essere una prenotazione per me e il mio gruppo». Altra scorsa attenta del libro e finalmente il dito grassoccio si ferma. «Eccovi, si...», dice la receptionist. «I suoi amici sono già arrivati. Appartamento nove». E indica un punto non precisato in fondo ad un corridoio, che da su giardino.
Alice, seguita da Evan, si avvia e dopo pochi minuti si ritrova davanti alla porta del numero cinque. Lo apre e accende la luce. Jago è sempre più inquieto e la ragazza, appoggiato il computer sul tavolo, si affretta a liberare l'animale, che scappa subito a nascondersi sotto il divano.
«Povero...saranno sei ore che non esce. Ha bisogno di sgranchirsi le zampine». Evan porta dentro le borse. «Grazie, sei stato gentile. Veramente, se c'è un modo per sdebitarmi...». 
Alice non riesce a togliere gli occhi da quelli di lui, vi legge qualcosa di profondo, qualcosa di passionale. Evan resiste alla tentazione di baciarla, non sa perché sia così attratto da lei. «Così starai chiusa qui per tre mesi?». «Si. Pace, silenzio e solitudine per tre mesi, per scrivere il mio nuovo romanzo, almeno la prima stesura da mandare all’editore. Se dovesse andar bene potrei fermarmi, almeno fino a che dura l’inverno...Io adoro il mare d'inverno...Potrò fare passeggiate sulla spiaggia e altre amenità decadenti e crepuscolari. In totale solitudine... E tu invece suoni?».
Evan si ritrae di un passo, «Si. Siamo qui per una serata, domani sera. Nel paese vicino». «Interessante», fa lei, togliendosi il giubbotto e appendendolo ad una sedia. Evan si rende conto che è molto più snella di come appariva imbacuccata nella giacca. Il suo fisico è quello di una ragazzina, ma gli occhi sono quelli di una donna, stretto in una maglia a collo alto, gli shorts da cui spuntano le gambe inguainate in calze nere spesse e gli stivali. Ha un che di rocker maledetta più che di scrittrice. «Ora vado dagli altri che si staranno chiedendo che fine abbia fatto», Evan fa un altro passo indietro uscendo sul pianerottolo. Fuori ha ricominciato a piovere. «Meglio che ti sbrighi o rischi di bagnarti tutto». Alice è appoggiata alla porta, una gamba accavallata all'altra e con due dita si arrotola una ciocca di capelli decolorati. Evan non riesce a muoversi, è ipnotizzato da quel movimento rotatorio, come poco prima lo era dal suo ancheggiare. Nella sua testa si accavallano una serie di pensieri ed immagini. Il cellulare emette un beeepppp prolungato, che smorza i pensieri del chitarrista. "É il mio...", si scusa Alice, prendendolo dalla tasca del giaccone e spegnendolo. "Sono le 7.20...un reminder. Scusami un momento...ma entra, dai...Torno subito. Chiudi la porta, per favore: non vorrei che Jago si desse alla fuga".
Prende la borsa da terra e sparisce un momento in camera quindi ricompare sorridendo, si è legata i capelli a coda, ma alcuni ciuffi le scendono intorno al viso. Apre il rubinetto e prende un bicchiere, beve avidamente. «La pioggia mi mette sete», spiega. Ne prende un altro, lo riempie e lo porge a Evan, che lo accetta e ne beve un sorso. «Forse è meglio che vai...», ripete lei, «I tuoi amici...». Non lo guarda e non si muove.
Alice non sa perché si sente così triste, all'idea che Evan esca dalla porta e si perda nella notte. Da sotto il divano Jago fa le fusa come un trattorino. Ha preso possesso della sua nuova dimora.
Evan appoggia il bicchiere sul tavolo e si avvicina alla porta. Fa tutto con estrema lentezza, come a voler ritardare l'inevitabile, come se non volesse andarsene. Quella strana ragazza ha un che di magnetico su di lui. Non riesce a spiegarsi cosa sia: il fisico, il suo modo di fare, i suoi capelli, gli occhi, la bocca, le mani...un insieme di tutte quelle cose e molto altro.
Lui apre la porta, lei resta lì a fissarlo. L'aria è sospesa tra di loro, carica di elettricità, di una forza che li attrae e li respinge allo stesso tempo. Fuori la natura si scatena: i lampi squarciano il cielo scuro, i tuoni rumoreggiano in lontananza e la pioggia ticchetta.
Ad ascoltare con attenzione si può persino udire l'infrangersi delle onde sul bagnasciuga.
Sono lì, da soli, a fissarsi. Basterebbe un passo e si toccherebbero e lo sanno bene entrambi. É un fermo immagine, se fosse un film. Ma non è un film e Evan alla fine fa quello che non ha mai fatto prima, fa un passo avanti e prende la misteriosa Alice, «quella del paese delle meraviglie», e la bacia. Non è un bacio d'amore, non è un bacio violento. É un bacio assetato, le sue labbra risucchiano quelle di lei e sa che lei non si negherà. Gliel'ha letto negli occhi, che anche lei lo vuole. Senza lasciarla, a tentoni, chiude la porta, gira la chiave. Ora sono soli. Il mondo fuori non sa che sono lì, e fino a che vorranno non lo saprà.
La solleva, scoprendola leggera e delicata. Jago emerge miagolando e reclamando la pappa. Alice si divincola da Evan, ha gli occhi lucidi e le labbra rosse, le guance rosate. Gli fa cenno di attendere un secondo e, veloce, recupera da una borsa due ciotole e una busta di pappa. Una la riempie d'acqua e nell'altra svuota il contenuto della busta. Jago contento vi si avvicina e comincia a mangiare. «Sapessi come sa essere noioso se ha fame». Gli dice guidandolo in camera da letto. Da qualche parte un'orologio batte le 9 pm. Si sono incontrati da meno di quattro ore ma hanno la sensazione di conoscersi da sempre. 
Per Alice un fatto pressoché sconvolgente, lei oltre alla somiglianza con Alain Delon non va mai...e infatti la dimostrazione è la sua vita sentimentale inesistente.
Evan pensa che una ragazza così non l'ha mai conosciuta. Non riesce a darle un contorno definito, non sa niente di lei ma è come se sapesse tutto quello che c'è da sapere di lei.
La camera è essenziale, il letto appena rifatto li accoglie ancora vestiti. La sete dalle labbra si è propagata per tutto il corpo. Evan si toglie la camicia, rivelando un torace muscoloso e tatuato. Alice segue con le dita il percorso dei disegni. Lascia che sia lui a spogliarla, uno strato alla volta.
Il suo seno è piccolo ma sodo, il ventre piatto e una peluria bionda ricopre appena la zona più segreta di lei. I loro vestiti formano un mucchietto sul pavimento. Il silenzio è come musica nelle loro orecchie mentre si scoprono. Insieme al suo corpo Evan scopre i tatuaggi di lei, che per numero sembrano eguagliare i suoi. Li ammira,, li conta. 
Non servono le parole in quel momento, a parlare sono le loro mani, le lingue, gli occhi. In quel momento, in quel luogo, è amore. Lo sentono. Non sanno come sarà domani ma in quel momento è amore.
Evan le bacia i seni, scende delicatamente lungo la linea del costato mentre una mano le accarezza i glutei, sodi e morbidi. La lingua guizza in mezzo alle cosce, sente che Alice sussulta mentre la sua eccitazione aumenta. L'accarezza e l'assaggia, con delicatezza e maestria. La giovane donna allunga una mano, cercando la sua pelle pulsante e delicatamente comincia il gioco più antico del mondo. Una schermaglia di desiderio fino al punto di non ritorno. Ma il gioco non si ferma, come l'onda del mare raggiunge il suo apice e a quel punto lui le è sopra e scivola in lei, come se non fosse la prima volta.
Alice aderisce al suo corpo come se fosse stata creata per quello, le sue gambe stringono la sua vita seguendo i suoi movimenti. I gemiti si fanno più rarefatti mentre sentono che non durerà ancora molto. Hanno bruciato la miccia della loro eccitazione, il desiderio si è consumato come una candela troppo corta.
É un singhiozzo quello che Alice si lascia sfuggire dalle labbra quando è colta da un orgasmo multiplo mentre Evan trattiene il fiato sentendosi percorrere da lunghi brividi. Si lascia ricadere sulla schiena, la fronte imperlata di sudore e un sorriso sulle labbra. Jago gratta alla porta, offeso per essere stato estromesso dalla camera da letto, ma nessuno dei due ci fa caso.
Lui si tira su un fianco e la osserva, la pelle di lei è simile a seta ed emana un profumo di viole, che prima non aveva percepito. Lei si volta verso di lui. Le labbra rosate appena imbronciate e un guizzo negli occhi. Si alza e apre la porta, permettendo a Jago di entrare, a piedi scalzi, nuda entra in bagno. Poi ricompare, piegandosi in modo quasi innaturale e allungando un braccio verso di lui.
Dall'altra stanza si sente lo scroscio della doccia, che si confonde quasi con la pioggia. Evan non ha bisogno di altri inviti e la raggiunge. Sotto l'acqua tiepida si strofinano, pelle contro pelle. I baci di nuovo si fanno profondi e voraci. Si sentono insaziabili, arsi da una sete inestinguibile 
«Ma che fine ha fatto?»; il batterista chiede agli altri componenti del gruppo. «La sua macchina è parcheggiata da almeno due ore e di lui nemmeno traccia. Il cellulare suona a vuoto». Gli altri si stringono nelle spalle. Con quel tempo da lupi l'ultima cosa che hanno voglia di fare è andare a cercare Evan. «Avrà trovato qualcosa da fare...vedrai che tra un po' arriverà. La notte è lunga», risponde il bassista senza alzare lo sguardo dal libro che sta leggendo.
Sotto la doccia Alice si inginocchia davanti a Evan e ricopre di baci la pelle, le mani si muovono lievi e rapide. Lui si appoggia al muro, sollevando il viso verso il getto d'acqua e chiudendo gli occhi, ansimando. La bocca di Alice si chiude sulla sua carne, la lingua è morbida e calda, sente il suo corpo reagire, anche se ciò va contro ogni logica. La testa bionda si muove ritmicamente e ciò aumenta la sua eccitazione. Senza resistere oltre le scosta i capelli e solleva il viso, la solleva e l'appoggia al muro. Scivola nuovamente dentro di lei, lei geme nelle sue orecchie ed è come una melodia mai udita prima. É pura passione.
Tenendola sollevata esce dalla doccia - ricordandosi anche di chiudere l'acqua - la riporta al letto, l'adagia sopra e ricomincia la danza. Il movimento di lui è accompagnato dalle mani di lei. «Aspetta», gli dice in un soffio. Si scosta e si gira, Evan fissa il fondoschiena di lei, che gli sorride da sopra la spalla. Lui le si avvicina, la bacia, la lecca, si eccita ancor di più sentendola bagnarsi e fremere sotto la sua lingua. Nuovamente la penetra. Muovendosi ritmicamente, in un tempo sospeso nel tempo.
Ed è una seconda esplosione di piacere, per entrambi. In un angolo del letto Jago ronficchia, infastidito dal loro trambusto.
Da qualche parte dell'appartamento proviene l'attacco di un pezzo dei Goblin, quelli della colonna sonora di "Profondo Rosso" e in effetti proprio di quella canzone si tratta. Alice fa una smorfia - simile a quella di Jago - si alza ed esce, sul tavolo il suo cellulare vibra e suona con impazienza. É sua mamma che la cerca. «Ciao», le risponde. «Oh finalmente ti degni a rispondere», le urla all'altro capo la genitrice. «Iniziavo a temere fossi finita sotto un treno. Jago sta bene?». Sempre la stessa storia. «Siamo tutti e due sani e salvi. Ora chiudo che son stanca. Ciao ci sentiamo nei prossimi giorni». E attacca. Guarda l'ora: sono le due di notte...ma come ha fatto il tempo a passare così velocemente?
In camera Evan si sta rivestendo. L'atmosfera si è raffreddata, Alice raccatta i suoi vestiti e indossa la maglia e gli shorts. Si guardano, una nota di tristezza negli occhi di entrambi o è quello che lei vi vuole leggere. Senza parlare va alla porta e fa scattare la serratura, la socchiude e attende. Pochi minuti e lui appare. Bello come Alain Delon nei suoi primi film, quelli in bianco e nero che lei adora, e le sorride ma si vede che non è sicuro. «Ciao», le sfiora le labbra. «Addio», sussurra Alice ritraendosi e chiudendo la porta.
Non resta a guardarlo mentre si avvia lungo il corridoio, per recuperare le sue cose nella macchina.
Torna in camera, dove trova il letto disfatto e le lenzuola bagnate. Si mette le mani sui fianchi e comincia a ragionare. La telefonata di sua madre ha rovinato una delle migliori serate della sua vita.
Alice si dà della stupida per aver lasciato la suoneria a volume massimo.
Jago la guarda e si stiracchia, poi balza a terra e se ne va in salotto, a coda ritta. «Te la passi bene tu, gatto di strega!». L’altro le risponde con un miao e un rapido movimento di coda poi scompare.
«Ormai è andato e io non posso dormire nelle lenzuola bagnate». Disfa il letto e le stende, alla bell’e meglio sulla balaustra che divide il cucinino dal soggiorno. Quindi comincia a rovistare in una delle due borse alla ricerca delle lenzuola che si è portata da casa. Le estrae, riesce a recuperare anche le federe e la sua trapunta. La sua coperta di Linus.
Con il suo carico torna in camera, passando davanti allo specchio sistemato sulla parete all’esterno della stanza si rende conto di avere ancora indosso la dolcevita e gli shorts. Abbandona il suo carico sul letto e torna alle borse. Dalla seconda, a tentoni, riesce a tirar fuori i pantaloni di una vecchia tuta e una maglia, altrettanto vecchia. Senza tornare di là si spoglia, lasciando i vestiti in terra. Li metterà a posto l’indomani, insieme al resto. Indossa gli indumenti asciutti e tiepidi, nell’appartamento non fa certo freddo. A piedi scalzi, scopre che il riscaldamento è sotto il pavimento e lancia un gridolino di goduria, ripercorre il corridoio, non più di quindici passi, e si accinge a rifare il letto: ha solo voglia di infilarsi sotto le coperte e dormire, senza sogni e senza pensieri. Riprenderà il filo della sua vita nel giro di qualche ora. Prima del letto, si rende conto di non aver ancora preparato la lettiera per Jago e, prima che il gatto lasci qualche regalino in giro, si accinge a prendere la cassettina di plastica e la sabbietta...ma non le trova. «Devono essere rimaste nel macchinone di Evan», esclama battendosi una mano in fronte. «E adesso MicioJago come facciamo? Mi tocca andarlo a cercare...». Va alla finestra e controlla: lampi e tuoni si rincorrono ancora ma la pioggia sembra essersi trasformata in un gocciolio. «Ora mi tocca andarlo a cercare, con questo tempo...», sbuffa.
Prima di scendere a recuperare i bagagli e una parte degli strumenti, Evan bussa alla porta dell’appartamento numero 9. É il bassista ad aprirgli e lui gli fa cenno di seguirlo senza dire nulla. Quello lancia un’occhiata all’interno: gli altri sono più o meno appisolati. Chiude piano la porta e segue l’amico fino alla macchina. «Ma che fine avevi fatto?», gli domanda quando sono ormai davanti al bagagliaio della jeep di Evan. «Non ci crederai mai!», gli risponde quello tirando fuori l’ampli, la custodia della chitarra e un borsone da hockey. Sta per chiudere quando il bassista nota una strana busta di plastica. «E da quando hai un gatto?». «Cosa?», esclama Evan, sgranando gli occhi. Terry si sporge all’interno del bagagliaio e afferra la borsa di plastica, trascinandola. «Gatto...questa è una lettiera per gatti...oppure fa parte dello spettacolo?», ridacchia. Evan diventa rosso e tace. Afferra la busta e si incammina verso l’intero. «Comincia a portar dentro l’ampli e la chitarra», dice a Terry, mentre si allontana. Ha appena rimesso piede nella hall, adesso vuota e illuminata solo da una lampada da tavolo, quando compare Alice. É scalza, il viso arrossato dal freddo e probabilmente ha indosso quello che vuol sembrare un pigiama. «Uh - esclama lei -. Meno male che ti ho trovato...e che tu abbia trovato la sabbietta di Jago. Grazie». Senza aggiungere altro, senza quasi guardarlo prende il sacchetto e si allontana. In pochi minuti è scomparsa. Terry si fa vicino all’amico, «Niente male. Adesso ho capito perché ti sei presentato solo ora». Gli batte una manata sulla spalla e ridacchia, Evan lo guarda ma non ride. «Andiamo», gli dice recuperando il resto della roba. «É tardi e forse è meglio provare a dormire». Terry smorza la propria allegria e segue in silenzio Evan.
A lui quella fortuna di incappare in misteriose fanciulle non capita mai. É sempre in giro con il gruppo e al più, a fine esibizione, si ritrova con qualche ragazzetta con velleità da groupie attaccata alla cintola dei pantaloni. Niente del calibro delle fanciulle che girano intorno ad Evan, come falene intorno ad una lampadina. Arrivano al loro appartamento ed entrano: gli altri tre dormono. Si sente il russare di Max, dall’altra parte della stanza gli risponde Matte. «E stai zitto!», per non sbagliare gli lancia anche una scarpa ma lo manca. Completamente nudo appare Ettore, che si versa un bicchier d’acqua poi torna in camera. 
Evan osserva la scena con un misto di stupore e di incredulità. Si volta verso Terry. «Non te li ricordavi così savages? Forse è troppo tempo che non ti unisci alle nostre trasferte, preferendo altra compagnia». Il chitarrista percepisce la stoccata e deve ammettere che Terry ha ragione. Sta perdendo di vista il loro progetto artistico, a favore di un suo personale molto differente dal loro genere di musica ma che sente più vicino alla sua visione della vita. Lancia un’occhiata a Terry, poi gli tira una manata sulla spalla, quasi mandandolo a terra e ride, ritrovando il vecchio umore e lo spirito goliardico. «Spiritoso come sempre», ride poi si dirige verso la camera dove è scomparso Ettore. «Buonanotte fiorellino», sghignazza chiudendosi la porta alle spalle e lasciandolo in compagnia degli altri due. Max emette quello che, alle orecchie di Terry, appare come un boato e Matte si mette seduto e si lamenta: «Fallo tacere. Non riesco a dormire con quello che continua ad emettere questi rumori assordanti. Riesce a stonare anche russando». Terry si stringe nelle spalle, ma quando passa di fianco a Max, gli tira una manata ben assestata e per un momento il rumore cessa. 
In camera Evan si spoglia e si infila nel letto singolo, solo poche ore prima era in quello di Alice. Resta sdraiato al buio, con gli occhi aperti. Fissa il soffitto e miriadi di ombre creano un balletto davanti alle sue pupille. «É tutta immaginazione. Dormi che è meglio», si dice serrando gli occhi e cercando di levarsi quel pensiero dalla testa ma senza molto successo. Si sente invischiato nel ricordo della ragazza e sente il desiderio di rivederla, di scoprire il mistero dietro i suoi occhi. 
Evan pensa che in fondo potrebbe passare da lei il giorno dopo per salutarla e invitarla, magari, al concerto in programma per le serate seguenti. Una volta presa questa decisione il musicista si lasciò trasportare nel mondo dei sogni.
«Ma tu guarda che sbadata», Alice si rivolge a Jago facendogli penzolare davanti al musetto il sacco della sabbietta. «Per poco restavi senza bagno, povero piccolino». Il micio emette un flebile miagolio, poi si struscia contro la sua gamba. Alice si china e gli gratta il capino. «Ora ti preparo la lettiera poi mi occuperò del mio letto. Non vedo l’ora di infilarmici, mi sono ibernata i piedi quando sono uscita senza mettermi nemmeno le scarpe». Si osserva le dita arrossate poi si reca in bagno, reggendo la busta di plastica. Quando ha finito Jago si avventura, annusa e poi alza il musetto verso di lei e la guarda, Alice giura di vederlo sorridere. Esce e torna in camera: lenzuola, federe e la sua trapunta formano una montagnola disordinata sul materasso. Sbuffa e si mette all’opera. 
Jago resta sotto il divano mentre lei si affaccenda intorno al letto. Meno male che è veloce a fare questo genere di faccende, sebbene le odi con tutta se stessa. In meno di dieci minuti ha preparato un bel letto: la trapunta viola con ricami neri, le lenzuola blue scuro. Prima di coricarsi, recupera il caricabatteria e il suo smartphone: sullo schermo legge qualche notifica dei social network ma niente che attrae la sua attenzione. «Finalmente si dorme», sussurra a se stessa mentre sprofonda sotto la trapunta, lasciando scoperta solo una parte della sua chioma decolorata. Non è ancora addormentata che sente Jago balzare sul letto. Il micio si infila sotto la coperta e si accoccola vicino a lei, cominciando a fare le fusa. Alice si sente quasi a casa e scivola in un sonno senza sogni.

mercoledì 8 maggio 2013

QUELLO CHE ABBIAMO

I gesti che il destino ci ha regalato,

Tanto ci basta.

Le parole tra di noi

E i pensieri e desideri

Fiamme lievi

Che non han bisogno di una risposta.

domenica 5 maggio 2013

C'É QUALCUNO FELICE?

1 -

Da giorni piove. Senza tregua.

Michiko guarda fuori dalla finestra. Il balcone è allagato e rivoletti d'acqua piovana gocciolano dalla grondaia. Il giardino, di cui intravede un brandello, è ridotto ad un pantano. Il roseto di sua mamma piegato sotto il peso dell'acqua.
Sbadiglia annoiata e prova a concentrarsi sul libro che sta leggendo ma la sua mente vola altrove. Fuori dalla finestra, incontro al cielo grigio e alle nuvole argentate. Una luce innaturale riveste il paesaggio di una coltre irreale.
La ragazza abbandona il volumetto di poesie che sta studiando sul letto e si avvicina alla porta del balcone. Dietro le tende il picchiettio della pioggia è una colonna sonora jazz nella sua mente. Sogna ad occhi aperti Nina Simone esibirsi sul palco di un locale dalle luci soffuse. Si sente felice, così senza una apparente ragione. Felice di quel suono, per come appare ora il suo paese.

"C'è qualcuno felice? Come sono io adesso", la domanda fiorisce sulle sue labbra prima ancora che nella sua testa. Lo deve sapere, lo vuole sapere. 
La primavera risveglia non solo la natura ma anche, in persone particolarmente sensibili, dilemmi e domande che non sempre possono trovare una risposta concreta.  
Senza pensarci molto corre a prepararsi: indossa la mantellina impermeabile viola, gli stivali di gomma, raccatta la borsa e  infila la porta di corsa. É mossa da un'ansia di conoscenza, da un desiderio di confronto con le altre persone che le era sconosciuto fino a quel momento.
Cammina a passo spedito cercando di evitare le pozzanghere. In strada è sola, con quel tempo inclemente nessuno si azzarda ad abbandonare l'asciutto e il tepore di casa o ufficio. Gironzola per il centro del paese dove vive da quando è nata: tra il bar, la chiesa e il municipio, un incrocio di quattro strade e un paio di vicoli pedonali. Nonostante la mantella e gli stivali si sente inzuppata ma tornare a casa non è un'opzione contemplata al momento. Vuole trovare almeno una persona cui porre la sua domanda. "C'è qualcuno felice?" e saperlo, se c'è qualcuno felice.
Infila la porta del bar, lascia ad ogni passo una scia di gocciole pesanti. I suo stivali producono quel caratteristico suono onomatopeico che quando era piccola la faceva ridere. "Un caffè, per favore", ordina con una vocina flebile. Il barista, burbero più del solito forse a causa del brutto tempo che gli sta rovinando gli affari, la serve bofonchiando qualche imprecazione sottovoce. Michiko zucchera la bevanda e la sorseggia, guardando fuori la piazza lastricata di pietroni bianchi: sotto la luce grigia del cielo e, per effetto della rifrazione dell'acqua sulla pietra, le appaiono lucenti come se fossero di marmo. Pur nella desolazione del pomeriggio piovoso quella vista le mette allegria, di nuovo le si spalancano le porte di nuovi mondi sconosciuti. Di nuovo si sente felice, un'emozione infantile e naturale.
"C'è qualcuno felice?", la domanda le sfugge mentre sistema la tazzina vuota sul piattino. Sorride al barista che la guarda accigliato e sbuffa. "Felice? E chi potrebbe mai essere felice? Il tempo fa schifo da giorni e la gente non esce quasi più di casa...e poi con la situazione attuale che vive il paese? Altro che esser felici! Qui c'è da prendere i forconi e andare in piazza. Non è tempo per esser felici". E l'uomo torna ad asciugare i bicchieri lamentandosi del tempo e del governo.
Michiko sorride, raccatta il borsellino e con un cenno della mano saluta, imbarazzata da quello sfogo inatteso e veemente.
Fuori, respira a pieni polmoni l'aria elettrica e carica di umidità e si sente meglio. La risposta dell'uomo le ha tolto il sorriso. Sa che ha ragione, anche più che ragione. La situazione non è delle migliori ma come si fa, si chiede riprendendo il cammino e sperando di imbattersi in qualche anima meno arrabbiata, a cedere a quel senso di bruttura togliendosi la volontà di cercare il buono intorno? Anche in una giornata di pioggia come quella.



2 -

Michiko costeggia il muro del palazzo del comune verso la piazza principale. É sicura che troverà qualcuno felcie, anche fosse solo un bambino. Si affaccia sullo spiazzo deserto, gli edifici intorno formano una corona incombente. La metà degli esercizi commerciali è chiuso per il maltempo, aperti ci sono un bar e il tabaccaio. Ma sono vuoti.
Mesta ritorna sui suoi passi, e scorge, che esce frettolosamente dal municipio semi nascosto da un ombrello, il sindaco. Senza pensarci lo rincorre e gli si affianca. L'uomo la guarda. "C'è qualcuno felice?", gli chiede a bruciapelo Michiko. Il sindaco, né giovane né vecchio e una faccia grigia come il cemento che non cede ad alcuna espressione. "Non so. Non penso. Io non lo sono. Il bilancio che non va. I soldi che non ci sono e troppe opere pubbliche da fare...Come si fa ad esser felici se non puoi fare niente di quello che sai che serve...". Riprende a camminare senza guardar in viso Michiko, che resta ad osservare la figura grigia allontanarsi e confondersi con il resto del paesaggio urbano.
"E se fossi io a sbagliare?", si chiede la ragazzina, ferma sotto l'acqua. I capelli, nonostante il cappuccio, sono bagnati e anche le calzette dentro gli stivali. Le ginocchia sono appena arrossate dal freddo.
"Possibile che in questo paese non sia possibile che qualcuno sia felice, senza che i problemi che ci sono sempre tutti i giorni abbiano la meglio?", prosegue nella sua riflessione e riprende a camminare.
É a tal punto assorta nei suoi pensieri da non rendersi conto della persona che le viene incontro fino a che non le è addosso. "Scusi scusi", dice senza badare e proseguendo nel suo cammino. "Ragazzina cosa fai in giro a quest'ora e con questo tempo? Torna a casa che è meglio", le risponde il poliziotto di quartiere con piglio energico.
Michiko non resiste, si ferma, si volta e lo guarda. "C'è qualcuno felice?", gli fa, cogliendolo alla sprovvista. L'agente non le risponde, sbuffa una lamentela a mezza voce e, mentre prosegue nel suo giro di controllo maledicendo l'assegnazione dei turni, le fa cenno di tornare a casa.

3- 

La ragazzina starnutisce e sbuffa, in fondo alla via l'orologio del vecchio campanile batte cinque rintocchi e mezzo. Sentendo tutto il peso della pioggia e del grigiume che avvolge la città si avvia verso casa, cammina a testa bassa e scansando le pozzanghere. Tutta la sua gioia, profonda e pura, è svanita con le parole e i gesti di chi ha incontrato. 
Si sente una stupida per essere uscita con quel clima per andare in giro a proporre una domanda priva di significato. Eppure a casa le era sembrato così ovvio. Mentre cammina mogia sente una lacrima di delusione e di rabbia pungerle le ciglia ma la ricaccia indietro.
"Hey bella bimba hai un soldino da darmi, per un panino, ho così fame". La voce raggiunge l'io di Michiko. Si gira e si volta fino a che il suo sguardo incontra quello di un uomo, che si ripara sotto la tenda di una tabaccheria. É abbigliato con abiti vecchi e sporchi, la barba sfatta, i capelli bagnati ma sorride. Non uno di quei sorrisi ampi e solari ma pur sempre un sorriso, con un che di amichevole nell'angolo. 
Di solito Michiko non dà soldi alle persone che le chiedono per strada, ma l'uomo, fermo e tremante in quella solitaria piazza, le provoca una stretta alle viscere. Si fruga in tasca e trova solo una moneta, il resto del suo caffè. "Non ho altro", si scusa porgendogli il soldo nel palmo della mano aperta, perché lui possa prenderla. "Va bene, grazie. E felice giornata", le risponde lui stringendosi nella giacca bagnata. "Felice? C'è qualcuno felice?", Michiko si rende conto che non avrebbe mai voluto chiedere quella cosa così sciocca ad un clochard ma ormai è tardi.
"Felice? Ben poca gente in questo posto è felice. Badano molto alle cose materiali, poco a quelle spirituali - le risponde con voce da vecchio filosofo -. Pensano che soldi, sicurezza, bei vestiti e simili siano la felicità. E si dimenticano che c'è altro che fa la felicità. É la gentilezza delle persone, un sorriso inaspettato, il sole dopo la pioggia o la pioggia dopo giorni torridi. Bisogna saperla trovare la felicità, perché è merce rara e difficilmente reperibile ai nostri giorni".
Michiko, a quelle parole, sorride nuovamente e - in un impeto del tutto incoerente con quello che le è stato insegnato apre la borsa, il portafoglio e allunga un biglietto da dieci all'uomo. "Grazie. Oggi so che qualcuno è felice. Grazie". Corre via, incurante ora della pioggia, senza attendere la risposta dello sconosciuto. 
Ora si sente felice.


mercoledì 1 maggio 2013

JANE NON SI GUARDA ALLO SPECCHIO DOPO MEZZANOTTE

I

Jane si desta dall'improvviso quanto urgente bisogno di andare in bagno. Sul telefono legge l'1.25. Deglutisce. Si volta e scorge la sagoma della schiena di Martin, percepisce il suo russare lento e sommesso.
Intorno a lei solo silenzio e buio. Cerca di trattenere lo stimolo ma senza successor alla fine si risolve e si alza. A tentoni esce dalla stanza da letto e raggiunge il bagno, sul lato opposto del corridorio. Accede la lucee si guarda intorno. Alle sue spalle una voragine oscura e pastosa, davanti a lei un cono giallo opalescente. Si stropiccia gli occhi ed avanti di un passo. Quando arriva in prossimitá del lavandino si abbassa di colpo e scatta in una corsetta. Non più di due o tre passi ma tanto le basta per superare lo specchio, che riflette il muro bianco e un pezzo dell'armadietto dei medicinali.
Stessa operazione quando ha finito, per lavarsi le mani si mette di lato, a testa china sul lavabo, come se volesse controllare per bene ció che sta facendo. Piegata supera lo specchio e torna a letto. Mentre scivola sotto le coltri ripensa a poco prima, si sente un po' ridicola ma quella é un'abitudine di cui non ha mai saputo - o voluto - liberarsi.
Negli anni Jane ha perso molte abitudini, con forza di volontá ha smesso di fumare, mangiare carne, martoriarsi le unghie, bere troppo, dire le brutte parole. Non hai mai provato, invece, a guardarsi in uno specchio dopo il tocco della mezzanotte, camminare quasi carponi per evitare il proprio riflesso é ormai un gesto che le viene naturale. In lei, nella sua memoria di bambina, le parole di sua mamma sono ancora scolpite. "Ricordati Jane, non ci si guarda mai in uno specchio dopo la mezzanotte. Gli spiriti si aggirano per la notte in cerca di qualcuno da prendere e portare con sé nel mondo delle ombre. O peggio". Sua madre non le aveva mai rivelato cosa fosse quel "peggio", ma la sua fantasia aveva colmato l'assenza di informazioni proponendole scenari terribili. Anche adesso che é adulta, ha un buon lavoro, una casa, un fidanzato e che nel complesso si sente realizzata, non si guarda mai allo specchio dopo mezzanotte. É il suo segreto tallone d'achille, di cui di giorno di dimentica.
Il pensiero di questa sua incapacitá a liberarsi di questa dipendenza dall'insegnamento materno la tiene sveglia per qualche tempo, immersa nell'oscuritá come sotto una pesante coperta, da sola. "Forse é il momento di passare oltre", si dice parlando con la Jane che abita nel suo cervello. "Come diceva sempre il babbo? Un passo alla volta e potrai arrivare dove vuoi. Faró proprio cosí". Nella sua testa qualcuno mormora, "Non si fa. Non si disubbidisce alla mamma". Jane non sente perchè si é addormentata.

II

Nei giorni seguenti una serie di circostanze si frappongono tra Jane e il suo tentativo di guardarsi in uno specchio dopo la mezzanotte e la giovane donna comincia a pensare che potrebbe lasciar perdere. Jane é ostinata e ha deciso che vuole liberarsi di quella sciocca abitudine infantile.
Arriva finalmente il weekend e, insieme a Martin, esce per un concerto in un locale nuovo ma alla moda. É allegra quando tornano a casa e pensa che una doccia sia ció che le ci vuole per rlassarsi prima di andare a dormire. Mentre apre l'acqua, comincia a spogliarsi le torna in mente il suo proposito. Mezzanotte é passata da una quarantina di minuti.
É allora che Jane é colta da dubbi, si siede sul bordo della vasca, risente la voce di sua mamma. L'ansia la coglie. Pensa di chiudere l'acqua e andarsene a dormire, tenendosi quel suo piccolo segreto, innocuo, per il resto della vita ma la sua testardaggine ha la meglio. Prende un lungo respiro e si alza in piedi, con un mezzo salto si para davanti allo specchio. Di fronte a lei la sua immagine e alle sue spalle il muro. Si concede un sorriso, ma l'immagine resta identica: il make up sbavato, le occhiaie, il viso arrossato e le labbra tirate. Nessun accenno di sorriso. Jane si sente mozzare il respiro e chiude forte gli occhi, li riapre e si guarda ancora. Il suo riflesso é immobile mentre lei fa le boccacce, tira fuori la lingua, si scompiglia i capelli.
Prova a spostarsi, ma non riesce a muovere un passo. É prigioniera degli occhi senza espressione della Jane nello specchio. Prova a chiamare Martin ma non esce suono dalla bocca.
Il panico la coglie, prepotente e strisciante. Si accascia, senza fiato, sul tappeto, gli occhi chiusi, incapace di muoversi.
Dopo quello che le sembra un tempo senza fine, sente alle sue spalle un rumore. Probabilmente Martin. Si solleva in ginocchio e, con la coda dell'occhio, scorge una veste grigia che fluttua a mezz'aria. In preda al terrore si gira di scatto, per cercare una via di fuga ma finisce solo per trovarsi faccia a faccia con sua madre. Le orbite vuote la fissano e un sorriso spettrale si apre sul viso incartapecorito. "Te l'avevo detto", afferma il fantasma della donna risucchiandola in un abbraccio gelido.
Mezz'ora dopo Martin, sentendo ancora l'acqua scorrere, bussa ed entra nel bagno. Jane é sul pavimento, il pallore livido della morte ha già ghermito il suo viso, gli occhi sono vitrei e il corpo comincia ad essere rigido e simile a quello di un fantoccio. L'ultima cosa che Martin riesce a leggere é la frase, scritta con una matita nera per occhi, campeggia la frase "Jane non si guarda allo specchio dopo mezzanotte", poi una donna pallida molto somigliante a quella sdraiata per terra lo accoglie nel suo abbraccio gelido.