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martedì 28 aprile 2015

LA GEISHA DAI CAPELLI DI FUOCO

Tra i vicoli dell'antico quartiere di Gion, nel cuore dell'antica Kyoto, tante le storie delle fantomatiche creature che sono le geishe si raccontano ancor oggi.
Tra queste una delle favorite sia tra le okasan sia tra le giovanissime maiko e persino tra le più rinomate geiko è quella che racconta la favolosa storia della misteriosa "geisha dai capelli di fuoco".
Se la conclusione di quella che ormai è indicata come una leggenda varia da chi di volta in volta segue la narrazione, l'inizio è sempre lo stesso...

1) I sakura erano in fiori e l'aria ebbra dei loro colori e dei loro profumi. Un sole arancione dipingeva del suo sanguigno colore la cima innevata  del Fujiyama scandendo l'ora del tramonto.
Per le vie di Gion, il più famoso kagai di Kyoto, i businessmen si accalcavano per raggiungere le ochaya e trascorrere una serata in allegria, bevendo, mangiando piatti tradizionali e gioendo della compagnia delle più belle geiko - il modo in cui le geishe di Kyoto si riferivano a loro stesse - di Gion.
Le vie, strette e sovrastate da tetti spioventi di tegole color ardesia, erano affollate di persone. Dagli alti cancelli delle okiya provenivano le voci garrule delle geiko, intente a prepararsi.
Le giovani maiko si affaccendavano intorno alle "sorelle maggiori", aiutandole a stringere gli obi o porgendo loro preziosi fermargli per capelli.
Silenziose poi le giovani donne uscivano e si dirigevano verso le rispettive okaya.
Quella sera le geiko erano particolarmente eccitate, perché alcune maiko avevano appena completato il loro percorso e avevano appena passato la cerimonia dell'erikae, ovvero avevano cambiato il colletto dei loro kimono da rosso a bianco, divenendo a tutti gli effetti delle geishe.
La luce dorata del tramonto primaverile rendeva tutta l'area soffusa di un alone quasi mistico.
Due giovani geishe, Makiko e la sua amica Kimika, stavano attraversando la strada quando videro un gruppetto di loro colleghe che si erano attardate e sembravano intente a guardare qualcosa.
"Andiamo a vedere", propose Kimika, afferrando l'amica per la manica del kimono e cominciando a tirarla verso le altre. Makiko cercò di opporre resistenza ma alla fine la curiosità vinse e seguì l'amica senza opporre resistenza.
Raggiunsero le altre e si fecero strada, fino a che riuscirono ad intravedere l'oggetto dell'interesse delle altre geiko. Alle loro orecchie giunsero mormorii stupiti.
Davanti ad una vecchia okiya si era fermato un carro e alcuni facchini stavano scaricando mobili e suppellettili. Le ragazze rabbrividirono di paura: quella casa era disabitata e chiusa da almeno mezzo secolo e aveva la fama di essere infestata dai fantasmi della okasan e della geiko che vi avevano vissuto e che al suo interno erano morte in modo misterioso. C'era chi sosteneva che in alcune notti dell'anno si potessero udire i passi delle due donne percorrere i corridoi e c'era chi sosteneva di aver visto la geiko passeggiare, nelle notti di luna piena, per il giardino. «Era una fanciulla bellissima - sostenevano coloro che l'avevano intravista -. Pelle color dell'alabastro e occhi simili a perle dorate. I capelli, i capelli erano il suo tratto distintivo: simili al fuoco per colore e  sembrava che fossero dotati di vita propria».
La sorte della poverina era stata infausta, dicevano le cronache: una notte dei ladri si erano introdotti nella okiya e avevano ammazzato entrambe. «Da allora i loro spiriti sono rimasti intrappolati in quella casa - era il modo in cui i vecchi concludevano la storia -. É pericoloso avventurarsi entro quelle mura, che tanto dolore hanno sopportato. É meglio starvi lontano»·.
Le maiko e le geiko obbedivano a quelle parole e stavano lontane dalla casa della geisha dai capelli di fuoco, ma ora ciò cui stavano assistendo aveva dell'incredibile. Qualcuno aveva intenzione di andarvi a vivere. Per loro era un evento al limite del sacrilegio. Si guardavano tra loro, pallide sotto la maschera bianca del loro trucco, indecise sul da farsi...ma era tardi e il dovere le attendeva, così le belle artiste di Gion si ritrovarono di nuovo in strada dirette alle case da tea, dove facoltosi politici e uomini d'affari le attendevano, per godere della loro abilità oratoria, delle loro danze e delle melodie che sapevano trarre dagli shamisen.
Mentre le geiko tornavano alla loro vita all'interno del protetto mondo del salice e del fiore, i due facchini terminavano di portare dentro la okiya i due bauli, un enorme armadio e qualche altro complemento d'arredo.
Dietro di loro la notte cominciava a prendere possesso del quartiere e della città. Un vento freddo si era d'improvviso levato a scompigliare le chiome color rosa dei ciliegi in fiore.
«Muoviamoci - disse quello più anziano -. Non mi piace quest'atmosfera lugubre». Il giovane ribatté che dovevano attendere che i nuovi proprietari della casa arrivassero, secondo quanto avevano pattuito. «Altrimenti non saremo pagati», concluse lanciando un'occhiata al vecchio.
Aveva appena finito di parlare quando sentirono un fruscio e, girandosi, si trovarono di fronte un giovane uomo, dai tratti occidentali, ben vestito. «Spero che non mi stiate attendendo da molto - disse loro in giapponese -. Purtroppo sono da poco giunto a Kyoto e ancora non mi so orientare bene».
I due uomini scossero la testa, era la prima volta che udivano uno straniero esprimersi in modo così perfetto nella loro lingua. Si inchinarono rispettosamente e dissero che il lavoro era stato completato secondo i suoi ordini. I mobili erano stati sistemati nei punti della casa da lui indicati.
Il misterioso occidentale sorrise e, dalla giacca trasse un mazzetto di banconote. Ne contò una decina, ne aggiunse altre cinque e le infine le porse all'anziano. «Un piccolo extra, per il vostro silenzio - disse mentre il denaro passava di mano -. Non voglio che alcuno sappia dove sono. Questo sarà il mio buen ritiro. Non parlate con nessuno del lavoro che avete fatto per me quest'oggi, o avrete da pentirvene». Quelli si inchinarono nuovamente, mormorarono qualche parole di rassicurazione e scapparono via. L'espressione dell'uomo li aveva terrorizzati più delle sue parole.
Il misterioso visitatore osservò l'antica okiya, poi mormorò «Tsuini geisha kami no kasai no ie ni kite, watashi no kenkyu wa, saigo in kite iru» (Sono infine giunto alla casa della geisha dai capelli di fuoco, la mia ricerca è giunta al termine).
Varcò la soglia e rimirò il giardino sotto la luce della luna. Pur nello stato di abbandono, riusciva a trasmettergli un senso di pace. Salì i gradini e fece scivolare la porta, il silenzio era assoluto intorno a lui. «Sono venuto per voi», disse a mezza voce, rivolto al buio. «E non ho intenzione di rinunciare ad incontrarvi».
Sapeva che le sue parole potevano suonare baldanzose ed arroganti, ma era così: da che qualcuno in uno dei villaggi compresi tra Tokyo e Kyoto gli aveva raccontato quella leggenda aveva sentito qualcosa dentro l'animo smuoversi. Dopo anni di apatia, quella strana storia aveva acceso in lui una curiosità morbosa. Aveva speso settimane nella ricerca della abbandonata okiya e aveva fatto l'impossibile per poterla comprare. Ora era sua e avrebbe fatto in modo di incontrare la misteriosa fanciulla, la geisha dai capelli di fuoco.
Attraversò le stanze, notando come tutto fosse pulito. Se, come gli avevano raccontato i tecnici del comune da cui aveva potuto comprare quel piccolo gioiello architettonico, era disabitata da almeno mezzo secolo avrebbe dovuto essere ricoperta di polvere.
Uscì di nuovo sul piccolo patio e lanciò un'occhiata alla luna. La notte era appena cominciata. Da una valigia trasse fuori una fiaschetta, ne svitò il tappo e bevve un lungo sorso. Un rivolo di un rosso scuro scivolò fuori e macchiò la sua camicia di seta. Imprecò tra sé e bevve un'altra sorsata.
Sentendosi ritemprato, rientrò in casa e si preparò. Si spogliò degli abiti occidentali e indossò uno yukata nero dai ricami d'argento. Sollevò, senza fatica, quello che i facchini avevano creduto fosse un armadio e lo adagiò in mezzo alla stanza. Dal baule prese una candela e un libro di haiku, acquistato tempo addietro in un mercatino di Hokkaido.
Utilizzando un acciarino, accese la candela e cominciò a declamare, a voce alta, le poesie. Per fortuna del misterioso nuovo inquilino della okiya, la musica e le risa dell'hanamachi di Gion coprirono la sua voce.
Andò avanti per buona parte della notte a leggere ma nessuna fanciulla dai capelli color del fuoco e gli occhi color dell'oro fece la sua comparsa.
Poco prima del sorgere del sole chiuse le porte e aprì l'enorme bara che aveva sistemato per terra la notte prima. Era di un bel legno scuro, lucida e l'interno rivestito di morbida sera scarlatta. Si chiuse il coperchio sopra la testa e  lentamente sprofondò in un sonno simile alla morte.
L'uomo, proveniente da impervie regioni dell'occidente, sorrise nel suo nascondiglio e per un fugace momento i suoi denti acuminati brillarono. «Sarete mia, misteriosa dama dai capelli di fiamma. Sarete mia, per l'eternità».

2) La notizia che un nuovo inquilino si era stabilito nella okiya abbandonata fece il giro delle case da tea e delle okiya in pochissime ore. Le okasan disapprovarono la decisione delle autoritá di vendere la casa appartenuta alla Geisha no kami no kasai e per di piú ad uno straniero. «Dove andrá a finire Gion se la prefettura si permette di vendere le okiya senza consultarci», si lamentó la okasan della bella Chamoko, la geiko piú ricercata della Città.
L'anziana batté la pipa sul tavolo e si rivolse alla giovane donna, che la ascoltava bevendo una tazza di tea. «Questa sera hai appuntamento con il Grande Direttore, vero?", le chiese. Chamoko annuí. «Bene. Allora, con molta grazia, gli devi domandare di intervenire. Non é lecito che ci venga fatto questo torto. E non per una okiya qualunque ma per quella».
Chamoko chinò il capo in segno di rispetto e promise che avrebbe chiesto l'aiuto del suo Danna, uno degli uomini più potenti di Kyoto, perché lo straniero venisse rimesso al suo posto.
La sera sorse, tiepida e profumata dopo una giornata ventosa ed irrequieta.
Le ochaya aprirono le loro porte alle artiste e ai loro accompagnatori. Qualcuno, tra i pochi uomini ammessi in quel mondo quasi interamente femminile, decise di andare a vedere cosa stesse succedendo tra le mura della casa della sofferenza, un tempo nota come Okiya del Sole. Reggendo piccole torce lo sparuto gruppetto si avvicinò, cercando di sbirciare tra le assi sconnesse del vecchio cancello di legno. Poterono solo scorgere la fiamma di un lumicino e l'ombra di un uomo, alto e imponente, muoversi per la stanza. D'improvviso un vento gelido si alzò e una folata spense le loro fiammelle, rimasti al buio i poveri giovani furono attraversati da brividi di paura. Prima che potessero allontanarsi, una voce profonda li sorprese: «Cosa vi porta a spiare al mio uscio?». Alzarono lo sguardo e videro un giovane di bell'aspetto, avvolto in uno yukata nero di foggia elaborata, che li osservava dal muro di cinta. Nella mano destra reggeva una katana e negli occhi poterono scorgere un'espressione adirata. Cercarono di inchinarsi e di battere in ritirata ma lo sconosciuto li fermò. «Non così in fretta». Saltò in terra, bloccando loro la via di fuga. I suoi occhi li tenevano incatenati quanto la minaccia della sua spada. Lo guardavano tremanti e, gettandosi in terra, implorarono la sua clemenza. Quello li osservò con disprezzo e poi si mosse, veloce come un soffio di vento. La katana lampeggiò e gli uomini caddero a terra, feriti e sanguinanti. «Questa notte vi ho dimostrato la mia clemenza, che non vi riveda intorno alla mia magione. La prossima volta non vi risparmierò». Traendo dalla manica del kimono un fazzoletto candido, ripulì la lama della katana e poi lo gettò loro. «Mi aspetto di riaverlo indietro, pulito», aggiunse. Gli uomini annuirono, uno afferrò il pregiato quadrato di stoffa e lo ripose nella tasca interna del suo yukata assicurando che l'avrebbe avuto indietro entro pochi giorni. Sorreggendosi a vicenda si allontanarono, sotto lo sguardo severo del misterioso straniero. Non avevano mai incontrato un gaikogujin che parlasse così bene la loro lingua e sapesse maneggiare la katana come un samurai. «Ditelo a tutti, che non devo essere disturbato - la voce dell'uomo li raggiunse nella testa, come portata dal vento».
Quando furono spariti dalla vista, il giovane nobile alzò lo sguardo alla luna e emise quello che doveva essere un sospiro. Si incamminò, trasformandosi in una nuvola color argento e riapparendo in casa.
«Perdonatemi, mia cara - disse, rivolgendosi al silenzio -. Importuni». Si sedette al tavolo, aprì il libro di haiku e riprese a leggere. «Sono certo che questo lo potrete apprezzare». Si schiarì la voce e recitò. «Mi porta da te un impervio sentiero lo percorrerò».
Tacque e lasciò i pensieri liberi, cercando nello spazio della casa e del giardino la presenza della donna.
All'improvviso udì un lieve sospiro, proveniente dal piano superiore. Scattò in piedi e si scapicollò per le scale, seguendo quel libere suono nella sua mente. Raggiunse una piccola botola di legno rinforzata da un reticolo di metallo brillante e chiusa da un lucchetto d'argento.
Il vampiro ristette e arretrò di un passo. Il lampeggio di quell'oggetto, che lo separava da colei che in quel momento desiderava, gli ferì gli occhi e sentì la collera salire. Si accorse di aver abbandonato la katana al piano inferiore e fece per tornare indietro ma vide una figura curva e scura bloccargli la via. «Spostatevi», ringhiò mentre sentiva i denti crescevano e sentiva i muscoli tendersi.
La donna scosse la testa, la lunghissima chioma candida ondeggiò e avanzò di un passo. «Andatevene da questa casa maledetta», disse con voce gelida, «Non è posto per voi, questo. Questo è un luogo di sofferenza. Colei che voi cercate non è per voi. Lasciatevi alle spalle le vostre stupide elucubrazioni e tornate alla vostra vita».
All'udire quelle parole, l'uomo scoppiò in una risata. «La sofferenza per me è pane quotidiano - le rispose l'uomo, mostrandole il suo vero volto -. Non sapete di cosa state cianciando e ora vecchia, se non volete assaggiare la mia rabbia, levatevi di mezzo».
La figura si fece più vicino, sembrava muoversi sospesa nell'aria e poi scattò in avanti. Le mani ad artiglio, con lunghe unghie nere e ricurve. Il vampiro la evitò, trasformando il suo corpo in nebbia. Approfittando della forma incorporea, raggiunse il piano terra e recuperò la katana.
Lo raggiunse un lamento soffocato, la disperazione e l'impotenza racchiuso in esso lo colpì nel profondo. «Mia geisha dai capelli di fiamma - mormorò - sto venendo da voi. Presto sarete libera».
Ritornò alla stanza e trovò la megera, il fantasma della okasan che aveva imprigionato la Geisha dai capelli di fuoco in quel luogo di eterno dolore, seduta sulla botola.
Con voce malinconica, la donna si rivolse al vampiro. «L'accolsi in casa, venuta dal nulla. Mai avevo veduto prima di quella sera una fanciulla più bella di lei. Pelle candida, occhi simili ad oro fuso, capelli come fiamma viva. Era debole e triste, un esserino senza passato e senza futuro. Non ebbi cuore di mandarla via e decisi che ne avrei fatto una geisha».
Si zittì, forse ripensando al passato. «Ero stata io stessa una geisha da giovane e la mia okasan mi aveva adottato e lasciato la okiya, ma quando avevo deciso di ritirarmi non avevo travato nessuna giovanetta cui trasmettere il mio sapere. Lei mi pareva un dono del cielo».
Da sotto il legno si udì un suono secco, come se qualcuno stesse cercando di grattare le spesse assi.
«Si dimostrò degna della mia fiducia, imparava in fretta e bene. Era tra le migliori del suo corso. Ero così fiera. Poi cominciai a notare le sue stranezze: Quando usciva prima del tramonto si copriva sempre viso e mani, durante il giorno appariva debole e svogliata e solo alla sera diventava la ragazza allegra cui avevo imparato a voler bene. Poi scoprii, a poche settimane dal suo erikae, la verità. Era già famosa qui a Gion con il nomignolo di Geisha dai capelli di fuoco e questa okiya era nota come Okiya del Sole». Tacque di nuovo e il suo avversario le fece un cenno perché proseguisse.
«Non era umana, non come voi e me - urlò la vecchia con rabbia, mentre il suo viso mutava in una maschera da Grand Guignol -. In tutti quegli anni aveva tenuto nascosto la sua vera natura. Quando la vidi, la prima volta, azzannare alla gola un cliente e succhiargli via la vita e il vigore, seppi che ero perduta per sempre. La obbligai a raccontarmi la verità».
Il vampiro non poté fare a meno di sorridere a quelle parole, il suo intuito non aveva sbagliato. Il suo istinto, che l'aveva spinto fino laggiù, aveva saputo fin dall'inizio la verità.
«Da allora cercai di impedirle, in ogni modo, di cacciare a Gion, di uccidere innocenti ma senza successo. Lei si limitava a dire che era la sua natura e come tale non poteva cambiare. Mi ricordo ancora quella terribile frase, che mi disse quella sera. Umani, mortali, per noi siete solo cibo. Decisi che era il momento di fermarla e l'ho fatto come potevo».
Indicò la botola. «L'ho rinchiusa là dentro e implorai gli dei di farmi sua custode. Avrei dovuto cercare di ucciderla ma non ce l'ho fatta, in fondo è la mia bambina. In questi anni l'ho nutrita il minimo perché non morisse. Poi siete arrivato voi e ora son costretta a cambiare i miei piani. Prima mi libererò di voi e poi di lei, per l'eternità. Infine anche io avrò il mio giusto riposo».
Il visitatore rise, «Potete anche scordarvelo, di ucciderla ma io mi occuperò di darvi il giusto riposo». Prima che la vecchia potesse agire, scattò in avanti e affondò la katana. Con un singulto sorpreso, la okasan si dissolse in polvere e di lei non rimase che il suo kimono a brandelli. Lo sollevò con la punta della spada e lo gettò lontano, poi si inginocchiò sopra la botola. «Ancori pochi secondi, mia cara, e sarete libera».
Si alzò in piedi e menò un fendente al lucchetto, che era d'improvviso arrugginito mostrando i segni dei decenni, mandandolo in pezzi. Senza sforzo sollevò la botola e la vide: il viso mostrava appena i segni della prigionia, gli occhi socchiusi e le labbra esangui. La chioma rossa avvolgeva il corpo come un sudario. La sollevò senza fatica. «Ora siete libera e al sicuro». Lei lo guardò con uno strano bagliore negli occhi. Lui la portò di sotto e l'adagiò nella bara, «Aspettatemi qui». Si dissolse e dopo poco riapparve. Tra le mani stringeva uno degli uomini che poche ore prima era venuto a spiarlo. «Un volontario, per il vostro nutrimento», le disse costringendo l'uomo a inginocchiarsi offrendo la gola alla donna. La geisha annusò il collo dell'uomo e si leccò le labbra, che ancora recavano tracce di rossetto. La testa si mosse veloce, chinandosi sul collo dell'uomo. I denti, lunghi e acuminati, lacerarono la pelle e cominciò a suggere il prezioso liquido rosso. L'uomo gemette, un misto di dolore e piacere, prima di perdere i sensi. Nemmeno si rese conto della vita che scivolava via.
Quando esalò l'ultimo respiro, la donna si ritrasse. Alcune gocce di sangue imporporavano le labbra e un rivoletto era sfuggito dall'angolo destro ma lei fu lesta a pulirlo.
Fu solo a quel punto che alzò nuovamente gli occhi verso il suo salvatore. «Vi sono debitrice», mormorò in giapponese. «No - disse lui, inginocchiandosi davanti a lei -. Io sono vostro debitore. Il desiderio di trovarvi ha risvegliato nel mio animo la perduta voglia di essere ancora su questa terra. Io vi ringrazio».
Lei abbassò gli occhi, le labbra arricciate in un sorriso delicato.
«Mi avete salvata da una morte eterna, non potrò mai  sdebitarmi», aggiunse lei.
«Non dovete farlo. Ciò che ho fatto - si zittì per un momento -...L'egoismo mi ha spinto a venirvi a cercare, l'egoismo che vi voleva per sé. Non dovete sdebitarvi, vi chiedo solo di restare al mio fianco. Voi siete il più prezioso fiore che questa non vita potesse regalarmi. Potete accontentarmi?».
La misteriosa Geisha dai capelli di fuoco assentì, poi cercò di sollevarsi e lui si mosse per aiutarla, il kimono con cui era stata sepolta viva era ridotto a brandelli ma il suo corpo era coperto dai riccioli rossi. «Dobbiamo andarcene - disse lei -. Questa okiya era sotto un incantesimo, fino a che io fossi rimasta prigioniera e la okasan si fosse occupata di me, il tempo non sarebbe trascorso entro queste mura. Ma voi avete spezzato l'incanto...». Indicò la stanza: la polvere copriva i mobili, la carta di riso delle porte si era consumata e il legno mostrava i segni dei tarli. «Dobbiamo andarcene», fu la risposta di lui. La luna illuminava il cielo ancora scuro. Forse avevano ancora qualche ora prima del sorgere del sole, poi avrebbero dovuto trovare un rifugio per trascorrere le ore diurne.
«Avete fiducia in me?», chiese lui senza preavviso e lei non seppe far altro che chinare la testa. Non poteva far altro che affidarsi a lui, era stata prigioniera per oltre mezzo secolo. Ignorava come il mondo fosse diventato, come il quartiere dove aveva vissuto si fosse trasformato. Ma era anche curiosa. Gli anni in cui la okasan l'aveva tenuta rinchiusa non avevano minato del tutto il suo spirito e la sua natura predatrice.
«Come vi posso chiamare?», le chiese. «Io sono Dougal Conall Duff Keith ma i più preferiscono chiamarmi solo Conall». La dama chiuse gli occhi, cercando di ricordare il suo nome. «La okasan mi chiamava Akane, che significa "profondo rosso" per il colore dei miei capelli, e il mio nome da geisha dovrebbe essere Aimi, che vuol dire "bellezza"». Tacque. «Due nomi che si addicono a voi. Penso che vi chiamerò Aimi, se per voi va bene», commentò Conall e la geiko rispose di nuovo con un cenno del capo.
Un tonfo sordo attirò la loro attenzione: un pezzo del tetto era caduto a terra. La okiya cominciava a cedere. «Dobbiamo andarcene» - disse l'uomo, afferrandola per una mano ma Aimi si indicò e lui si rese conto che era vestita solo dei suoi capelli. «Per quanto possa apprezzare lo stile Lady Godiva - fece lui, cercando di apparire allegro -, forse questo non è il momento migliore per sfoggiarlo». Afferrò uno dei suoi yukata e lo fece indossare ad Aimi, che lo accomodò intorno al corpo esile. «Con estremo rammarico - aggiunse ancora lui sfoderando la spada - vi chiedo il permesso di tagliare di qualche centimetro la vostra chioma. Per rendervi più agevole il cammino».
Aimi si limitò a sorridere ed offrì i capelli al suo misterioso salvatore. Con un colpo preciso, Conall li recise appena sotto il sedere di lei. Osservò con soddisfazione il risultato, poi si affrettò a mettere insieme i suoi oggetti personali e, di nuovo le offrì la mano. «L'alba giungerà presto e dobbiamo affrettarci per trovare un posto dove trascorrere il diurno. La prossima notte organizzerò il nostro ritorno nella mia patria...e vi procurerò i più bei kimono che abbiate mai visto. Prima di andare, un ultimo tocco». Prese uno spesso scialle e lo drappeggiò intorno al capo di lei, nascondendo la chioma di fuoco. «Per la vostra sicurezza, mylady».
Un cigolio potente anticipò di pochi secondi la caduta di una trave di legno, che li mancò di pochi centimetri. Si guardarono un'ultima volta prima di incamminarsi verso il cancello e da lì si lasciarono alle spalle Gion e il suo magico mondo del salice e del fiore.
Conall trovò un hotel dove poterono rifugiarsi e, appena sorse la luna, fece un paio di telefonate organizzando il ritorno in Europa per lui e per la sua misteriosa accompagnatrice. Grazie alle sue conoscenze locali, ottenne in pochi giorni un passaporto per la ragazza, che ad ogni nuova notte imparava qualcosa di più su come il mondo si era trasformato durante la sua prigionia.
«Siete felice?», le domandò una notte mentre ritornavano in hotel dopo una notte di caccia. I sensi ebbri dei sapori e dei rumori della città, Aimi rispose «Non penso di esser mai stata così felice prima di ora. Non ho quasi ricordi del tempo in cui sono stata una geisha. É morto, insieme alla okasan».
Sui giornali di Kyoto, per qualche giorno, molto risalto ebbe la notizia della scoperta che l'antica Okiya del Sole era crollata in modo misterioso e la leggendaria storia della Geisha no kami no kasai tornò alla ribalta.

Nonostante la rinnovata notorietà della storia di Aimi, con tanto di foto sue apparse sui giornali, nessuno fece caso alla donna dai lunghi capelli rossi raccolti a treccia ed abbigliata con moderni abiti di foggia occidentale, che una notte si imbarcò sul piroscafo diretto a New York in compagnia di un aitante giovane uomo abbigliato in modo altrettanto elegante.

venerdì 17 maggio 2013

MARE D'INVERNO - incontro casuale


Ore 2.30 pm.
Alice si stringe nel giubbotto di pelle e si sistema il foulard nero intorno al collo, il vento le spazza i capelli arruffandoli. Si ritira ancor più sotto la pensilina della fermata del bus, cercando di evitare le raffiche. Con gesto sinuoso scosta da viso alcune ciocche e ritorna a guardare la spiaggia, che si estende dirimpetto a dove si trova. La sabbia è umida, friabile e sembra riflettere il grigio del cielo producendo strane luci cangianti. Le giunge un odore di alghe marce e uno che non riesce a definire, simile a metallo bagnato. Densi cumuli di nuvole si addensano in cielo e una brezza solleva deboli mulinelli. Le onde del mare si sollevano sporadiche andando ad infrangersi sul bagnasciuga. 
La ragazza si perde nei propri pensieri, soffermandosi su quel paesaggio di desolazione: alla maggior parte delle persone i luoghi di mare durante la stagione invernale mettono addosso un senso di depressione, di tristezza e di solitudine. Ad Alice, invece, piacciono. Ama passeggiare per le vie deserte respirando l'aria greve del mare, le rievoca la sua infanzia. Persino il tramonto anticipato del sole riesce a metterla di buonumore. Il suo animo crepuscolare riemerge prepotentemente. É per quello che è lì: per il suo nuovo romanzo; ha deciso che il suo bell'appartamentino mansardato, nel centro di Firenze, non andava bene. Per scrivere la nuova storia che sta prendendo corpo nella sua mente ha bisogno del mare, del mare di inverno. Si sente invadere da quell’atmosfera pallida e silenziosa, da quell’abbandono grigio e solitario. Le idee si affollano e dovrebbe prendere appunti...
«Promette pioggia, signorina, entro sera verrà giù un bell'acquazzone. Meglio che si incammini verso casa se non vuol prendersi una lavata, una di quella forti. Qui quando piove, piove seriamente. Rischia di buscarsi un malanno, uno di quelli brutti».
Alice, interdetta da quel discorso pronunciato con un forte accento, si volta e osserva, a metà tra lo stupito e il divertito, l'ometto che le sta alle spalle. Le arriva a malapena alle spalle, tenuto conto che lei indossa i suoi stivali con la zeppa - che le regalano quasi otto centimetri in altezza - e lui è un po' curvo.
Sbircia da oltre la pensilina e ammette con se stessa che è molto probabile che la pioggia sia imminente. e con quello che ha da fare nelle prossime settimane un'influenza o peggio non le ci vuole proprio.
«Sto aspettando l'autobus 22, per andare alla Marina, dove c'è il residence Pino Mugo».
Alice, senza sapere bene perché, risponde. Quella zona non la conosce, lei non è una che solitamente va al mare, non d'estate. E fino a quel giorno nemmeno in inverno. 
«La linea 22 è attiva solo fino al 30 settembre, quando si chiude la stagione estiva. Per arrivare alla Marina, dopo quella data, non ci sono mezzi pubblici. Le conviene prendere un tassì», le ribatte l'omino, con gentilezza.
Alice lo guarda, probabilmente è un tassista e cerca una ignara turista da fregare. «Ma sul sito del residence c'è scritto che la linea è attiva tutto l'anno», risponde Alice, che comincia a preoccuparsi quando sulla pensilina risuona il rumore del primo gocciolone di pioggia, seguito da molti altri. Il rumore si fa sempre più fitto ed insistente.
L'uomo la guarda e si stringe nelle spalle. «Non so, forse allora è solo in ritardo. Di solito passa ogni venti minuti circa: è perché fa un percorso circolare. Da qui alla Marina e ritorno. Io la saluto, comincia la pioggia ed è meglio che rincasi». Le fa un cenno con la mano e si allontana trotterellando sotto i cornicioni.
Alice si stringe ancor più nel suo giubbotto e si tira su il cappuccio della felpa. Guarda l'ora, le 2.35...ma quel bus arriverà o no? Il suo stomaco brontola e si ricorda che tra il viaggio e la chiacchierata inaspettata ha saltato il pranzo. «Che pessima giornata!», si lascia sfuggire a voce un po' troppo alta e sbatte un piede per terra. «Non posso restare qui tutta la giornata sperando che un bus transiti». Si guarda intorno: di taxi nemmeno l'ombra. Torna a guardare il mare, ogni goccia di pioggia sembra una freccia che ne ferisce la superficie increspata, il vento si è calmato e intorno regna una pace e un silenzio quasi innaturale. Non c'è in giro anima viva cui chiedere un'informazione.
Alice pensa a come risolvere quella situazione incresciosa. Il vecchio ha parlato di un tragitto di venti minuti e prova a calcolare quanto possa distare sto benedetto residence rispetto a dove è lei ora, davanti alla stazione. Potrebbe farsela a piedi ma guarda ai suoi piedi: due borsoni pieni di vestiti e accessori vari, la custodia del computer, la borsa, il trasportino dove il gatto Jago dorme ancora.
Un'impresa impossibile, pure se si fosse allenata per le olimpiadi!
«Andiamo a vedere se almeno un bar aperto c'è», si dice raccattando le sue cose e avviandosi verso la stazione. L'insegna del bar è accesa e da dentro proviene il rumore del macina caffè: per la prima volta Alice è contenta di sentirlo.
Entra e sistema il bagaglio sulle sedie di un tavolino. Il locale è, come prevedibile, vuoto ad eccezion fatta del barista. «Un cappuccino tiepido, una bottiglietta di naturale, un toast con crudo e formaggio. Ben cotto, per favore. E un piattino di latte per il mio micio, per favore», ordina, poi torna a sedersi ad un tavolino d'angolo, un po' distante dalla porta. É stanchissima, ha voglia di farsi una doccia, dormire qualche ora e non pensare a niente fino al giorno dopo. Sempre se riuscirà ad arrivare al residence Pino Mugo. «Che nome del cazzo per un residence...ma era l'unico aperto e anche abbastanza economico. Però che nome del cazzo», pensa tra sé e sé.
Mentre aspetta, giocherellando con il suo iphone, rispondendo a mail del suo editore che le chiede come mai non risponda al telefono e a sua madre, che si informa su che fine abbia fatto Jago...
Quando il barista le porta la sua ordinazione, Jago lancia un miagolio dal suo trasportino e Alice, aprendo abilmente la gabbietta, infila la ciotolina di latte prima che il micio sgusci via.
Il barista la fissa, gente strana ne ha vista passare parecchia da quando lavora in quel bar ma come quella mai. Sembra una scampata a qualche catastrofe. «Grazie», gli sorride Alice dopo essersi scolata in una sorsata metà della bottiglietta d'acqua. Prende il toast, un paio di tovagliolini, si alza, andandosi a sistemare alla porta finestra, per osservare l'acquazzone. Si domanda se il vecchietto di poco prima sia arrivato a casa sano e salvo. Lo spera.
Dal trasportino proviene il lappare soddisfatto di Jago.
Alice resta a mangiare guardando fuori, quante volte a casa l'ha fatto: mangiare in piedi, appoggiata al muro, guardando fuori dalla finestra la pioggia inzuppare la terra. Quel senso di pace che la pervade, la fa sprofondare nei meandri del nuovo romanzo. L'intreccio si snoda nella sua testa, i personaggi prendono corpo e nuove situazioni emergono. É così assorta nei suoi pensieri da non accorgersi subito di bloccare il passaggio allo sconosciuto che cerca di entrare, bagnato zuppo.
"Ohhhh...ops....Scusi", gli fa balzando indietro, imbarazzata. Come risposta ottiene un gesto della mano del tizio.
Alice torna a sedersi, Jago è tornato a ronfare e recupera così la ciotolina, ormai vuota. Gli fa una grattatina "Bravo MicioJago" e, finita l'acqua, sorseggia il cappuccino ormai freddo.
Nascondendosi in parte dietro la tazza lancia un'occhiata al nuovo arrivato. A parte essere bagnato in modo inverosimile, ha l'aria interessante. Tutto vestito di nero, giacca di pelle nera, stivali da cowboy neri, jeans aderenti che delineano quello che sembra un gran bel...
Alice distoglie lo sguardo arrossendo. Le scappa anche da ridere per il suo comportamento da quindicenne in preda ad una crisi ormonale. Lei che non è mai stata così...Ma va anche detto che sono un bel po' di mesi che non batte un chiodo, sarà quello che la fa comportare in quel modo isterico.
Non le sfugge la chitarra appoggiata a terra. Musicista: il destino è contro di lei e gioca pure sporco.
Fuori nemmeno l'ombra di un taxi o di un bus. 
Guarda l'ora. Sono le 4.14 del pomeriggio e sta scurendo. Deve trovare una soluzione in fretta. Jago miagola, infastidito da chissà cosa e con una zampetta gratta una delle pareti del trasportino.
Riporta al banco tazza e piattino, butta la bottiglietta nel cestino e chiede al barista se c'è un modo alternativo, che non sia bus o taxi, per arrivare al residence Pino Mugo. Quello la guarda come se avesse detto una specie di bestemmia e scuote la testa. «No. A parte il 22 no e i taxi passano solo su prenotazione ma a quest'ora e con questo tempo non penso che qualcuno sia disposto ad uscire».
«Grazie. E dista molto il residence?», aggiunge mesta Alice. «Intende a piedi?», chiede il barista, con voce decisamente incredula.
«Ehm si», ribatte la ragazza con il gatto. «Non so...forse un paio di chilometri, anche tre», risponde quello con aria dubbiosa. «Grazie», risponde Alice allungandogli una banconota da dieci e riponendo il resto nella tasca della giacca.
Lancia un'ultima occhiata all'esterno e si fa forza. Ci metterà almeno un'oretta o più a raggiungere il maledetto residence, si dice.
Pensa al povero Jago che si bagnerà un po' (anche se mai quanto lei) e sbuffa, afflitta.
Lancia un'ultima indagatrice occhiata al tizio con la chitarra ed esce, chiedendosi dove sia diretto, cosa faccia nella vita - oltre a suonare la chitarra - e altre mille inutili domande che non avranno mai risposta. É il suo modo per far passare il tempo nelle brutte situazioni: si concentra su qualcosa di impossibile e si perde nelle riflessioni, in modo da non stare a guardare l'orologio ogni due minuti. La accoglie il rombo di un tuono e il fulgore di un lampo, Jago lancia un miagolio disperato e si agita all'interno della gabbietta di plastica dura. Lei guarda l'orologio, si dice per l'ultima volta poi lo riguarderà una volta arrivata al residence.
Le 4.40...se riesce a mantenere un'andatura decente e a non fare soste ogni tre passi pensa che in un'oretta dovrebbe esserci. «Ma come si fa ad interrompere ogni mezzo di trasporto pubblico? Non ci vivono persone durante l'inverno in questo posto?», si domanda a voce un po' alta ma tanto in strada non c'è nessuno che possa sentirla o risponderle.
Senza darsi risposta si carica le borse in spalla, la custodia del computer e solleva il più delicatamente possibile il trasportino di Jago, che se non altro ha ripreso a dormire.
Si incammina costeggiando il muro e riparandosi con i cornicioni, «l'ombrello dei cani» lo definiva suo babbo. Un piede avanti all'altro e a ogni passo una domanda/risposta sullo sconosciuto.
«Se fosse un film ora arriverebbe a bordo di una macchina figa, mi darebbe un passaggio, mi porterebbe in sto cacchio di residence e poi ovviamente lo inviterei a bere qualcosa e quindi scatterebbe una bella scena di sesso...Ma questo non è un film e io dopo nemmeno 50 metri sono già più bagnata di una foca nel mare», pensa Alice caracollando verso la sua meta.
«Che strana ragazza», commenta il barista dando il resto al misterioso ragazzo. «E chi va in pieno inverno al residence Pino Mugo?», si chiede il ragazzo. É del posto, cresciuto in quel pezzettino di riviera in cui la vita si consuma da giugno a fine settembre e per il resto dell'anno si vivacchia in attesa che torni l'estate. Molti se ne vanno e non ritornano.
«Io vado al residence Pino Mugo», gli dice l'altro serio, «Con la mia band siamo stati chiamati per un concerto in un paese qui vicino e ci hanno mandato là a dormire. Gli altri dovrebbero essere già arrivati. Io mi sono fermato qui per un caffè, ero via per un altro impegno e ho perso il conto delle ore che ho guidato. Ciao, grazie e buona serata».
Il giovanotto dietro il bancone lo guarda e non sa cosa ribattere, sembra che il Pino Mugo stia riscuotendo molto successo al di fuori dei confini del loro piccolo borgo. In quel periodo, poi. Il mondo sta veramente andando a catafascio.
In lontananza il campanile batte cinque rintocchi e mezzo e il barista è di nuovo solo. Potrebbe anche chiudere, sa che è improbabile che qualcun altro si faccia vivo con quel tempaccio...decide di aspettare un'altra mezz'ora poi tornarsene a casa.
Alice, intanto, arranca per la via e non sa dire se è bagnata per il sudore oppure per la pioggia, che ora cade fine fine. «Le mie maledette idee», si ripete. Ormai non riesce nemmeno più a pensare al tipo intravisto al bar. Jago brontola da dentro il trasportino. «Saranno almeno due ore che cammino, chissà poi se sto andando dalla parte giusta...». Alice si ferma e appoggia a terra borse, gatto. Si appoggia al muro di una casa e cerca di riprendere fiato. Se non altro quell'allenamento inaspettato gioverà al suo fisico. L'orologio segna le 5.40...e non ha percorso molto perché in lontananza riesce ancora a scorgere stazione e fermata del bus. Prende due grossi respiri, recupera borse, trasportino e computer e si rimette in marcia. Ha fatto nemmeno cinque metri che una grossa macchina nera accosta e qualcuno all'interno suona il clacson. Dato che è l'unica persona nel raggio di miglia Alice desume che chiami lei.
"Il maniaco ci mancava anche", pensa mentre si avvicina meditando in caso di lanciargli addosso la gabbietta con Jago. Il finestrino del passeggero si abbassa e intravede metà del viso dello sconosciuto del bar. «Ciao - fa quello un po' titubante - ho sentito dal barista che vai al residence Pino Mugo e, dato che anche io sono diretto lì, se vuoi posso darti un passaggio». Alice sorride e, senza nemmeno ricordarsi che potrebbe essere un maniaco o un serial killer, fa cenno con la testa.
«Puoi mettere le tue cose dietro», indica il retro del macchinone, una specie di suv o jeep, ma Alice non capisce niente di macchine. Intravede la chitarra, gli ampli e altra roba che non sa cosa sia. A parte il suo computer e il povero Jago, il resto finisce nell'enorme bagagliaio.
Sale e si sistema il trasportino tra le gambe. «Grazie, mi hai salvata. E hai salvato anche lui», gli dice sorridendo., infilando un dito tra le grate del trasportino. Jago la mordicchia debolmente poi cede al grattino e comincia a fare le fusa.
«Piacere mio, avrei voluto proportelo al bar ma sei scappata prima che potessi dire alcunché», si schermisce lui. Le sorride e Alice pensa che è proprio bello. Assomiglia un po' ad Alain Delon, lei ha un debole per quell'attore e cerca una somiglianza in tutti quelli che conosce ma la voce profonda da bluesman. «Perdona, che maleducato. Non mi sono nemmeno presentato» allunga una mano e afferra la sua, sfiorandole la coscia. "Piacere, Evan». Alice si fa stringere la mano e risponde, «Alice...come quella del paese delle meraviglie». Il suo io maturo e responsabile scuote la testa per quella vecchia e becera battuta.
«Paese delle meraviglie. Interessante», ride Evan girando sulla destra ed imboccando una viuzza stretta, che quasi quasi la macchina non passa. Il navigatore comunica con voce solenne «meta raggiunta».
Alice guarda il famigerato residence Pino Mugo, nell'appartamento cinque passerà i prossimi tre mesi...speriamo che almeno un posto dove acquistare cibo, caffè e altri generi di prima necessità ci sia e sia aperto. Ormai non sa cosa aspettarsi da quel posto.
«Grazie del passaggio. Sei stato gentilissimo...Non so nemmeno come sdebitarmi». Evan ride e scuote la testa come a dire che non c'è alcun bisogno ma quando lei scende non disdegna di osservarla per bene...e un'idea su come lei potrebbe sdebitarsi si fa strada nella sua testa. Le sorride. 
Scendono e recuperano le rispettive cose. «Aspetta. Ti do una mano», il ragazzo lascia in macchina strumenti e le sue valigie prendendo invece le sue due borse. La segue fino alla reception ipnotizzato dal suo ancheggiare, che intravede alla fioca luce dei lampioni del vialetto. La ragazza, nonostante sia il mese di dicembre, indossa degli shorts aderenti e delle calze nere. I capelli lunghissimi ondeggiano in onde scomposte sulla sua schiena. Infine li accoglie il tepore del residence.
Al bancone sta una donna sulla cinquantina, dal viso rubicondo e sorridente. «Buonasera», saluta Alice, appoggia a terra il trasportino di Jago, che ora cerca di aprirlo con una zampina. «Sono Alice Mezzanotte, ho prenotato un appartamentino fino a fine febbraio». La donna prende il grosso libro delle prenotazioni e scorre con un dito, «Eccola. Si. Il numero cinque, che è il più piccolo che abbiamo...camera, cucinino soggiorno, bagno e balcone». Alice sorride e le allunga il documento prima che quella possa chiederglielo. La donna lo prende, si gira sulla sedia - che emette uno stridio preoccupante -, afferra la chiave appesa al talloncino numero 5 e la porge alla ragazza. «E lui?, qui c'è la prenotazione per una sola persona..gli ospiti pagano un sovrapprezzo a notte». «Lui mi aiuta solo con le valigie», risponde Alice, sperando di non risultare maleducata.
«Io sono Evan Devlin. Ci dovrebbe essere una prenotazione per me e il mio gruppo». Altra scorsa attenta del libro e finalmente il dito grassoccio si ferma. «Eccovi, si...», dice la receptionist. «I suoi amici sono già arrivati. Appartamento nove». E indica un punto non precisato in fondo ad un corridoio, che da su giardino.
Alice, seguita da Evan, si avvia e dopo pochi minuti si ritrova davanti alla porta del numero cinque. Lo apre e accende la luce. Jago è sempre più inquieto e la ragazza, appoggiato il computer sul tavolo, si affretta a liberare l'animale, che scappa subito a nascondersi sotto il divano.
«Povero...saranno sei ore che non esce. Ha bisogno di sgranchirsi le zampine». Evan porta dentro le borse. «Grazie, sei stato gentile. Veramente, se c'è un modo per sdebitarmi...». 
Alice non riesce a togliere gli occhi da quelli di lui, vi legge qualcosa di profondo, qualcosa di passionale. Evan resiste alla tentazione di baciarla, non sa perché sia così attratto da lei. «Così starai chiusa qui per tre mesi?». «Si. Pace, silenzio e solitudine per tre mesi, per scrivere il mio nuovo romanzo, almeno la prima stesura da mandare all’editore. Se dovesse andar bene potrei fermarmi, almeno fino a che dura l’inverno...Io adoro il mare d'inverno...Potrò fare passeggiate sulla spiaggia e altre amenità decadenti e crepuscolari. In totale solitudine... E tu invece suoni?».
Evan si ritrae di un passo, «Si. Siamo qui per una serata, domani sera. Nel paese vicino». «Interessante», fa lei, togliendosi il giubbotto e appendendolo ad una sedia. Evan si rende conto che è molto più snella di come appariva imbacuccata nella giacca. Il suo fisico è quello di una ragazzina, ma gli occhi sono quelli di una donna, stretto in una maglia a collo alto, gli shorts da cui spuntano le gambe inguainate in calze nere spesse e gli stivali. Ha un che di rocker maledetta più che di scrittrice. «Ora vado dagli altri che si staranno chiedendo che fine abbia fatto», Evan fa un altro passo indietro uscendo sul pianerottolo. Fuori ha ricominciato a piovere. «Meglio che ti sbrighi o rischi di bagnarti tutto». Alice è appoggiata alla porta, una gamba accavallata all'altra e con due dita si arrotola una ciocca di capelli decolorati. Evan non riesce a muoversi, è ipnotizzato da quel movimento rotatorio, come poco prima lo era dal suo ancheggiare. Nella sua testa si accavallano una serie di pensieri ed immagini. Il cellulare emette un beeepppp prolungato, che smorza i pensieri del chitarrista. "É il mio...", si scusa Alice, prendendolo dalla tasca del giaccone e spegnendolo. "Sono le 7.20...un reminder. Scusami un momento...ma entra, dai...Torno subito. Chiudi la porta, per favore: non vorrei che Jago si desse alla fuga".
Prende la borsa da terra e sparisce un momento in camera quindi ricompare sorridendo, si è legata i capelli a coda, ma alcuni ciuffi le scendono intorno al viso. Apre il rubinetto e prende un bicchiere, beve avidamente. «La pioggia mi mette sete», spiega. Ne prende un altro, lo riempie e lo porge a Evan, che lo accetta e ne beve un sorso. «Forse è meglio che vai...», ripete lei, «I tuoi amici...». Non lo guarda e non si muove.
Alice non sa perché si sente così triste, all'idea che Evan esca dalla porta e si perda nella notte. Da sotto il divano Jago fa le fusa come un trattorino. Ha preso possesso della sua nuova dimora.
Evan appoggia il bicchiere sul tavolo e si avvicina alla porta. Fa tutto con estrema lentezza, come a voler ritardare l'inevitabile, come se non volesse andarsene. Quella strana ragazza ha un che di magnetico su di lui. Non riesce a spiegarsi cosa sia: il fisico, il suo modo di fare, i suoi capelli, gli occhi, la bocca, le mani...un insieme di tutte quelle cose e molto altro.
Lui apre la porta, lei resta lì a fissarlo. L'aria è sospesa tra di loro, carica di elettricità, di una forza che li attrae e li respinge allo stesso tempo. Fuori la natura si scatena: i lampi squarciano il cielo scuro, i tuoni rumoreggiano in lontananza e la pioggia ticchetta.
Ad ascoltare con attenzione si può persino udire l'infrangersi delle onde sul bagnasciuga.
Sono lì, da soli, a fissarsi. Basterebbe un passo e si toccherebbero e lo sanno bene entrambi. É un fermo immagine, se fosse un film. Ma non è un film e Evan alla fine fa quello che non ha mai fatto prima, fa un passo avanti e prende la misteriosa Alice, «quella del paese delle meraviglie», e la bacia. Non è un bacio d'amore, non è un bacio violento. É un bacio assetato, le sue labbra risucchiano quelle di lei e sa che lei non si negherà. Gliel'ha letto negli occhi, che anche lei lo vuole. Senza lasciarla, a tentoni, chiude la porta, gira la chiave. Ora sono soli. Il mondo fuori non sa che sono lì, e fino a che vorranno non lo saprà.
La solleva, scoprendola leggera e delicata. Jago emerge miagolando e reclamando la pappa. Alice si divincola da Evan, ha gli occhi lucidi e le labbra rosse, le guance rosate. Gli fa cenno di attendere un secondo e, veloce, recupera da una borsa due ciotole e una busta di pappa. Una la riempie d'acqua e nell'altra svuota il contenuto della busta. Jago contento vi si avvicina e comincia a mangiare. «Sapessi come sa essere noioso se ha fame». Gli dice guidandolo in camera da letto. Da qualche parte un'orologio batte le 9 pm. Si sono incontrati da meno di quattro ore ma hanno la sensazione di conoscersi da sempre. 
Per Alice un fatto pressoché sconvolgente, lei oltre alla somiglianza con Alain Delon non va mai...e infatti la dimostrazione è la sua vita sentimentale inesistente.
Evan pensa che una ragazza così non l'ha mai conosciuta. Non riesce a darle un contorno definito, non sa niente di lei ma è come se sapesse tutto quello che c'è da sapere di lei.
La camera è essenziale, il letto appena rifatto li accoglie ancora vestiti. La sete dalle labbra si è propagata per tutto il corpo. Evan si toglie la camicia, rivelando un torace muscoloso e tatuato. Alice segue con le dita il percorso dei disegni. Lascia che sia lui a spogliarla, uno strato alla volta.
Il suo seno è piccolo ma sodo, il ventre piatto e una peluria bionda ricopre appena la zona più segreta di lei. I loro vestiti formano un mucchietto sul pavimento. Il silenzio è come musica nelle loro orecchie mentre si scoprono. Insieme al suo corpo Evan scopre i tatuaggi di lei, che per numero sembrano eguagliare i suoi. Li ammira,, li conta. 
Non servono le parole in quel momento, a parlare sono le loro mani, le lingue, gli occhi. In quel momento, in quel luogo, è amore. Lo sentono. Non sanno come sarà domani ma in quel momento è amore.
Evan le bacia i seni, scende delicatamente lungo la linea del costato mentre una mano le accarezza i glutei, sodi e morbidi. La lingua guizza in mezzo alle cosce, sente che Alice sussulta mentre la sua eccitazione aumenta. L'accarezza e l'assaggia, con delicatezza e maestria. La giovane donna allunga una mano, cercando la sua pelle pulsante e delicatamente comincia il gioco più antico del mondo. Una schermaglia di desiderio fino al punto di non ritorno. Ma il gioco non si ferma, come l'onda del mare raggiunge il suo apice e a quel punto lui le è sopra e scivola in lei, come se non fosse la prima volta.
Alice aderisce al suo corpo come se fosse stata creata per quello, le sue gambe stringono la sua vita seguendo i suoi movimenti. I gemiti si fanno più rarefatti mentre sentono che non durerà ancora molto. Hanno bruciato la miccia della loro eccitazione, il desiderio si è consumato come una candela troppo corta.
É un singhiozzo quello che Alice si lascia sfuggire dalle labbra quando è colta da un orgasmo multiplo mentre Evan trattiene il fiato sentendosi percorrere da lunghi brividi. Si lascia ricadere sulla schiena, la fronte imperlata di sudore e un sorriso sulle labbra. Jago gratta alla porta, offeso per essere stato estromesso dalla camera da letto, ma nessuno dei due ci fa caso.
Lui si tira su un fianco e la osserva, la pelle di lei è simile a seta ed emana un profumo di viole, che prima non aveva percepito. Lei si volta verso di lui. Le labbra rosate appena imbronciate e un guizzo negli occhi. Si alza e apre la porta, permettendo a Jago di entrare, a piedi scalzi, nuda entra in bagno. Poi ricompare, piegandosi in modo quasi innaturale e allungando un braccio verso di lui.
Dall'altra stanza si sente lo scroscio della doccia, che si confonde quasi con la pioggia. Evan non ha bisogno di altri inviti e la raggiunge. Sotto l'acqua tiepida si strofinano, pelle contro pelle. I baci di nuovo si fanno profondi e voraci. Si sentono insaziabili, arsi da una sete inestinguibile 
«Ma che fine ha fatto?»; il batterista chiede agli altri componenti del gruppo. «La sua macchina è parcheggiata da almeno due ore e di lui nemmeno traccia. Il cellulare suona a vuoto». Gli altri si stringono nelle spalle. Con quel tempo da lupi l'ultima cosa che hanno voglia di fare è andare a cercare Evan. «Avrà trovato qualcosa da fare...vedrai che tra un po' arriverà. La notte è lunga», risponde il bassista senza alzare lo sguardo dal libro che sta leggendo.
Sotto la doccia Alice si inginocchia davanti a Evan e ricopre di baci la pelle, le mani si muovono lievi e rapide. Lui si appoggia al muro, sollevando il viso verso il getto d'acqua e chiudendo gli occhi, ansimando. La bocca di Alice si chiude sulla sua carne, la lingua è morbida e calda, sente il suo corpo reagire, anche se ciò va contro ogni logica. La testa bionda si muove ritmicamente e ciò aumenta la sua eccitazione. Senza resistere oltre le scosta i capelli e solleva il viso, la solleva e l'appoggia al muro. Scivola nuovamente dentro di lei, lei geme nelle sue orecchie ed è come una melodia mai udita prima. É pura passione.
Tenendola sollevata esce dalla doccia - ricordandosi anche di chiudere l'acqua - la riporta al letto, l'adagia sopra e ricomincia la danza. Il movimento di lui è accompagnato dalle mani di lei. «Aspetta», gli dice in un soffio. Si scosta e si gira, Evan fissa il fondoschiena di lei, che gli sorride da sopra la spalla. Lui le si avvicina, la bacia, la lecca, si eccita ancor di più sentendola bagnarsi e fremere sotto la sua lingua. Nuovamente la penetra. Muovendosi ritmicamente, in un tempo sospeso nel tempo.
Ed è una seconda esplosione di piacere, per entrambi. In un angolo del letto Jago ronficchia, infastidito dal loro trambusto.
Da qualche parte dell'appartamento proviene l'attacco di un pezzo dei Goblin, quelli della colonna sonora di "Profondo Rosso" e in effetti proprio di quella canzone si tratta. Alice fa una smorfia - simile a quella di Jago - si alza ed esce, sul tavolo il suo cellulare vibra e suona con impazienza. É sua mamma che la cerca. «Ciao», le risponde. «Oh finalmente ti degni a rispondere», le urla all'altro capo la genitrice. «Iniziavo a temere fossi finita sotto un treno. Jago sta bene?». Sempre la stessa storia. «Siamo tutti e due sani e salvi. Ora chiudo che son stanca. Ciao ci sentiamo nei prossimi giorni». E attacca. Guarda l'ora: sono le due di notte...ma come ha fatto il tempo a passare così velocemente?
In camera Evan si sta rivestendo. L'atmosfera si è raffreddata, Alice raccatta i suoi vestiti e indossa la maglia e gli shorts. Si guardano, una nota di tristezza negli occhi di entrambi o è quello che lei vi vuole leggere. Senza parlare va alla porta e fa scattare la serratura, la socchiude e attende. Pochi minuti e lui appare. Bello come Alain Delon nei suoi primi film, quelli in bianco e nero che lei adora, e le sorride ma si vede che non è sicuro. «Ciao», le sfiora le labbra. «Addio», sussurra Alice ritraendosi e chiudendo la porta.
Non resta a guardarlo mentre si avvia lungo il corridoio, per recuperare le sue cose nella macchina.
Torna in camera, dove trova il letto disfatto e le lenzuola bagnate. Si mette le mani sui fianchi e comincia a ragionare. La telefonata di sua madre ha rovinato una delle migliori serate della sua vita.
Alice si dà della stupida per aver lasciato la suoneria a volume massimo.
Jago la guarda e si stiracchia, poi balza a terra e se ne va in salotto, a coda ritta. «Te la passi bene tu, gatto di strega!». L’altro le risponde con un miao e un rapido movimento di coda poi scompare.
«Ormai è andato e io non posso dormire nelle lenzuola bagnate». Disfa il letto e le stende, alla bell’e meglio sulla balaustra che divide il cucinino dal soggiorno. Quindi comincia a rovistare in una delle due borse alla ricerca delle lenzuola che si è portata da casa. Le estrae, riesce a recuperare anche le federe e la sua trapunta. La sua coperta di Linus.
Con il suo carico torna in camera, passando davanti allo specchio sistemato sulla parete all’esterno della stanza si rende conto di avere ancora indosso la dolcevita e gli shorts. Abbandona il suo carico sul letto e torna alle borse. Dalla seconda, a tentoni, riesce a tirar fuori i pantaloni di una vecchia tuta e una maglia, altrettanto vecchia. Senza tornare di là si spoglia, lasciando i vestiti in terra. Li metterà a posto l’indomani, insieme al resto. Indossa gli indumenti asciutti e tiepidi, nell’appartamento non fa certo freddo. A piedi scalzi, scopre che il riscaldamento è sotto il pavimento e lancia un gridolino di goduria, ripercorre il corridoio, non più di quindici passi, e si accinge a rifare il letto: ha solo voglia di infilarsi sotto le coperte e dormire, senza sogni e senza pensieri. Riprenderà il filo della sua vita nel giro di qualche ora. Prima del letto, si rende conto di non aver ancora preparato la lettiera per Jago e, prima che il gatto lasci qualche regalino in giro, si accinge a prendere la cassettina di plastica e la sabbietta...ma non le trova. «Devono essere rimaste nel macchinone di Evan», esclama battendosi una mano in fronte. «E adesso MicioJago come facciamo? Mi tocca andarlo a cercare...». Va alla finestra e controlla: lampi e tuoni si rincorrono ancora ma la pioggia sembra essersi trasformata in un gocciolio. «Ora mi tocca andarlo a cercare, con questo tempo...», sbuffa.
Prima di scendere a recuperare i bagagli e una parte degli strumenti, Evan bussa alla porta dell’appartamento numero 9. É il bassista ad aprirgli e lui gli fa cenno di seguirlo senza dire nulla. Quello lancia un’occhiata all’interno: gli altri sono più o meno appisolati. Chiude piano la porta e segue l’amico fino alla macchina. «Ma che fine avevi fatto?», gli domanda quando sono ormai davanti al bagagliaio della jeep di Evan. «Non ci crederai mai!», gli risponde quello tirando fuori l’ampli, la custodia della chitarra e un borsone da hockey. Sta per chiudere quando il bassista nota una strana busta di plastica. «E da quando hai un gatto?». «Cosa?», esclama Evan, sgranando gli occhi. Terry si sporge all’interno del bagagliaio e afferra la borsa di plastica, trascinandola. «Gatto...questa è una lettiera per gatti...oppure fa parte dello spettacolo?», ridacchia. Evan diventa rosso e tace. Afferra la busta e si incammina verso l’intero. «Comincia a portar dentro l’ampli e la chitarra», dice a Terry, mentre si allontana. Ha appena rimesso piede nella hall, adesso vuota e illuminata solo da una lampada da tavolo, quando compare Alice. É scalza, il viso arrossato dal freddo e probabilmente ha indosso quello che vuol sembrare un pigiama. «Uh - esclama lei -. Meno male che ti ho trovato...e che tu abbia trovato la sabbietta di Jago. Grazie». Senza aggiungere altro, senza quasi guardarlo prende il sacchetto e si allontana. In pochi minuti è scomparsa. Terry si fa vicino all’amico, «Niente male. Adesso ho capito perché ti sei presentato solo ora». Gli batte una manata sulla spalla e ridacchia, Evan lo guarda ma non ride. «Andiamo», gli dice recuperando il resto della roba. «É tardi e forse è meglio provare a dormire». Terry smorza la propria allegria e segue in silenzio Evan.
A lui quella fortuna di incappare in misteriose fanciulle non capita mai. É sempre in giro con il gruppo e al più, a fine esibizione, si ritrova con qualche ragazzetta con velleità da groupie attaccata alla cintola dei pantaloni. Niente del calibro delle fanciulle che girano intorno ad Evan, come falene intorno ad una lampadina. Arrivano al loro appartamento ed entrano: gli altri tre dormono. Si sente il russare di Max, dall’altra parte della stanza gli risponde Matte. «E stai zitto!», per non sbagliare gli lancia anche una scarpa ma lo manca. Completamente nudo appare Ettore, che si versa un bicchier d’acqua poi torna in camera. 
Evan osserva la scena con un misto di stupore e di incredulità. Si volta verso Terry. «Non te li ricordavi così savages? Forse è troppo tempo che non ti unisci alle nostre trasferte, preferendo altra compagnia». Il chitarrista percepisce la stoccata e deve ammettere che Terry ha ragione. Sta perdendo di vista il loro progetto artistico, a favore di un suo personale molto differente dal loro genere di musica ma che sente più vicino alla sua visione della vita. Lancia un’occhiata a Terry, poi gli tira una manata sulla spalla, quasi mandandolo a terra e ride, ritrovando il vecchio umore e lo spirito goliardico. «Spiritoso come sempre», ride poi si dirige verso la camera dove è scomparso Ettore. «Buonanotte fiorellino», sghignazza chiudendosi la porta alle spalle e lasciandolo in compagnia degli altri due. Max emette quello che, alle orecchie di Terry, appare come un boato e Matte si mette seduto e si lamenta: «Fallo tacere. Non riesco a dormire con quello che continua ad emettere questi rumori assordanti. Riesce a stonare anche russando». Terry si stringe nelle spalle, ma quando passa di fianco a Max, gli tira una manata ben assestata e per un momento il rumore cessa. 
In camera Evan si spoglia e si infila nel letto singolo, solo poche ore prima era in quello di Alice. Resta sdraiato al buio, con gli occhi aperti. Fissa il soffitto e miriadi di ombre creano un balletto davanti alle sue pupille. «É tutta immaginazione. Dormi che è meglio», si dice serrando gli occhi e cercando di levarsi quel pensiero dalla testa ma senza molto successo. Si sente invischiato nel ricordo della ragazza e sente il desiderio di rivederla, di scoprire il mistero dietro i suoi occhi. 
Evan pensa che in fondo potrebbe passare da lei il giorno dopo per salutarla e invitarla, magari, al concerto in programma per le serate seguenti. Una volta presa questa decisione il musicista si lasciò trasportare nel mondo dei sogni.
«Ma tu guarda che sbadata», Alice si rivolge a Jago facendogli penzolare davanti al musetto il sacco della sabbietta. «Per poco restavi senza bagno, povero piccolino». Il micio emette un flebile miagolio, poi si struscia contro la sua gamba. Alice si china e gli gratta il capino. «Ora ti preparo la lettiera poi mi occuperò del mio letto. Non vedo l’ora di infilarmici, mi sono ibernata i piedi quando sono uscita senza mettermi nemmeno le scarpe». Si osserva le dita arrossate poi si reca in bagno, reggendo la busta di plastica. Quando ha finito Jago si avventura, annusa e poi alza il musetto verso di lei e la guarda, Alice giura di vederlo sorridere. Esce e torna in camera: lenzuola, federe e la sua trapunta formano una montagnola disordinata sul materasso. Sbuffa e si mette all’opera. 
Jago resta sotto il divano mentre lei si affaccenda intorno al letto. Meno male che è veloce a fare questo genere di faccende, sebbene le odi con tutta se stessa. In meno di dieci minuti ha preparato un bel letto: la trapunta viola con ricami neri, le lenzuola blue scuro. Prima di coricarsi, recupera il caricabatteria e il suo smartphone: sullo schermo legge qualche notifica dei social network ma niente che attrae la sua attenzione. «Finalmente si dorme», sussurra a se stessa mentre sprofonda sotto la trapunta, lasciando scoperta solo una parte della sua chioma decolorata. Non è ancora addormentata che sente Jago balzare sul letto. Il micio si infila sotto la coperta e si accoccola vicino a lei, cominciando a fare le fusa. Alice si sente quasi a casa e scivola in un sonno senza sogni.