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martedì 28 aprile 2015

LA GEISHA DAI CAPELLI DI FUOCO

Tra i vicoli dell'antico quartiere di Gion, nel cuore dell'antica Kyoto, tante le storie delle fantomatiche creature che sono le geishe si raccontano ancor oggi.
Tra queste una delle favorite sia tra le okasan sia tra le giovanissime maiko e persino tra le più rinomate geiko è quella che racconta la favolosa storia della misteriosa "geisha dai capelli di fuoco".
Se la conclusione di quella che ormai è indicata come una leggenda varia da chi di volta in volta segue la narrazione, l'inizio è sempre lo stesso...

1) I sakura erano in fiori e l'aria ebbra dei loro colori e dei loro profumi. Un sole arancione dipingeva del suo sanguigno colore la cima innevata  del Fujiyama scandendo l'ora del tramonto.
Per le vie di Gion, il più famoso kagai di Kyoto, i businessmen si accalcavano per raggiungere le ochaya e trascorrere una serata in allegria, bevendo, mangiando piatti tradizionali e gioendo della compagnia delle più belle geiko - il modo in cui le geishe di Kyoto si riferivano a loro stesse - di Gion.
Le vie, strette e sovrastate da tetti spioventi di tegole color ardesia, erano affollate di persone. Dagli alti cancelli delle okiya provenivano le voci garrule delle geiko, intente a prepararsi.
Le giovani maiko si affaccendavano intorno alle "sorelle maggiori", aiutandole a stringere gli obi o porgendo loro preziosi fermargli per capelli.
Silenziose poi le giovani donne uscivano e si dirigevano verso le rispettive okaya.
Quella sera le geiko erano particolarmente eccitate, perché alcune maiko avevano appena completato il loro percorso e avevano appena passato la cerimonia dell'erikae, ovvero avevano cambiato il colletto dei loro kimono da rosso a bianco, divenendo a tutti gli effetti delle geishe.
La luce dorata del tramonto primaverile rendeva tutta l'area soffusa di un alone quasi mistico.
Due giovani geishe, Makiko e la sua amica Kimika, stavano attraversando la strada quando videro un gruppetto di loro colleghe che si erano attardate e sembravano intente a guardare qualcosa.
"Andiamo a vedere", propose Kimika, afferrando l'amica per la manica del kimono e cominciando a tirarla verso le altre. Makiko cercò di opporre resistenza ma alla fine la curiosità vinse e seguì l'amica senza opporre resistenza.
Raggiunsero le altre e si fecero strada, fino a che riuscirono ad intravedere l'oggetto dell'interesse delle altre geiko. Alle loro orecchie giunsero mormorii stupiti.
Davanti ad una vecchia okiya si era fermato un carro e alcuni facchini stavano scaricando mobili e suppellettili. Le ragazze rabbrividirono di paura: quella casa era disabitata e chiusa da almeno mezzo secolo e aveva la fama di essere infestata dai fantasmi della okasan e della geiko che vi avevano vissuto e che al suo interno erano morte in modo misterioso. C'era chi sosteneva che in alcune notti dell'anno si potessero udire i passi delle due donne percorrere i corridoi e c'era chi sosteneva di aver visto la geiko passeggiare, nelle notti di luna piena, per il giardino. «Era una fanciulla bellissima - sostenevano coloro che l'avevano intravista -. Pelle color dell'alabastro e occhi simili a perle dorate. I capelli, i capelli erano il suo tratto distintivo: simili al fuoco per colore e  sembrava che fossero dotati di vita propria».
La sorte della poverina era stata infausta, dicevano le cronache: una notte dei ladri si erano introdotti nella okiya e avevano ammazzato entrambe. «Da allora i loro spiriti sono rimasti intrappolati in quella casa - era il modo in cui i vecchi concludevano la storia -. É pericoloso avventurarsi entro quelle mura, che tanto dolore hanno sopportato. É meglio starvi lontano»·.
Le maiko e le geiko obbedivano a quelle parole e stavano lontane dalla casa della geisha dai capelli di fuoco, ma ora ciò cui stavano assistendo aveva dell'incredibile. Qualcuno aveva intenzione di andarvi a vivere. Per loro era un evento al limite del sacrilegio. Si guardavano tra loro, pallide sotto la maschera bianca del loro trucco, indecise sul da farsi...ma era tardi e il dovere le attendeva, così le belle artiste di Gion si ritrovarono di nuovo in strada dirette alle case da tea, dove facoltosi politici e uomini d'affari le attendevano, per godere della loro abilità oratoria, delle loro danze e delle melodie che sapevano trarre dagli shamisen.
Mentre le geiko tornavano alla loro vita all'interno del protetto mondo del salice e del fiore, i due facchini terminavano di portare dentro la okiya i due bauli, un enorme armadio e qualche altro complemento d'arredo.
Dietro di loro la notte cominciava a prendere possesso del quartiere e della città. Un vento freddo si era d'improvviso levato a scompigliare le chiome color rosa dei ciliegi in fiore.
«Muoviamoci - disse quello più anziano -. Non mi piace quest'atmosfera lugubre». Il giovane ribatté che dovevano attendere che i nuovi proprietari della casa arrivassero, secondo quanto avevano pattuito. «Altrimenti non saremo pagati», concluse lanciando un'occhiata al vecchio.
Aveva appena finito di parlare quando sentirono un fruscio e, girandosi, si trovarono di fronte un giovane uomo, dai tratti occidentali, ben vestito. «Spero che non mi stiate attendendo da molto - disse loro in giapponese -. Purtroppo sono da poco giunto a Kyoto e ancora non mi so orientare bene».
I due uomini scossero la testa, era la prima volta che udivano uno straniero esprimersi in modo così perfetto nella loro lingua. Si inchinarono rispettosamente e dissero che il lavoro era stato completato secondo i suoi ordini. I mobili erano stati sistemati nei punti della casa da lui indicati.
Il misterioso occidentale sorrise e, dalla giacca trasse un mazzetto di banconote. Ne contò una decina, ne aggiunse altre cinque e le infine le porse all'anziano. «Un piccolo extra, per il vostro silenzio - disse mentre il denaro passava di mano -. Non voglio che alcuno sappia dove sono. Questo sarà il mio buen ritiro. Non parlate con nessuno del lavoro che avete fatto per me quest'oggi, o avrete da pentirvene». Quelli si inchinarono nuovamente, mormorarono qualche parole di rassicurazione e scapparono via. L'espressione dell'uomo li aveva terrorizzati più delle sue parole.
Il misterioso visitatore osservò l'antica okiya, poi mormorò «Tsuini geisha kami no kasai no ie ni kite, watashi no kenkyu wa, saigo in kite iru» (Sono infine giunto alla casa della geisha dai capelli di fuoco, la mia ricerca è giunta al termine).
Varcò la soglia e rimirò il giardino sotto la luce della luna. Pur nello stato di abbandono, riusciva a trasmettergli un senso di pace. Salì i gradini e fece scivolare la porta, il silenzio era assoluto intorno a lui. «Sono venuto per voi», disse a mezza voce, rivolto al buio. «E non ho intenzione di rinunciare ad incontrarvi».
Sapeva che le sue parole potevano suonare baldanzose ed arroganti, ma era così: da che qualcuno in uno dei villaggi compresi tra Tokyo e Kyoto gli aveva raccontato quella leggenda aveva sentito qualcosa dentro l'animo smuoversi. Dopo anni di apatia, quella strana storia aveva acceso in lui una curiosità morbosa. Aveva speso settimane nella ricerca della abbandonata okiya e aveva fatto l'impossibile per poterla comprare. Ora era sua e avrebbe fatto in modo di incontrare la misteriosa fanciulla, la geisha dai capelli di fuoco.
Attraversò le stanze, notando come tutto fosse pulito. Se, come gli avevano raccontato i tecnici del comune da cui aveva potuto comprare quel piccolo gioiello architettonico, era disabitata da almeno mezzo secolo avrebbe dovuto essere ricoperta di polvere.
Uscì di nuovo sul piccolo patio e lanciò un'occhiata alla luna. La notte era appena cominciata. Da una valigia trasse fuori una fiaschetta, ne svitò il tappo e bevve un lungo sorso. Un rivolo di un rosso scuro scivolò fuori e macchiò la sua camicia di seta. Imprecò tra sé e bevve un'altra sorsata.
Sentendosi ritemprato, rientrò in casa e si preparò. Si spogliò degli abiti occidentali e indossò uno yukata nero dai ricami d'argento. Sollevò, senza fatica, quello che i facchini avevano creduto fosse un armadio e lo adagiò in mezzo alla stanza. Dal baule prese una candela e un libro di haiku, acquistato tempo addietro in un mercatino di Hokkaido.
Utilizzando un acciarino, accese la candela e cominciò a declamare, a voce alta, le poesie. Per fortuna del misterioso nuovo inquilino della okiya, la musica e le risa dell'hanamachi di Gion coprirono la sua voce.
Andò avanti per buona parte della notte a leggere ma nessuna fanciulla dai capelli color del fuoco e gli occhi color dell'oro fece la sua comparsa.
Poco prima del sorgere del sole chiuse le porte e aprì l'enorme bara che aveva sistemato per terra la notte prima. Era di un bel legno scuro, lucida e l'interno rivestito di morbida sera scarlatta. Si chiuse il coperchio sopra la testa e  lentamente sprofondò in un sonno simile alla morte.
L'uomo, proveniente da impervie regioni dell'occidente, sorrise nel suo nascondiglio e per un fugace momento i suoi denti acuminati brillarono. «Sarete mia, misteriosa dama dai capelli di fiamma. Sarete mia, per l'eternità».

2) La notizia che un nuovo inquilino si era stabilito nella okiya abbandonata fece il giro delle case da tea e delle okiya in pochissime ore. Le okasan disapprovarono la decisione delle autoritá di vendere la casa appartenuta alla Geisha no kami no kasai e per di piú ad uno straniero. «Dove andrá a finire Gion se la prefettura si permette di vendere le okiya senza consultarci», si lamentó la okasan della bella Chamoko, la geiko piú ricercata della Città.
L'anziana batté la pipa sul tavolo e si rivolse alla giovane donna, che la ascoltava bevendo una tazza di tea. «Questa sera hai appuntamento con il Grande Direttore, vero?", le chiese. Chamoko annuí. «Bene. Allora, con molta grazia, gli devi domandare di intervenire. Non é lecito che ci venga fatto questo torto. E non per una okiya qualunque ma per quella».
Chamoko chinò il capo in segno di rispetto e promise che avrebbe chiesto l'aiuto del suo Danna, uno degli uomini più potenti di Kyoto, perché lo straniero venisse rimesso al suo posto.
La sera sorse, tiepida e profumata dopo una giornata ventosa ed irrequieta.
Le ochaya aprirono le loro porte alle artiste e ai loro accompagnatori. Qualcuno, tra i pochi uomini ammessi in quel mondo quasi interamente femminile, decise di andare a vedere cosa stesse succedendo tra le mura della casa della sofferenza, un tempo nota come Okiya del Sole. Reggendo piccole torce lo sparuto gruppetto si avvicinò, cercando di sbirciare tra le assi sconnesse del vecchio cancello di legno. Poterono solo scorgere la fiamma di un lumicino e l'ombra di un uomo, alto e imponente, muoversi per la stanza. D'improvviso un vento gelido si alzò e una folata spense le loro fiammelle, rimasti al buio i poveri giovani furono attraversati da brividi di paura. Prima che potessero allontanarsi, una voce profonda li sorprese: «Cosa vi porta a spiare al mio uscio?». Alzarono lo sguardo e videro un giovane di bell'aspetto, avvolto in uno yukata nero di foggia elaborata, che li osservava dal muro di cinta. Nella mano destra reggeva una katana e negli occhi poterono scorgere un'espressione adirata. Cercarono di inchinarsi e di battere in ritirata ma lo sconosciuto li fermò. «Non così in fretta». Saltò in terra, bloccando loro la via di fuga. I suoi occhi li tenevano incatenati quanto la minaccia della sua spada. Lo guardavano tremanti e, gettandosi in terra, implorarono la sua clemenza. Quello li osservò con disprezzo e poi si mosse, veloce come un soffio di vento. La katana lampeggiò e gli uomini caddero a terra, feriti e sanguinanti. «Questa notte vi ho dimostrato la mia clemenza, che non vi riveda intorno alla mia magione. La prossima volta non vi risparmierò». Traendo dalla manica del kimono un fazzoletto candido, ripulì la lama della katana e poi lo gettò loro. «Mi aspetto di riaverlo indietro, pulito», aggiunse. Gli uomini annuirono, uno afferrò il pregiato quadrato di stoffa e lo ripose nella tasca interna del suo yukata assicurando che l'avrebbe avuto indietro entro pochi giorni. Sorreggendosi a vicenda si allontanarono, sotto lo sguardo severo del misterioso straniero. Non avevano mai incontrato un gaikogujin che parlasse così bene la loro lingua e sapesse maneggiare la katana come un samurai. «Ditelo a tutti, che non devo essere disturbato - la voce dell'uomo li raggiunse nella testa, come portata dal vento».
Quando furono spariti dalla vista, il giovane nobile alzò lo sguardo alla luna e emise quello che doveva essere un sospiro. Si incamminò, trasformandosi in una nuvola color argento e riapparendo in casa.
«Perdonatemi, mia cara - disse, rivolgendosi al silenzio -. Importuni». Si sedette al tavolo, aprì il libro di haiku e riprese a leggere. «Sono certo che questo lo potrete apprezzare». Si schiarì la voce e recitò. «Mi porta da te un impervio sentiero lo percorrerò».
Tacque e lasciò i pensieri liberi, cercando nello spazio della casa e del giardino la presenza della donna.
All'improvviso udì un lieve sospiro, proveniente dal piano superiore. Scattò in piedi e si scapicollò per le scale, seguendo quel libere suono nella sua mente. Raggiunse una piccola botola di legno rinforzata da un reticolo di metallo brillante e chiusa da un lucchetto d'argento.
Il vampiro ristette e arretrò di un passo. Il lampeggio di quell'oggetto, che lo separava da colei che in quel momento desiderava, gli ferì gli occhi e sentì la collera salire. Si accorse di aver abbandonato la katana al piano inferiore e fece per tornare indietro ma vide una figura curva e scura bloccargli la via. «Spostatevi», ringhiò mentre sentiva i denti crescevano e sentiva i muscoli tendersi.
La donna scosse la testa, la lunghissima chioma candida ondeggiò e avanzò di un passo. «Andatevene da questa casa maledetta», disse con voce gelida, «Non è posto per voi, questo. Questo è un luogo di sofferenza. Colei che voi cercate non è per voi. Lasciatevi alle spalle le vostre stupide elucubrazioni e tornate alla vostra vita».
All'udire quelle parole, l'uomo scoppiò in una risata. «La sofferenza per me è pane quotidiano - le rispose l'uomo, mostrandole il suo vero volto -. Non sapete di cosa state cianciando e ora vecchia, se non volete assaggiare la mia rabbia, levatevi di mezzo».
La figura si fece più vicino, sembrava muoversi sospesa nell'aria e poi scattò in avanti. Le mani ad artiglio, con lunghe unghie nere e ricurve. Il vampiro la evitò, trasformando il suo corpo in nebbia. Approfittando della forma incorporea, raggiunse il piano terra e recuperò la katana.
Lo raggiunse un lamento soffocato, la disperazione e l'impotenza racchiuso in esso lo colpì nel profondo. «Mia geisha dai capelli di fiamma - mormorò - sto venendo da voi. Presto sarete libera».
Ritornò alla stanza e trovò la megera, il fantasma della okasan che aveva imprigionato la Geisha dai capelli di fuoco in quel luogo di eterno dolore, seduta sulla botola.
Con voce malinconica, la donna si rivolse al vampiro. «L'accolsi in casa, venuta dal nulla. Mai avevo veduto prima di quella sera una fanciulla più bella di lei. Pelle candida, occhi simili ad oro fuso, capelli come fiamma viva. Era debole e triste, un esserino senza passato e senza futuro. Non ebbi cuore di mandarla via e decisi che ne avrei fatto una geisha».
Si zittì, forse ripensando al passato. «Ero stata io stessa una geisha da giovane e la mia okasan mi aveva adottato e lasciato la okiya, ma quando avevo deciso di ritirarmi non avevo travato nessuna giovanetta cui trasmettere il mio sapere. Lei mi pareva un dono del cielo».
Da sotto il legno si udì un suono secco, come se qualcuno stesse cercando di grattare le spesse assi.
«Si dimostrò degna della mia fiducia, imparava in fretta e bene. Era tra le migliori del suo corso. Ero così fiera. Poi cominciai a notare le sue stranezze: Quando usciva prima del tramonto si copriva sempre viso e mani, durante il giorno appariva debole e svogliata e solo alla sera diventava la ragazza allegra cui avevo imparato a voler bene. Poi scoprii, a poche settimane dal suo erikae, la verità. Era già famosa qui a Gion con il nomignolo di Geisha dai capelli di fuoco e questa okiya era nota come Okiya del Sole». Tacque di nuovo e il suo avversario le fece un cenno perché proseguisse.
«Non era umana, non come voi e me - urlò la vecchia con rabbia, mentre il suo viso mutava in una maschera da Grand Guignol -. In tutti quegli anni aveva tenuto nascosto la sua vera natura. Quando la vidi, la prima volta, azzannare alla gola un cliente e succhiargli via la vita e il vigore, seppi che ero perduta per sempre. La obbligai a raccontarmi la verità».
Il vampiro non poté fare a meno di sorridere a quelle parole, il suo intuito non aveva sbagliato. Il suo istinto, che l'aveva spinto fino laggiù, aveva saputo fin dall'inizio la verità.
«Da allora cercai di impedirle, in ogni modo, di cacciare a Gion, di uccidere innocenti ma senza successo. Lei si limitava a dire che era la sua natura e come tale non poteva cambiare. Mi ricordo ancora quella terribile frase, che mi disse quella sera. Umani, mortali, per noi siete solo cibo. Decisi che era il momento di fermarla e l'ho fatto come potevo».
Indicò la botola. «L'ho rinchiusa là dentro e implorai gli dei di farmi sua custode. Avrei dovuto cercare di ucciderla ma non ce l'ho fatta, in fondo è la mia bambina. In questi anni l'ho nutrita il minimo perché non morisse. Poi siete arrivato voi e ora son costretta a cambiare i miei piani. Prima mi libererò di voi e poi di lei, per l'eternità. Infine anche io avrò il mio giusto riposo».
Il visitatore rise, «Potete anche scordarvelo, di ucciderla ma io mi occuperò di darvi il giusto riposo». Prima che la vecchia potesse agire, scattò in avanti e affondò la katana. Con un singulto sorpreso, la okasan si dissolse in polvere e di lei non rimase che il suo kimono a brandelli. Lo sollevò con la punta della spada e lo gettò lontano, poi si inginocchiò sopra la botola. «Ancori pochi secondi, mia cara, e sarete libera».
Si alzò in piedi e menò un fendente al lucchetto, che era d'improvviso arrugginito mostrando i segni dei decenni, mandandolo in pezzi. Senza sforzo sollevò la botola e la vide: il viso mostrava appena i segni della prigionia, gli occhi socchiusi e le labbra esangui. La chioma rossa avvolgeva il corpo come un sudario. La sollevò senza fatica. «Ora siete libera e al sicuro». Lei lo guardò con uno strano bagliore negli occhi. Lui la portò di sotto e l'adagiò nella bara, «Aspettatemi qui». Si dissolse e dopo poco riapparve. Tra le mani stringeva uno degli uomini che poche ore prima era venuto a spiarlo. «Un volontario, per il vostro nutrimento», le disse costringendo l'uomo a inginocchiarsi offrendo la gola alla donna. La geisha annusò il collo dell'uomo e si leccò le labbra, che ancora recavano tracce di rossetto. La testa si mosse veloce, chinandosi sul collo dell'uomo. I denti, lunghi e acuminati, lacerarono la pelle e cominciò a suggere il prezioso liquido rosso. L'uomo gemette, un misto di dolore e piacere, prima di perdere i sensi. Nemmeno si rese conto della vita che scivolava via.
Quando esalò l'ultimo respiro, la donna si ritrasse. Alcune gocce di sangue imporporavano le labbra e un rivoletto era sfuggito dall'angolo destro ma lei fu lesta a pulirlo.
Fu solo a quel punto che alzò nuovamente gli occhi verso il suo salvatore. «Vi sono debitrice», mormorò in giapponese. «No - disse lui, inginocchiandosi davanti a lei -. Io sono vostro debitore. Il desiderio di trovarvi ha risvegliato nel mio animo la perduta voglia di essere ancora su questa terra. Io vi ringrazio».
Lei abbassò gli occhi, le labbra arricciate in un sorriso delicato.
«Mi avete salvata da una morte eterna, non potrò mai  sdebitarmi», aggiunse lei.
«Non dovete farlo. Ciò che ho fatto - si zittì per un momento -...L'egoismo mi ha spinto a venirvi a cercare, l'egoismo che vi voleva per sé. Non dovete sdebitarvi, vi chiedo solo di restare al mio fianco. Voi siete il più prezioso fiore che questa non vita potesse regalarmi. Potete accontentarmi?».
La misteriosa Geisha dai capelli di fuoco assentì, poi cercò di sollevarsi e lui si mosse per aiutarla, il kimono con cui era stata sepolta viva era ridotto a brandelli ma il suo corpo era coperto dai riccioli rossi. «Dobbiamo andarcene - disse lei -. Questa okiya era sotto un incantesimo, fino a che io fossi rimasta prigioniera e la okasan si fosse occupata di me, il tempo non sarebbe trascorso entro queste mura. Ma voi avete spezzato l'incanto...». Indicò la stanza: la polvere copriva i mobili, la carta di riso delle porte si era consumata e il legno mostrava i segni dei tarli. «Dobbiamo andarcene», fu la risposta di lui. La luna illuminava il cielo ancora scuro. Forse avevano ancora qualche ora prima del sorgere del sole, poi avrebbero dovuto trovare un rifugio per trascorrere le ore diurne.
«Avete fiducia in me?», chiese lui senza preavviso e lei non seppe far altro che chinare la testa. Non poteva far altro che affidarsi a lui, era stata prigioniera per oltre mezzo secolo. Ignorava come il mondo fosse diventato, come il quartiere dove aveva vissuto si fosse trasformato. Ma era anche curiosa. Gli anni in cui la okasan l'aveva tenuta rinchiusa non avevano minato del tutto il suo spirito e la sua natura predatrice.
«Come vi posso chiamare?», le chiese. «Io sono Dougal Conall Duff Keith ma i più preferiscono chiamarmi solo Conall». La dama chiuse gli occhi, cercando di ricordare il suo nome. «La okasan mi chiamava Akane, che significa "profondo rosso" per il colore dei miei capelli, e il mio nome da geisha dovrebbe essere Aimi, che vuol dire "bellezza"». Tacque. «Due nomi che si addicono a voi. Penso che vi chiamerò Aimi, se per voi va bene», commentò Conall e la geiko rispose di nuovo con un cenno del capo.
Un tonfo sordo attirò la loro attenzione: un pezzo del tetto era caduto a terra. La okiya cominciava a cedere. «Dobbiamo andarcene» - disse l'uomo, afferrandola per una mano ma Aimi si indicò e lui si rese conto che era vestita solo dei suoi capelli. «Per quanto possa apprezzare lo stile Lady Godiva - fece lui, cercando di apparire allegro -, forse questo non è il momento migliore per sfoggiarlo». Afferrò uno dei suoi yukata e lo fece indossare ad Aimi, che lo accomodò intorno al corpo esile. «Con estremo rammarico - aggiunse ancora lui sfoderando la spada - vi chiedo il permesso di tagliare di qualche centimetro la vostra chioma. Per rendervi più agevole il cammino».
Aimi si limitò a sorridere ed offrì i capelli al suo misterioso salvatore. Con un colpo preciso, Conall li recise appena sotto il sedere di lei. Osservò con soddisfazione il risultato, poi si affrettò a mettere insieme i suoi oggetti personali e, di nuovo le offrì la mano. «L'alba giungerà presto e dobbiamo affrettarci per trovare un posto dove trascorrere il diurno. La prossima notte organizzerò il nostro ritorno nella mia patria...e vi procurerò i più bei kimono che abbiate mai visto. Prima di andare, un ultimo tocco». Prese uno spesso scialle e lo drappeggiò intorno al capo di lei, nascondendo la chioma di fuoco. «Per la vostra sicurezza, mylady».
Un cigolio potente anticipò di pochi secondi la caduta di una trave di legno, che li mancò di pochi centimetri. Si guardarono un'ultima volta prima di incamminarsi verso il cancello e da lì si lasciarono alle spalle Gion e il suo magico mondo del salice e del fiore.
Conall trovò un hotel dove poterono rifugiarsi e, appena sorse la luna, fece un paio di telefonate organizzando il ritorno in Europa per lui e per la sua misteriosa accompagnatrice. Grazie alle sue conoscenze locali, ottenne in pochi giorni un passaporto per la ragazza, che ad ogni nuova notte imparava qualcosa di più su come il mondo si era trasformato durante la sua prigionia.
«Siete felice?», le domandò una notte mentre ritornavano in hotel dopo una notte di caccia. I sensi ebbri dei sapori e dei rumori della città, Aimi rispose «Non penso di esser mai stata così felice prima di ora. Non ho quasi ricordi del tempo in cui sono stata una geisha. É morto, insieme alla okasan».
Sui giornali di Kyoto, per qualche giorno, molto risalto ebbe la notizia della scoperta che l'antica Okiya del Sole era crollata in modo misterioso e la leggendaria storia della Geisha no kami no kasai tornò alla ribalta.

Nonostante la rinnovata notorietà della storia di Aimi, con tanto di foto sue apparse sui giornali, nessuno fece caso alla donna dai lunghi capelli rossi raccolti a treccia ed abbigliata con moderni abiti di foggia occidentale, che una notte si imbarcò sul piroscafo diretto a New York in compagnia di un aitante giovane uomo abbigliato in modo altrettanto elegante.

lunedì 10 febbraio 2014

LA VICENDA DELLE SORELLE MORÉLL


Due impercettibili bagliori: alle sorelle Moréll, strette dietro i vetri di una finestra del piano terra, fu così che i fanali della lussuosa auto dello zio Marcel apparvero, baluginando nella notte. Era l'inizio di dicembre e la visita dell'anziano era attesa. Le donne dovevano dare all’anziano parente una risposta definitiva alla richiesta presentata durante la visita precedente.
Erano nervose, le cinque donne, ma non si sarebbero lasciate distrarre dai modi sussiegosi dello zio. Osservarono l'automobile percorrere il viale che conduceva all'ingresso della dimora, dove avevano scelto di vivere da recluse dopo la morte dei genitori. Trascorrevano le giornate coltivando le attività a loro più congeniali, grazie alla rendita che lo zio Marcel doveva versare ogni mese alla loro banca, secondo le disposizioni testamentarie paterne.
Non uscivano mai, non avevano spasimanti, non si recavano nemmeno alla messa domenicale, raramente si facevano vedere in paese. Accadeva solo quando dovevano acquistare lo stretto indispensabile e per vendere alla proprietaria del ristorante le loro speciali torte salate. Spesso era avvenuto che qualcuno, soprattutto forestieri, si presentasse a casa loro per acquistarle senza passare dalla locale drogheria. Dopo un piacevole pomeriggio in loro compagnia se ne andavano soddisfatti con i loro tortini e nessuno di loro aveva più messo piede in paese, almeno così spiegavano le donne.
Le eredi della benestante famiglia Moréll avevano sempre vissuto in quella casa, vi erano nate e, quando fosse giunta la loro ora, vi sarebbero morte. Non avevano nessuna intenzione di andarsene e avrebbero fatto qualunque cosa per mantenere quel loro inalienabile diritto.
Lo zio fu accolto con molta solerzia dalle nipoti. Lo fecero accomodare nel salotto dalla carta da parati color smeraldo, davanti al fuoco. Sul tavolino di fianco alla sua poltrona, trovò una tazza del suo tea preferito e un bicchiere di brandy. «É sempre un piacere rivedervi caro zio», esclamò Linney, sorridendo, trascinandosi dietro una riluttante Gertry, precedendolo di poco. L'anziano procuratore si fermò ad osservare di nuovo la giovanetta. Gertry era da poco uscita dall’adolescenza, non era tanto alta ma aggraziata, la delicata curva della schiena fatta risaltare dal vestito nero, la pelle serica e candida. Occhi sorridenti e un nasino delicato le conferivano un certo fascino.
La guardò senza pudore, intensamente, tanto che Gertry abbandonò la stanza, sbattendosi dietro la porta, irritata da quel comportamento. Marcel sogghignò con soddisfazione mentre si accomodava e sorbiva la bevanda calda ed il liquore. Notò che entrambi avessero uno strano sapore ma era molto stanco, voleva una risposta e non ci badò. Era là per una ragione precisa. Marcel Moréll voleva che gli dicessero che si poteva prendere la casa e la piccola Gertry, se avessero risposto positivamente avrebbero potuto rimanere a vivere entro quelle mura  insieme a lui, altrimenti avrebbero dovuto andarsene senza indugio. Era stato molto chiaro in merito. 
Ribadì senza mezzi termini ciò che considerava un suo diritto legittimo, dato che era il loro unico parente ancora in vita.
Invece di rispondergli, con un inchino, Halley e le altre uscirono alla ricerca della piccola, in preda ad una gran rabbia. «Quel maledetto bifolco...», balbettò Halley in preda ad una crisi nervosa, mentre avanzavano lungo il corridoio, «Vorrebbe prendere in sposa Gertry e trasferirsi qui, a vivere. Ha avuto il coraggio di dircelo in faccia, come l'ultima volta che ha posato il suo grasso deretano sulla poltrona, ma vi rendete conto? Nostro zio, fratello di nostro padre...sposare Gertry, che è solo una bambina ed è sua diretta nipote». Le altre quattro la guardarono. «Non lo permetterò!», sbottò Emmeline con rabbia, stringendo i pugni ma Halley la zittì «Ha detto che ci manderà via da casa e sospenderà la rendita se non lo accontentiamo». 
La maggiore delle Morèll si sedette su una poltroncina: «Sostiene che, dato che nessuna di noi è sposata o ha intenzione di farlo, la casa passerà a lui, come unico parente prossimo. La sua intenzione è prendersela il prima possibile, vista la sua età avanzata. Conosce la legge e, senza dubbio, sa come aggirarla. Se non troviamo un modo per liberarci di lui si prenderà tutto ciò che ci è più caro». Scosse il capo sperando di riuscire a scacciare i terribili pensieri che le affollavano la mente.
«Non voglio sposarlo. Punto.», squittì Gertry, seduta in un angolo, sopraffatta dalla notizia. Si strinse le braccia intorno al petto e serrò le labbra in un'espressione di corrucciato rifiuto.
Emmeline e Jacintha camminavano avanti e indietro, riflettendo su come evitare quella catastrofe, l'esser scacciate dalla loro amata dimora e perdere quella che era la quasi unica fonte di sostentamento che avessero. Il peggio sarebbe stato vedere la loro adorata sorellina sposata a quell'essere viscido e avido che si era rivelato essere loro zio. «Ospitiamolo, mentre cerchiamo un modo per fargli cambiare idea. Intanto spero che abbia gradito il tea e il liquore...», disse Jacintea con un sorriso furbetto che le alzava gli angoli della bocca. «É il minimo per nostro zio», le fece eco Emmeline, che strizzò l'occhio alla sorella, intuendo cosa stesse escogitando, con un sorriso sornione.
Nel mentre Marcel Moréll si crogiolava nella poltrona, pensando alla scena, che parecchie stanze più in là si stava consumando. Un largo sorriso da avvoltoio gli si aprì sulla faccia. Dopo pochi minuti, molto più composte e tranquille le cinque sorelle tornarono dallo zio. Catherine gli si inginocchiò di fianco a lui e gli propose di fermarsi presso di loro per tutto il tempo che avrebbe voluto. Gli ricordarono che poco mancava a natale e che avrebbero potuto trascorrerlo insieme. Per la prima volta avrebbero partecipato ai consueti trattenimenti organizzati dalla comunità. 
L'uomo fu sorpreso dell'invito ma non rifiutò, sentendosi già proprietario di tutto e, vivendo lì, avrebbe potuto attingere all'eredita delle nipoti e spenderla come avrebbe voluto.
Ma nulla andò come si era immaginato l'avvocato. 
Nei giorni che seguirono il suo arrivo a casa delle nipoti, le sue condizioni di salute peggiorarono. Nonostante le premurose cure delle cinque donne. Al mattino lo accompagnavano al salottino, lo aiutavano a mangiare, gli leggevano i libri o sceglievano i dischi più belli da ascoltare. Si avvicendavano, premurose, al suo capezzale e non mancavano mai di preparargli brodi caldi, tisane, manicaretti preparati per lui. Nonostante il cagionevole stato di salute l'uomo rimase fisso nella sua idea: mettere le mani su quella villa, sui soldi, su Gertry.
In meno di una settimana il vecchio non poté più alzarsi dal letto e, per quanto esse si prodigassero, subito prima di natale, spirò. Fu chiamato subito il medico, le cinque sorelle si sentirono dire che doveva essere eseguita un'autopsia e non poterono rifiutare ma chiesero, ottenendolo, di potersi portare a casa la salma una volta terminati gli esami. 
Il responso fu che il vecchio Marcel Moréll era morto per le complicazioni di una malattia molto comune: la vecchiaia.
Il funerale si svolse dieci giorni dopo, alla presenza di tutti gli abitanti del villaggio e quella sera servirono, a coloro che andarono a far loro visita, quello che fu definito il miglior tortino che avessero preparato fino ad allora.
Ripresero la vita di sempre ma un giorno dalla capitale giunse una lettera che chiedeva la loro presenza in città e lasciarono la casa che tanto amavano. 
Passarono mesi, poi un giorno arrivò una donna mai vista al villaggio, chiuse le imposte, appese un cartello per la vendita nel giardino e se ne andò. In poche settimane la dimora dei Moréll fu venduta ad un gruppo di artisti, che vi si stabilirono, occupando ogni ambiente a disposizione: dalla soffitta alla cantina.
Furono eseguiti una serie di interventi di ristrutturazione e, durante uno di questi, la cantina restituì una ventina di scheletri, appartenenti a uomini e donne, tra cui quello che fu riconosciuto appartenere a Marcel Moréll. 
I resti erano semi sepolti sotto quella che sembrava essere una presa d'aria ma che, fu dimostrato essere in collegamento con la cucina. Gli investigatori  riuscirono a risolvere il mistero grazie ad un «ricettario», forse dimenticato apposta sul tavolo di cucina, e la verità fu rivelata in tutta la sua crudezza: per anni le dolci e riservate fanciulle avevano venduto torte ripiene di carne umana ai loro concittadini, l'ultimo preparato con la carne del loro stesso zio.

mercoledì 28 novembre 2012

PICNIC A END POINT


L'invito da parte degli Howers straní non poco Shynnelyn. Conosceva appena Cavill Howers, erano nella stessa classe di scienza e, da quando aveva iniziato a frequentare quella scuola non si erano scambiati più di venti parole e qualche sguardo.
Cavill era un ragazzotto basso e tarchiato, teneva sempre lo sguardo basso e parlava solo quando era interpellato direttamente. Per il resto del tempo se ne stava, con aria dimessa, in fondo all'aula a pensare ai fatti suoi. Era un tipo solitario e il non essersi fatto nuovo amici sembrava lasciarlo indifferente.h Per un paio di giorni ci si era chiesti da dove provenisse e come mai si comportasse in quel modo, ma alla fine l'interesse per Cavill era stato sostituito dalla morbosa curiositá nei confronti di Adleyn Masshow, che aveva vinto un concorso per aspiranti attrici e se ne sarebbe andata via entro poche settimane.
Shynnelyn non aveva badato tanto al giovane Howers quanto ai preparativi di commiato per Adleyn quindi quel che accadde quel piovoso venerdí di metá febbraio la lasció in uno stato di imbarazzo e confusione. Alla fine della lezione Cavill, senza alcun preavviso, le si mise di fronte bloccandole l'uscita. "Sei invitata al pic nic della mia famiglia a End Point questa domenica. Ti passeremo a prendere alle 10. Ciao". Cavill Howers se ne era andato senza darle il tempo di rifiutare ed era scomparso nella massa di studenti che se ne andavano verso il weekend. La ragazza ci pensó a lungo durante il tragitto verso casa: era una cosa folle!
Nel borgo si raccontavano strane storie sugli Hovers, trasferitisi in paese non più di sei mesi prima e che non avevano fatto nulla per integrarsi con la comunitá, e lei non voleva essere la prima a scoprire se erano vere. Appena a casa cercó il numero di telefono e chiamó casa di Cavill. Le rispose una voce di donna e dopo essersi presentata fu investita da un trillante urlo di giubilo. Tentó di inventarsi una scusa plausibile per scantonare l'invito ma senza successo perchè la donna quasi non le lasció spazio per parlare. Non riuscí nemmeno a farsi dire perchè su tutte le studentesse che Cavill aveva potuto conoscere in quei mesi aveva voluto invitare proprio lei. Si ritrovó solo a ringraziare Mrs. Cavill per la sua gentilezza, assicurandola che alle 10 si sarebbe fatta trovare all'angolo della via. E la comunicazione si chiuse.
Shynnelyn si chiese come fare per non andare. Da un lato la sua naturale curiositá le diceva di sfidare la sorte e prender parte a questo pic nic, dall'altro una vocina continuava a sottolineare il fatto che non sapeva nulla di questa famiglia e le voci che giravano non erano certo incoraggianti e chissá cosa avrebbero potuto farle in un luogo isolato.
Shynnelyn non sapeva cosa fare e così si mise sul divano a leggere, tormentata dal tarlo del dubbio e della curiositá. Non sapeva nemmeno questo End Point fosse.
Almeno quello poteva scoprirlo da sola. Dallo scaffale alto della libreria prese l'atlante dello stato e nell'indice cercó End Point, poi guardó sulla mappa corrispondente: era il piccolo promontorio dove da bambina aveva trascorso tre (terribili) estati con gli scout ma nei suoi ricordi era indicato con un altro toponimo.
Shynnelyn sbuffó e tentó di riprendere la lettura ma immagini non del tutto allegre occuparono la sua attenzione. Si diede della stupida e andó a farsi un bagno per liberarsi dalla tensione, si fece un sandwich quindi si mise a letto.

SATURDAY

Cielo grigio. Nuvole scure come le occhiaie. Pioggerella fine fine. Fu il tempo che accolse Shynnelyn dopo pranzo. Memore dei tempi degli scout sapeva che End Point non era ambiente adatto a sneakers e aveva deciso di andare al mall per un po' di shopping preparatore e rilassante. Scarponcini, jeans, felpa e simile abbigliamento era il suo obiettivo. E magari, se restava il tempo e i soldi, anche un presente per la famiglia di Cavill. Giusto per metterli di buon umore.
Si tiró su il cappuccio della jacket e si incamminó verso il mall, maledicendo suo padre e madre per esser andati via con la macchina proprio quel malefico weekend.
Entró nella hall sentendosi un cane bagnato. I capelli le scendevano, umidicci, sul viso e goccioline le si infilavano sotto il maglione, giù lungo la schiena, provocandole i brividi. Si diede una rapida sistemata e Shynnelyn si diresse verso il negozio di sport. Dalle finestre si intravedevano i fulgori dei lampi e giungevano i rimbombi soffocati dei tuoni.
Appena entrata letteralmente requisí una commessa e in meno di mezz'ora aveva completato i suoi acquisti, ma non trovó nulla da poter donare alla madre di Cavill, non poteva presentarsi con una pianta durante un pic nic in montagna. Era ormai quasi ora di cena e la ragazza si compró un paio di sandwich e un'insalata giapponese, pensando di mangiarseli mentre si guardava un qualche classico horror della Hammer e poi di andare a letto presto.
Nella hall era riunito un nugolo di persone, che guardavano il cielo, che era una macchia nera in cui fulmini si rincorrevano sfolgorando oltre le vetrate. Shennylyn passó velocemente e si fermó davanti alla porta, quella si aprí facendo entrare qualche schizzo di pioggia. La ragazza si tiró su il cappuccio e si avventuró fuori, camminando a passo svelto ma senza correre. Non ricordava più chi, una volta, le aveva spiegato che sotto la pioggia era meglio non correre, perchè incredibilmente ad andar piano - ma non troppo - si sarebbe bagnata di meno. Fortunatamente casa sua distanza solo dieci minuti e quando varcó la porta non era troppo inzuppata. Si tolse gli stivali, sistemó in terra un giornale e li poggió sopra. Lo stesso fece sotto il cappotto appeso.
In camera si tolse gli abiti umidi, che con un tiro da tre punti finirono nel cesto della roba sporca. Sotto il getto di acqua calda lavó via l'umiditá. Si frizionó i capelli con l'asciugamano e si infiló la tuta poi tiró fuori dai sacchetti i pacchi. Dalla scatola estrasse gli scarponcini, che trovarono posto di fianco al letto. La maglia e i pantaloni furono appoggiati sulla scrivania mentre la giacchetta sulla spalliera della sedia. Shennylyn preparó poi calzettoni e biancheria quindi scese in cucina e compose la sua cena su un piatto, poi il vassoio e una bottiglietta d'acqua. In salotto il dvd era già nel lettore, sfioró appena il tasto play e fu catapultata nel mondo in bianco e nero del "Il Bacio della Pantera" (1948).

DOMENICA

Scoccavano le 10 quando il minivan degli Howers si accostó al marciapiedi e il portellone laterale fu aperto. Dal posto del navigatore la signora Howers Le sorrise facendole cenno di salire. Di fronte a lei Cavill, insieme ai suoi fratelli e sorelle, aspettavano solo che lei salisse. Sembravano impazienti e, così sembró a Shennylyn, avevano uno sguardo affamato quando la guardavano.
Con una specie di saltello fu dentro e si poté sedere solo di fianco a Cavill e ad una bambina dai capelli malamente legati in due codini arruffati.
"Sono cosí lieta che tu abbia accettato il nostro invito - esclamó con voce garrula Mrs Howers -. Era da tanto che non abbiamo ospiti al nostro bel pic nic a End Point. Quest'anno peró mi sono imposta con Cavill, avrebbe dovuto portarci una bella ragazza...". Il marito, distogliendo lo sguardo per un secondo dalla strada, le lanció un'occhiataccia e quella si zittí.
Il resto del tragitto fu silenzioso, fatta eccezione per le presentazioni, cosa cui provvide volentieri la signora Howers, la quale snoccioló i nomi dei figli con lo stesso ritmo con cui l'allenatore le chiamava: Alley, Babelyn, Cavill, Danaes, Elix, Fanny, George, Harold. Specificó che Babelyn e George non c'erano perchè erano fuori cittá per lavoro. Shennylyn sorrise e si ripeté che sarebbe una magnifica giornata.
Dopo meno di un'ora finalmente avvistarono il famoso pianoro di End Point, che terminava in uno spunzone di roccia, il fondo del burrone era un'amena radura boscosa ed ideale per il camping, se si era amanti di quel genere di passatempi.
Altri appartenenti alla famiglia Howers erano già arrivati e stavano preparando: alcune ragazze stendevano le tovaglie sopra assi di legno. "Cosí i piatti non corrono il rischio di rovesciarsi", le precisó una tizia dagli stopposi capelli arancioni che si presentó come Antonia (cugina di Cavill e sorella rispettivimente di Brent, Cristy e Danny).
Shennylyn si chiese se tutti in quella famiglia avessero i nomi in ordine alfabetico, la cosa le sembrava un po' inquietante. "Si, ha un che di inquietante questa abitudine di dare i nomi in ordine alfabetico", buttó lí un'altra cugina di Cavill, che se non aveva capito male si chiamava Davilia.
Shennylyn sbiancó in viso a quella frase, quella strana ragazzina poteva forse leggerle nel pensiero? Fece finta di niente e si diede da fare per aiutare Antonia con i piatti mentre gli uomini si dedicavano a cuocere la carne sul barbecue e a bere birra parlando di sport o politica.
Mentre andava avanti ed indietro tra le auto e la "tavolata" portando posate, ciotole e bicchieri, spesso sentiva gli occhi - sguardi rapaci, curiosi, quasi cupidi - dei parenti di Cavill addosso.
In quei casi sorrideva e lavorava più alacremente.
Era passato mezzogiorno da un pezzo quando finalmente tutto fu pronto e si sedettero per gustare la carne arrostita, le pannocchie e tutte le altre pietanze.
Shennylyn assaggió un pezzo di carne particolarmente tenero e delicato, dal sapore sembrava pollo ma il colore bruno esterno e rosato all'interno faceva pensare a un agnello o altro animale simile.
Shennylyn decise di metter da parte le strane sensazioni e godersi la giornata e le nuove amicizie.
Dopo pranzo giocó un po' con i più piccoli, poi si avvicinó ad Antonia, Cavill e Davilia ma quando la videro smisero di chiacchierare e le puntarono addosso sguardi voraci, da lupo. Fu il pensiero che attraversó la mente di Shennylyn.
Si bloccó e tornò sui suoi passi, andando a sedersi su un masso poco lontano, di fronte a lei si apriva uno spettacolare scorcio di passaggio e Shennylyn rimpianse di non avere la macchina fotografica.
Dietro di lei si udivano gli Howers parlottare e lanciarle occhiate continue, tanto che cominció a sentirsi a disagio e a desiderare di tornare a casa.
Si fece coraggio, si alzó e si avvicinó alla signora Howers. "Mi scusi, non per sembrarle indiscreta ma volevo sapere verso che ora torneremo in paese". La madre di Cavill sorrise. "Tra poco mia cara. Prima c'é il momento clou della giornata".
Shennylyn fu sicura di aver visto delle zanne sbucare dalle labbra della donna ma si limitó a sorridere, non era interessata al momento clou del picnic degli Howers.
Tornó al suo sasso e si rimise a pensare, alla scuola, ai compiti, alla prossima partita. Era a tal punto persa nei suoi pensieri da essersi estraniata da tutti e si riscosse solo quando Cavill la toccó su una spalla. O meglio l'afferró con forza e la strattonó.
"Hey...", protestó Shennylyn cercando di liberarsi ma ottenendo solo che la stretta si serrasse. Uno ad uno i restanti Howers la circondarono fissandola famelicamente.
"Sei stata così dolce ad accettare l'invito di Cavill", mormoró Danaes, passandole poi la lingua rosata su una guancia. Gli altri ridacchiarono e Shennylyn rabbrividí.
In mente le vorticarono tutte le storie che aveva udito: in realtá nessuna si avvicinava a ció che aveva intuito.
"Stai buona Danaes", disse la signora Howers, "Verrá il tuo turno. Cavill lasciala".
La stretta si sciolse e in automatico Shennylyn si massaggió la spalla. Tentó di rimettersi in piedi ma fu costretta a rimettersi a terra. Volgeva lo sguardo ovunque per trovare una breccia e poter scappare, buttare a terra qualcuno non le sembrava molto cortese ma alla fine si disse che era per salvarsi la vita.
Si mise in ginocchio, abbassó la testa e scattó. Finí addosso a Cristy, entrambe finirono a terra e Shennylyn fu svelta a rimettersi in piedi ma una mano le bloccó il piede. Strattonó ma senza riuscire a liberarsi, con la coda dell'occhio riconobbe la madre di Cavill. "Non ci scapperai bambolina - disse ridendo -. Non ci scapperai". Ma Shennylyn non era di quell'avviso: con tutta la forza che aveva sferró un calcio a Mrs Howers, che le lasció il piede e si toccó il naso.
Fu questione di secondi. Shennylyn si buttó in avanti e, una volta recuperato l'equilibrio, corse via. Dietro di lei all'inseguimento partirono tutti tranne Mrs Howers, che li incitava, e i bambini più piccoli.
Sperando in una via d'uscita Shennylyn si infiló nel bosco, gli Howers alle sue spalle guadagnavano terreno, lanciando urla belluine. Ogni tanto si voltava per vedere se fosse ancora inseguita e in un primo momento guadagnó terreno e quasi la salvezza ma, man mano che lei sentiva crescere la stanchezza Cavil, Antonia e Davilia accorciarono la distanza e si avvicinavano sempre più finché Davilia, con un balzo felino, riuscí ad afferrarla e a bloccarla.
"Inutile che scappi. Sei nostra adesso", ghignó e le morse una guancia così a fondo da strapparle la carne. Rise masticando mentre il sangue le gocciolava dalla bocca.
Gli adulti arrivarono e si complimentarono con loro, il padre di Cavill sollevó Shennylyn e se la sistemó come se fosse stata un cervo.
Risalirono fino al pianoro con la loro "preda", Shennylyn, all'inizio aveva provato a liberarsi dalla robusta stretta dei tre ragazzi ma dopo alcuni vani tentativi aveva rinunciato - almeno per il momento, si ripeteva - a combattere e gemeva appena per il dolore alla guancia. Sentiva bruciare le lacrime ma non scendevano
Cominciava ad intuire quale sarebbe stata la sua fine.
"Tutto questo correre mi ha fatto venire fame", commentò George avvicinandosi a lei e prendendole un braccio. Da una tasca cavó un coltellino da campo e lo fece scattare. Incise veloce il suo braccio e si mise in bocca un quadratino nemmeno fosse stato un pezzo di cioccolato, mugugnando di giubilo. Shennylyn urló dal dolore e si mise a piangere. Rivoletti vermigli sgorgavano dalla profonda ferita e cercó qualcosa con cui almeno fermare il sangue, ma si accorse di non avere un fazzoletto e anche il suo nuovo zaino era sparito.
Cercó di chiedere spiegazioni ma appena aprí la bocca Cavill la bació addentando la sua lingua, tiró finché gliela strappó lasciandola sanguinante e gorgogliante. Con una certa soddisfazione Cavill masticó la lingua a lungo, grufolando quasi.
Con occhi sbarrati cercó di chiedere aiuto a Mrs Howers ma invece di trovare comprensione rimedió solo un altro morso, sull'altro braccio. Unico moto di pietá fu metterle in bocca un grumo di cotone per fermare l'emorragia.
Man mano che pezzi di carne le venivano strappati Shennylyn sentiva venir meno le forze ma una parte del suo cervello era vigile e pronto ad agire appena qualcuno si fosse distratto, ma non fu mai lasciata sola.
Aveva sete ma il solo deglutire le faceva dolere ció che restava della sua lingua. Le appariva sempre più chiaro che non sarebbe sopravvissuta a quel pic nic.
Si aggrappava al desiderio di vivere ma per quanto lottasse sentiva la vita lasciarla. Con ogni morsino. Con ogni pezzettino di carne cavato dal suo corpo, mentre gli Howers seguivano non sapeva quale rituale.
Allargó le labbra in un doloroso sorriso: quei vecchi ipocriti non avevano indovinato ció che si celava dietro la riservatezza degli Howers. Non qualche stupido piccolo reato. Non qualche sciocca mancanza. Avevano sostenuto che erano dediti alle più classiche depravazioni che la corrotta mente occidentale sapeva partorire mentre loro, più candidamente ed innocentemente, avevano invece scelto quella vituperata abitudine che veniva relegata certi popoli selvaggi.
Se non fosse stata tragicamente coinvolta avrebbe trovato la cosa sadicamente divertente.
Intorno a lei, ormai persa in una filosofica follia su quanto morale o meno avrebbe potuto essere quel comportamento, gli Howers si preparavano per il clou del loro pic nic.
La fiamma del barbecue si alzó gagliarda nel cielo serale e un largo involucro di cuoio fu appoggiato al tavolo di legno. Aprendolo riveló un inteno di velluto viola e un luccicante set di lame che avrebbe fatto la felicitá tanto di un maestro di chirurgia quanto di un mastro macellaio.
Una quasi incosciente Shynnelyn fu presa di peso e appoggiata alle assi. Mrs Howers si inginocchió alle sue spalle e le fece appoggiare la testa sulle sue ginocchia. Le accarezzó i capelli arruffati e sporchi di terra e sangue. "Calma bambina. Calma. É quasi tutto finito", le sussurró con dolcezza. La tiritera blandí Le ultime resistenze della coscienza di Shynnelyn, che cadde in una sorta di torpore ipnotico.
Fu allora che la mannaia caló prima sulla gamba destra, sotto il ginocchio. Poi su quella sinistra. E fu allora che urló, il corpo scosso dal rimbombo dei tagli, i nervi tranciati che inviavano messaggi al cervello. Impazzí. Dalla gola uscí un urlo soffocato, più simile ad un guaito che ad un grido umano. Cercó nuovamente di mettersi in piedi. Ma uno spiedo la trafisse, tanto da bloccarla a terra ma senza causarle la morte. Legacci di pelle le furono legate ai moncherini per impedire al sangue di defluire.
La nenia di Mrs Howers ricominció ad intorpidirle orecchie e mente.
Intorno, intanto, si diffondeva un odore di carne bruciata mentre le ragazze, con indosso lunghe vesti, danzavano ossessivamente come in un rito orgiastico.
La carne cuoceva. Una pioggerellina pesante cominció a scendere, inumidendo l'aria e bagnando il viso pallido di Shynnelyn, la sua pelle a brandelli, ció che restava del suo corpo martoriato.
Sopra il barbecue e la tavola furono sistemati due raffazzonati gazebo, in modo da non guastare la festa.
La voce aveva perso potenza e ad ogni nuovo fendente che s'abbatteva su di lei usciva sempre più gioca e rauca. Finché all'ultimo tacque.
Sulla brace s'arrostivano le sue dita, braccia, filetti ricavati dal suo addome, Le sue cosce ridotte a spezzatino.
"Cavill, per favore seppellisci la tua deliziosa amica da qualche parte nel bosco. Poi torna. É pronto in tavola e non vorrai mangiare freddo".