mercoledì 27 novembre 2013

GHOST STORY


Non avendo molto da fare, spesso mi ritrovavo a guardare fuori dalla finestra della mia stanza, colto da una malinconia e una nostalgia mai conosciuta prima per la vita. L'origine di questi miei sentimenti era dovuta al fatto che da qualche settimana ero ricoverato in questo sanatorio, nei pressi di questo villaggio di montagna.
Mi trovavo in questa amena residenza per curare una brutta tosse, che da mesi mi angustiava. Era stato il mio medico, e buon amico, D. a a consigliarmi un periodo di riposo. Mi aveva assicurato che l'aria fresca avrebbe giovato alle mie malandate vie respiratorie.
All'inizio del mese precedente mi ero presentato, con una lettera di ammissione firmata proprio da D., al Direttore. Giá dal primo pomeriggio potei sottopormi alle cure necessarie per rimettere in sesto i miei bronchi.
Al terzo piano, dove mi avevano sistemato, non vi erano molti altri ospiti: un gruppetto di uomini robusti, che seppi - da una solerte infermiera - essere minatori ospitati per curare uno stadio iniziale di silicosi.
Di notte li potevo udire colpi di tosse con in tono cosí grave da far sembrare la mia quella di un bambino.
Dopo la visita di un bravo medico, mi hanno prescritto una serie di inalazioni, che dovrebbero favorire la mia guarigione.
Come un bravo scolaretto ho eseguito quanto ordinatomi, notando un piccolo miglioramento nelle mie condizioni: sia nella respirazione sia nella dolorosa sensazione che attanagliava il mio petti e causata dagli spasmi causati dalla tosse.
Se continuassi su questa via di guarigione, potrei far ritorno a casa giá il mese prossimo. Durante uno dei nostri ultimi colloqui, il Direttore si raccomandó che smettessi di fumare e di badare meglio alla salute dei miei polmoni.
Senza darmi il tempo di rispondere mi accompagnó alla porta del suo studio e mi fece uscire. Rimasi nel corridoio rimuginando sulle sue parole, con un senso d'angoscia profonda nell'animo.
Mi avviai verso la mia stanza da letto, pronto a cambiare in modo radicale le mie abitudini e cominciare una vita senza vizi. Non solo avrei smesso con il tabacco ma anche con il bere e il far tardi la sera. Avrei, inoltre, fatto lunghe passeggiate per ritemprare corpo e spirito.
Ero in procinto di entrare, quando in fondo al corridoio scorsi una giovane donna, in piedi vicino alla finestra. Sembrava intenta a bearsi dello splendidl panorama della Valle sottostante.
Convinto che fosse una nuova ospite, mi avvicinai per presentarmi e darle il benvenuto.
Man mano che mi lasciavo la porta della stanza assegnatami alle spalle, ai miei occhi l'immagine cominciava a sbiadire e quando raggiunsi la finestra, ero solo a guardare il panorama.
Mi sono sempre considerato un uomo di buon senso e ragionevole, ma in quell'occasione non seppi trovare una spiegazione logica. Con la mente eccitata da questo evento, tornai verso la camera da letto. Prima di entrare lanciai un'altra occhiata. La donna era lá, il viso rivolto alle montagne e ai boschi. Nel mio animo insorse un panico mai provato prima di allora e aprii con veemenza la porta. Mi catapultai all'interno, colto da un violento attacco. In qualche modo riuscii a raggiungere il letto e a sdraiarmi. Tremando per la tosse e la paura chiamai un'infermiera. Quando infine giunse, avevo recuperato un po' di calma ma ero pallido e febbricitante.
Non ebbi il coraggio di dirle cosa avevo visto ma la pregai di chiedere, a nome mio, un colloquio con il Direttore.
Quello stesso pomeriggio mi ritrovai nello studio, vergognandomi appena un poco raccontai quanto mi era accaduto. L'uomo di scienza ascoltó con attenzione. "Avete visto Aliseia. Altri pazienti prima di voi sostengono di averla veduta, a quella finestra". La sua voce, come l'espressione del suo viso era imperturbabile. "Se non sbaglio si é buttata giú da quella finestra qualche anno fa - aggiunse -. Suo marito e alcuni suoi parenti erano morti in un incidente. Lei era stata portata qui perché l'aiutassimo a superare il trauma. Dopo due giorni si buttó, proprio da quella finestra".
Sentii in brivido freddo percorrermi la schiena e la bocca farsi secca.
"Ora che vi osservo con attenzione - proseguí - voi assomigliate molto al marito di Aliseia".
Si alzó e da un cassetto dello schedario entrasse una cartella, da cui tiró fuori una fotografiain bianco e nero. Me la porse. Raffigurava un uomo giovane, seduto su una panchina insieme ad una donna. Ella indossava un abito identico a quello della mia apparizione.
Osservai lui, fu come guardarmi allo specchio. Stessi capelli, baffi sottili, sopracciglia. Incapace di profferire alcunché mi congedai e tornai sui miei passi.
Come era possibile? Ero ben certo di non aver fratelli, o peggio in gemello da cui ero stato separato ancora in fasce. Forse era un mio sosia. Oppure io ero il suo.
Quella strana vicenda mi stava facendo impazzire.
Quando mi appressai alla porta della stanza la vidi di nuovo, mi guardava con dolcezza e mestizia.
Un sudore gelido mi fece accapponare la pelle e, veloce, aprii la porta. Mi chiusi dentro, sentendomi al sicuro.
Decisi di stendermi e cercare di riposare. Mi ripetevo che era tutto frutto della mia immaginazione.
Ebbi un sonno agitato e se sognai, al mio risveglio non riuscii a ricordare nulla. 
L'orologio segnava oltre le 11, l'ora di cena era trascorsa ma non avevo fame. Provavo in senso di inquietudine sempre maggiore. Come se in camera non fossi stato solo, temevo che quella figura di donna evanescente fosse riuscita ad entrare e ora attendesse, acquattata da qualche parte vicino al mio letto.
Per cercare di rinfrancare il mio animo accesi l'abat-jour sul comodino e afferrai il volume di poesie che mi ero portato per passare il tempo. Lo aprii si una pagina a caso e il mio cuore perse piú di un battito quando lessi il titolo "Aliseia".
Respirai lentamente, cercando di recuperare la calma e stupendomi come, dopo quello spavento, il dolore al petto, che mi aveva portato in quel luogo, fosse d'improvviso scomparso.
Per la prima volta da settimane stavo bene e sentii l'urgenza di abbandonare quel luogo di sofferenza. Dovevo subito avvertire il mio amico e farmi venire a prendere.
Mi alzai e recuperai la vestaglia, a passi veloci lasciai la camera e mi diressi verso la sala delle infermiere. Non trovai nessuno ma poco piú avanti trovai una rampa di scale, che non ricordavo di aver mai visto prima, e la percorsi alla velocitá massima consentitami dalle pantofole. Mi trovavo in un'ala del sanatorio dove non ero mai stato ma avevo bisogno di trovare un telefono.
Al termine mi trovai in un corridoio semi buio e in fondo vidi la reception e un telefono.
Mi avvicinai all'infermiera e le chiesi di poter telefonare. Quella mi ignoró e continuó a leggere la rivista che aveva davanti. Glielo domandai di nuovo, con maggior gentilezza ma ancora fece finta di non sentirmi.
Scocciato, afferrai la cornetta e composi il numero del mio amico e medico. La vidi sbiancare di colpo, balzare dalla sedia e correre via urlando che la cornetta si muoveva da sola. Cercai di non farmi influenzare dal bizzardo comportamento della donna e telefonai a D., che dopo un paio di squilli mi rispose. Gli riferii i progressi e il mio desiderio di tornare alla vita di sempre. Con la sua bella voce mi rispose che sarebbe passato il giorno dopo. Rincuorato attaccai e tornai sui miei passi. Avevo bisogno di parlare al Direttore per dirgli che me ne sarei andato il giorno dopo. Mentre procedevo incontrai personale che non avevo mai visto. Nessuno di loro mi degnó di uno sguardo o ricambió i miei saluti. Stupito ed irritato proseguii nella direzione da cui mi pareva di essere arrivato in quell'ala dell'ospedale.
Pensavo di risalire le scale e tornare al terzo piano, dove era la mia camera e l'ufficio del Direttore ma non trovai nulla. Il corridoio sembrava proseguire all'infinito. Sulla destra si diramava un secondo percorso e lo imboccai, un po' timoroso. Senza sapere come dopo una trentina di passi mi trovai nel familiare corridoio del terzo piano. Sulla sinistra la porta del Direttore. Senza bussare entrai e lo trovai alla scrivania. Senza preamboli gli diedi la notizia della mia imminente partenza. Avevo intenzione di esprimere le mie rimostranze per il comportamento poco gentile del personale quando mi volsi e la voce mi morí sulle labbra. In un angolo vidi la donna della finestra, Aliseia. Le parole della poesia mi sovvennero: "Aliseia, creatura di brezza e primavera/luce di gioia e eterna felicitá del mio cuore..."
Spostai lo sguardo da lei al medico e di nuvo a lei.
"Amor, amor mio. Insieme di nuovo, finalmente",  disse con una voce musicale, avvicinandosi. Mi ritrassi, ero incredulo. Non era vero, si trattava di uno scambio di persona.
Il dottore scosse la testa. "Capita che quando qualcuno molto attaccato alla vitarifiuti di prender coscienza della sua condizione di morto. Dovremo rimediare".
Aggiunse che i miei dolori e la mia tosse derivavano da quello.
Morto? Come facevo ad essere morto? Mangiavo, parlavo con le persone e poco prima avevo telefonato e parlato con il mio amico.
Il Direttore scoppió a ridere. "Questo piano del sanatorio é come un limbo. Il vostro corpo é nel sotterraneo. Quando la vostra coscienza si é risvegliata in questa forma, che vi sembra solida, siete giunto qui. Noi siamo qui per questo: accompagnarvi alla consapevolezza. E per questo abbiamo fatto venire qui la vostra Aliseia.
Urlai che non era possibile, che era un pazzo. Devi per uscire ma la porta era scomparsa.
Ogni fibra del mio essere continuava a dubitare delle parole dell'uomo, ma la mia mente cominciava a fornirmi immagini plausibili, a conferma di quella storia.
Mi accasciai su una sedia e mi arresi all'evidenza.

 Il mattino seguente il dottor D varcó la soglia del sanatorio, chiedendo del suo amico. Un'infermiera lo scortó al terzo piano, dove trovó il Direttore ad attenderlo.
"Brutte nuove - esordí -. Il vostro amico stanotte si é tolto la vita. Abbiamo trovato questo libro".
Il medico prese il volume e lo aprí, all'interno trovó un biglietto in cui il suo amico, in poche righe, diceva di dover tornare dalla sua amata Aliseia.
"Chi sarebbe?", domandó perplesso. Il Direttore gli indicó la poesia e il medico lesse il titolo, "Aliseia", poi scorse i versi e voltó pagina.
Trovó un breve scritto in cui si diceva che l'autore era morto in circostanze misteriose mentre si trovava in in luogo di cura.
"Per voi é ora di andare, qui é tutto a posto", lo invitó il Direttore.

L'uomo, pallido e spaventato dall'intera situazione, si fece condurre verso l'uscita, non resistette e si voltó indietro: vicino alla finestra in fondo al corridoio, per una frazione di secondo, vide il suo amico, abbracciato ad una donna, con il viso rivolto alla vallata.

venerdì 15 novembre 2013

I KILLED JACK THE RIPPER

Appena arrivato alla sede della polizia di  Whitechapel un solerte poliziotto aveva consegnato all’ispettore Frederick Abberline una busta. Era una semplice busta bianca, il suo nome spiccava sul retro, vergato con una calligrafia elegante e decisamente femminile.
Abberline rigirò la missiva tra le mani, chiedendosi chi potesse avergli scritto. Non c’era timbro postale quindi doveva essere stata consegnata a mano Richiamò il giovane agente che gliel’aveva data e gli chiese chi fosse il latore della lettera. Quello si inchinò con rispetto ma non rispose, rimanendo a fissare l’ispettore con aria indecisa. «Avanti ragazzo, non ho tutto il giorno. Ho un assassino da prendere...», lo incalzò Abberline, infastidito. La notizia dell’ennesimo omicidio compiuto da Jack lo squartatore campeggiava sulle prime pagine dei giornali di tutta Londra. Da Buckingham Palace uscivano richieste di risolvere il caso ormai a scadenza giornaliera e l’ansia aleggiava per tutto il distretto di Whitechapel. Le prostitute avevano paura e chiedevano protezione, i membri delle gang del quartiere si trovavano in difficoltà e pretendevano che la polizia risolvesse quel mistero, per loro era una questione di affari. 
«Avanti, parla», urlò l’ispettore e l’agente, non doveva avere più di vent’anni, arretrò di un paio di passi, spaventato. «La busta è stata lasciata all’ingresso, con la richiesta di consegnarla a Voi al vostro arrivo. L’hanno portata, ieri notte, molte ore dopo che ve ne eravate andato. Io l’ho trovata stamattina all’inizio del turno, non so chi l’abbia portata e chi ha preso la busta è andato a casa», biascicò il ragazzo, con voce strozzata. «Andate. andate», lo invitò Abberline con un gesto stizzito della mano. Quello non se lo fece ripetere e letteralmente scappò al suo posto.
L’ispettore emise un gemito. Il caso di Jack era il peggiore della sua carriera e fino a quel giorno non era riuscito a trovare un indizio valido che lo portasse verso un nome che desse un volto al misterioso assassino di derelitte. Decine di sospetti, tra i quali anche il Duca di Clarence, erano stati sottoposti fino a pochi giorni prima alla sua abilità negli interrogatori ma, in un modo o nell’altro, tutti i sospettati erano risultati estranei agli eventi delittuosi. In alcuni casi era risultato che non fossero nemmeno a Londra al momento in cui i delitti si erano consumati.
Osservò nuovamente la lettera, alla fine afferrò il tagliacarte e l’aprì. All’interno trovò un solo foglio, scritto con la medesima calligrafia del suo nome. In alto a destra era indicata la data, il nove novembre, due giorni prima. La notte in cui Jack aveva massacrato Mary Jane Kelly nella sua miserabile stanzetta affacciata su Miller’s Court, non lontana da Dorset Street nel vicino Spitafields. 
Il massacro si era consumato nelle prime ore del mattino, aveva ipotizzato il medico intervenuto in loco per visionare ciò che restava della venticinquenne irlandese, ma la scoperta era avvenuta nella tarda mattinata. Di tutti quelli compiuti da Jack quello di Mary Kelly era stato il più efferato: appariva chiaro che l’assassino aveva avuto tutto il tempo di tagliare la gola alla ragazza, aprirle la cassa toracica, estrarre il cuore e dedicarsi ad altre molteplici mutilazioni. La donna era stata identificata dal suo padrone di casa, che aveva spiegato di averle affittato la stanza un paio di giorni prima. Era stato l’uomo a trovarla, quando era andato a riscuotere la pigione. Controvoglia aveva raccontato quello che sapeva ai poliziotti, quindi si era dileguato. Avevano lavorato per tutto il giorno e buona parte della notte, molti uomini erano stati usati per fare un cordone e tener lontani i curiosi, accorsi per assistere all’ennesima vittima dello Squartatore. La missiva non aveva intestazione, ma esordiva con una frase che fece fermare il cuore in petto ad Abberline. 
«Ho ucciso Jack lo Squartatore, secondo quanto le avevo promesso in occasione del nostro ultimo incontro. Ho tallonato il Nostro Amico Assassino, in attesa di coglierlo all’opera e così ho fatto. L’ho trovato presso il letto di quella donna e l’ho affrontato, combattuto e sconfitto. Non tornerà mai più dall’Inferno dove l’ho spedito...». 
Nelle poche righe seguenti pregava l’ispettore di tenere per sé il modo in cui si era giunti alla dipartita di Jack ma di rilasciare ai giornali, se proprio lo riteneva necessario, la notizia che l’omicida delle derelitte di Whitechapel era stato tolto di mezzo definitivamente e che l’East End poteva considerarsi un luogo sicuro, almeno per quel che riguardava Jack.
In fondo, con uno svolazzo elegante, la firma. L’ispettore sgranò gli occhi quando lesse il nome. Poi scattò in piedi, prese soprabito e cappello e corse fuori. In tasca gli sembrava che la lettera pulsasse, come un cuore appena cavato dal petto che ancora non sa di non dover più battere. Aveva bisogno di avere delle conferme su ciò che la lettera raccontava.
Nella sua mente si affollavano pensieri contrastanti. Fermò un tassì e diede un indirizzo al vetturino poi si accomodò. Mentre lasciava Whitechapel, diretto verso una magione nei quartieri alti, una miriade di domande si affollavano sulle sue labbra e sperava di trovare una risposta. Non ci volle molto tempo perché si trovasse davanti ad un portone di legno spesso, con un battente dall’inquietante forma di drago di metallo argentato.
L’Ispettore riandò con la mente ad un incontro, avvenuto non molti giorni prima, che aveva avuto inizio con uno strano biglietto ed invito proprio in quella casa.
Abberline trattenne il fiato, in attesa che qualcuno della servitù gli venisse ad aprire la porta, sperando che l’autrice della lettera fosse in casa, cercando di ricordare se la prima volta si erano incontrati di giorno o verso sera. 
L’uomo si guardò intorno, la via era quasi deserta, eppure percepiva la sgradevole sensazione di essere osservato ma senza riuscire a trovarne l’origine. Si diede dello stupido, era a tal punto in ansia per il caso dello Squartatore da essersi convinto di avere sempre gli occhi puntati addosso. 
«Devi darti una calmata, vecchio mio», si disse cercando di non lasciar trapelare il disagio che l’attesa gli stava causando. Sbatacchiò il battente una seconda volta, con maggiore forza, sembrava che la dimora fosse deserta ma almeno una cameriera doveva esserci, si disse. Alla fine udì qualcuno che si avvicinava alla porta a passi veloci. 
Quel breve lasso di tempo in cui Abberline rimase fuori dalla casa londinese di Lord Alvers gli bastò per analizzare di nuovo l‘incontro con l’ospite dell’uomo, la proposta che lei gli aveva fatto e i fatti che ne erano seguiti. Fatti che avevano portato alla sua presenza alla porta in quel gelido 11 novembre.
Per un momento pensò di andarsene e lasciar perdere, ma il suo desiderio di sapere la verità, la sua necessità di avere la certezza che Jack The Ripper fosse stato tolto di mezzo per sempre era più forte del buonsenso e della sua logica da poliziotto.
Quando infine la porta si aprì e si trovò di fronte al maggiordomo in livrea nera, sorrise e si presentò, chiedendo espressamente dell’amica di Lord Alvers e finalmente fu fatto accomodare in casa.

London, September 1888. 

Per l’Ispettore Frederick Abberline erano giorni difficili, trascorreva le ore del giorno e della notte immerso in un’inquietudine vischiosa. Il discorso della giovane dama gli rimbombava senza tregua in testa. «Posso liberarvi del vostro Problema. Con riserbo. Nessuno lo verrebbe a sapere e voi sareste encomiato per il servizio resto alla Corona. Se sperate di risolvere questo caso senza il mio aiuto, siete degli illusi: chi compie gli omicidi è fuori dalla vostra portata. Io sono in grado di mettere fine a questo incomodo. Conosco il modo. Conosco chi si cela dietro la maschera dello Squartatore. Comprendo che per voi sia difficile credermi, vi lascio tutto il tempo di cui avrete bisogno per prendere una decisione. Vi avverto che tutto gioca contro di voi e vi consiglio di riflettere in fretta. Il tempo scarseggia e questo vostro Assassino potrebbe colpire da una notte all’altra, siete avvertito».
Il suo «Problema», un eufemismo. Il suo non era un problema, era una catastrofe di proporzioni epiche. Qualcuno si stava divertendo a massacrare e mutilare le sventurate di Whitechapel. Non pago, l’autore si era dileggiato della Metropolitan Police, inviando ai giornali lettere denigratorie. 
E in tutto questo, lui si trovava nell’occhio del ciclone: dagli uffici dei suoi capi a Scotland Yard fino agli appartamenti della Regina Victoria gli occhi erano puntati su di lui.
Aveva parlato con la donna il dodici di settembre, quattro giorni dopo che il corpo di Annie Chapman era stato rinvenuto nel cortile posteriore del numero 29 di Hanbury Street a Spitafields. Dalle testimonianze raccolte nei giorni seguenti aveva scoperto che intorno alle 5.30 di quel mattino la donna era stata vista parlare con un uomo, vestito di nero e con indosso mantello e cappello. Elementi che ne rendevano impossibile l’identificazione. Anche se il testimone sosteneva che gli abiti gli erano apparsi di un certo pregio e che il cappello era a cilindro e sembrava costoso, l’Ispettore non aveva molte possibilità di trovarlo. Nonostante la sua pessima reputazione centinaia di facoltosi londinesi sceglievano le squallide strade di Whitechapel e i suoi locali fumosi come meta per le loro scorribande notturne, alla ricerca di qualche brivido o di qualche ora di amore a poco prezzo.
Poi aveva ricevuto il biglietto della misteriosa dama, in cui lo invitava per un tea, quella sera. All’inizio non aveva compreso, ignorava chi fosse e più per curiosità che altra ragione, aveva accettato. La prima volta che l’aveva vista aveva pensato che fosse uno scherzo, una ragazzina che voleva prendersi gioco di lui e della polizia. Senza scomporsi la fanciulla l’aveva fatto accomodare e gli aveva fatto quella proposta, sorridendo in modo amabile. La sua voce era ferma, parlava con un lieve accento dell’est Europa. Più di tutto, l’Ispettore Abberline era rimasto colpito dagli occhi della misteriosa dama: lo guardavano con una serietà che mal combaciava con l’aspetto estremamente giovane. Anche le sue parole denotavano una conoscenza del mondo più simile a quella avrebbe potuto avere una donna adulta invece che una ragazzina poco più che adolescente.
Il rompicapo si infittiva e a lui mancavano sempre troppi pezzi per completarlo. Aveva sguinzagliato i suoi migliori agenti, sperando in un colpo di fortuna. Aveva cercato di isolare il più possibile le notizie sui giornali ma la diffusione del rinvenimento poco distante di un pezzo di grembiule di cuoio da macellaio aveva eccitato gli animi, già resi animosi dagli eventi di quell’inizio autunno. Così tutti gli agenti che non erano stati impegnati nelle indagini sull’assassino delle sventurate, si erano ritrovati a schedare quegli uomini che se l’erano presa con ebrei e macellai. In tutto quel trambusto aveva cercato di ignorare le parole di quella che appariva come una giovane nobildonna, senza dubbio annoiata della sua comoda esistenza.
Una parte di lui, quella razionale, ripeteva che era una follia accettare quell’idea. Un minuscolo angolo del suo cervello, invece, gli diceva di non rifiutare quella proposta di aiuto, perché c’era qualcosa di strano in quegli omicidi. Qualcosa di non umano. Quella consapevolezza, che non poteva certo condividere con i suoi superiori e tanto meno con i subalterni impiegati nelle indagini, lo metteva in uno stato d’ansia.
Le indagini erano ferme, non aveva più idee. Aveva perlustrato ogni angolo di quel fetido buco che era whitechapel ma niente di concreto ne era emerso. Parole confuse, racconti smorzati dalla paura. Aveva seguito ogni pista, a suo dire, possibile ma non aveva ricavato alcun risultato.
Quando nella notte del 30 settembre il misterioso Jack The Ripper - come si era firmato nelle missive ai giornali e alla polizia - ne aveva uccise due in un colpo solo: la quarantaquattrenne Elizabeth Stride e la quarantaseienne Catherine Eddowes Abberline aveva capito che quel caso non si sarebbe risolto facilmente. Il primo ottobre, già sorto sotto il peggior auspicio, era stato caratterizzato dalla consegna di una cartolina, firmata «Saucy Jack», in cui egli rivendicava il doppio evento. Il suo già difficoltoso lavoro era stato peggiorato dal ritrovamento del brandello di grembiule e dalla scoperta del graffito, poco lontano dal cadavere. Il fatto che fosse stato fatto cancellare dal suo capo non aveva migliorato la situazione. 
Quello stesso pomeriggio gli era stato recapitato un altro biglietto da parte della giovane donna, in cui lo invitata a presentarsi al medesimo indirizzo della precedente occasione, al tramonto.
Calava un sole autunnale sbiadito, dietro il profilo altero della House of Parliament, quando l’Ispettore Abberline bussò alla porta principale di una graziosa palazzina situata in una delle più belle vie di Londra. L’edificio, al pari di quelli vicini, trasudava lusso e ricchezza fin dall’esterno, facendo sentire il poliziotto - ex orologiaio - a disagio. Un maggiordomo emaciato lo fece accomodare e si congedò, lasciandolo nell’ingresso. Pochi minuti dopo la sua ospite comparve, cogliendolo ad ammirare il dipinto di una donna velata. «Lieta che abbiate accettato questo mio nuovo invito, Ispettore», esordì la giovane donna, con un sorrisetto. Con la mano guantata gli fece cenno di seguirla e lo precedette in un salottino, illuminato appena. La dama gli indicò una poltrona, quindi a sua volta si accomodò sul divano di fronte a lui. Dalla prima volta in cui si erano incontrati sembrava diversa, meno ragazzina e più donna ma l’uomo non riusciva a capire da cosa quel cambiamento fosse provocato. L’abito che indossava, nero e alla moda, era simile a quello dell’altro incontro. I capelli erano ben acconciati e circondavano il viso candido di riccioli rossi. Eppure all’Ispettore sembrava che fosse cresciuta di una decina d’anni nell’arco di quelle poche settimane. 
Ella attese, le mani appoggiate in grembo e sorridendo. Abberline si sentiva in imbarazzo, tossicchiò e infine parlò. Negli ultimi giorni la pressione era aumentata. Whitechapel, già di per sé non un quartiere tranquillo, si era trasformata in una bomba pronta ad esplodere. La paura serpeggiava tra i vicoli e la polizia faceva del suo meglio per tranquillizzare la popolazione.
Da parte sua si sentiva le mani legate...aveva interrogato decine di sospetti, ma nessuno di loro sembrava possedere alcuna caratteristica dell’efferato maniaco. «Grazie di avermi ricevuto, Milady. Sono qui per avere un chiarimento sulla vostra proposta», disse Abberline, cercando di mantenere un contegno il più possibile formale e sperando di non offenderla. Aveva intuito che non era donna dal carattere facile, ma in un modo differente da quello delle donne dell’alta società.
Da parte sua la dama non si scompose, continuò a fissarlo con occhi che davano l’idea di poter penetrare il buio. «Comprendo la vostra perplessità, Ispettore. Vi assicuro che io sono la sola in grado di poter eliminare il vostro Jack, nell’immediato. Riesco a fiutarlo, se mi passate il termine poco nobile». Rise e Abberline a quel suono si sentì accapponare la pelle. Stava per dire qualcosa ma l’arrivo inaspettato di una cameriera con il tea lo distrasse. La donna servì l’uomo e poi porse alla dama un calice, ricolmo di un denso liquido rosso. «Grazie Emagda», disse lei sorseggiandolo piano. «É delizioso. Ringraziate il buon Stemmar per l’ottimo lavoro svolto, come sempre». 
Si volse verso l’Ispettore, alzò il calice e ne bevve un ulteriore sorso. Gli occhi assunsero un’espressione di beata soddisfazione. L’ispettore si chiese cosa fosse e lei, strizzandogli l’occhio, rispose «Non siete pronto per essere messo a parte dei miei segreti, Ispettore». Abberline dovette ricorrere a tutto il suo sangue freddo per non fare un balzo sulla poltrona. 
La dama indicò il piattini ricolmi di sandwich e pasticcini, «Prego servitevi, ho dato ordine di prepararli apposta per voi. I vostri preferiti». E sorrise di nuovo. L’uomo sentì una sensazione di freddo invaderlo: quei sorrisi erano bellissimi e il viso della fanciulla era stupendo ma erano sorrisi non di gioia ma di cattiveria, con un che di crudele che si sprigionava dagli angoli della bocca rossa. O forse era tutta quella situazione che lo rendeva nervoso e gli faceva immaginare cose che non erano.
«Spero che il tea sia di vostro gradimento», aggiunse lei riscuotendolo dai suoi pensieri. Abberline fece un cenno positivo e addentò un morbido panino ripieno di burro spalmato e cetrioli. Quella donna era piena di sorprese. Sapeva più cose lei sulle sue abitudini di quante lui fosse a conoscenza su di lei. «A tempo debito saprete, Ispettore». Nuovamente la voce femminile lo fece trasalire. Si chiese se lei potesse leggere nella mente e si diede dello stupido. Tornò a concentrarsi sull’espressione enigmatica della sua interlocutrice, intenta a sorseggiare la sua bevanda rossa e densa, con una luce di soddisfazione negli occhi.
«Parlatemi dei delitti». Era poco più di un sussurro ma ad Abberline sembrò che gli fosse stato urlato. «Non sono argomenti adatti ad una giovane dama», ribatté l’uomo di legge ma per tutta risposta lei scoppiò a ridere. «Vi stupireste nel sentire quelli compiuti da...», ma si interruppe e sorrise. «Mi servono informazioni, per capire chi fossero le vittime. Perché il nostro Amico Assassino ha scelto loro». Con un sospiro l’Ispettore raccontò a sommi capi alcuni particolari degli omicidi, osservando di sottecchi le reazioni di lei. Di fronte a lui la giovane non si scompose nemmeno nell’udire le parti più cruente. Anzi, sembrava interessata proprio a quei punti in cui il racconto sprofondava nell’orrore più cupo. «Prima di procedere alle mutilazioni addominali - illustrò Abberline - Jack ha tagliato loro la gola. Ad eccezione della Stride, abbiamo ipotizzato che sia stato interrotto, tutte hanno subito l’asportazione di almeno un organo interno e in alcuni casi dei genitali». L’espressione della giovane si fece pensierosa. «Il suo sadismo. Non è cambiato per niente in questi anni. Sembra solo che sia sprofondato ancor di più nella sua stessa follia», commentò la misteriosa dama. «Prego?», domandò con stupore il poliziotto. 
«Il Vostro Jack è sempre stato un sadico, non si è improvvisato in questi ultimi mesi. Vanta una carriera da omicida per tutta Europa, non solo sui campi di battaglia. Fino ad ora aveva preferito agire nell’ombra e in segreto. Non riesco a comprendere cosa ora invece lo spinga a volere che tutti sappiano che è stato lui - gli rispose con candore la sua ospite -. Ama divertirsi con le sue vittime, gli è sempre piaciuto giocare...e taglia loro la gola, ritengo con una precisione degna di un chirurgo, per nascondere altri suoi gusti...Penso che dovrete darmi la possibilità di vedere uno dei corpi. Stasera sarebbe l’ideale...datemi giusto solo il tempo di cambiarmi. Non sarebbe opportuno per me farmi vedere in queste vesti in giro per gli obitori, attirerei l’attenzione...Fate chiamare una carrozza». Abberline non riuscì a protestare che quella era già sparita, come se si fosse volatilizzata. L’aria era ancora pervasa dal suo profumo.
Imbarazzato l’uomo si alzò, recuperò il proprio mantello e uscì dal salottino, cercando un qualunque membro della servitù per farsi chiamare una vettura. L’idea gli sembrava stupida ma non riusciva ad opporsi ad essa: come se la sua volontà fosse diretta da qualcun altro. «Sei uno stupido, Abberline», si disse. Trovò il maggiordomo e lo pregò di chiamare una carrozza, quello rispose, con voce atona «Già fatto». Un brivido freddo corse lungo la schiena del poliziotto.
Non dovette attendere molto: la dama comparve accanto a lui. Si accorse solo in quel momento della sua effettiva altezza, lo superava di qualche pollice. Indossava un largo cappello che ne teneva celato il viso e i capelli. Sopra gli abiti maschili aveva sistemato un lungo mantello nero.
«Andiamo», a lunghe falcate lo precedette fuori. L’aria era fredda e sbuffi di fumo si confondevano con lo smog provocato dalle ciminiere. «Serata ideale per uscire», commentò lei aprendo la portiera della vettura e scomparendo all’interno. Abberline la raggiunse di corsa e diede al conducente l’indirizzo del London Hospital, dove le sventurate erano state portate per l’autopsia.
Se erano fortunati sulla Eddowes il medico aveva già effettuato l’autopsia, altrimenti avrebbero dovuto attendere.
Il Big Ben suonò le 11 quando la carrozza si fermò davanti all’ingresso dell’ospedale. Abberline pagò e i due varcarono la soglia. Un’infermiera stava seduta dietro un bancone di legno. Mostrando il suo distintivo l’Ispettore chiese del chirurgo Thomas Bond. La donna chiamò una sua collega e le ordinò di accompagnare i due uomini dal medico. 
La giovane infermiera li precedette lungo un intrico di corridoi fino alla morgue, qui il medico aveva appena terminato un’autopsia su un giovane uomo ucciso con una coltellata all’addome.
«Dottor Bond, l’Ispettore Abberline per voi». Fece una riverenza e tornò alle sue incombenze. Bond si alzò dalla sedia e accolse Abberline e il suo accompagnatore con un sorriso, nonostante la stanchezza.
«Ispettore, cosa posso fare per voi?», domandò con curiosità.
Le parole uscirono dalla bocca dell’ispettore come se le stesse recitando a memoria, «Questo è un mio nuovo collaboratore alle indagini dello Squartatore. Potete mostrargli l’ultima vittima, in modo che si faccia un’idea del tenore degli omicidi». Bond sgranò gli occhi e osservò con maggiore attenzione lo sconosciuto che si accompagnava all’Ispettore. Era alto, il viso era nascosto in parte dalla tesa del cappello ma colse un brillio crudele negli occhi. «É di là», indicò con un dito la sala autopsie e si incamminò. «Preparatevi, è uno spettacolo che ha fatto cedere anche gli stomachi più forti ed abituati a questo genere di cose», aggiunse mentre facevano il loro ingresso nell’enorme sala sotterranea. Una fila di una decina di tavolacci in legno era disposta in due file parallele. Solamente quattro tavoli erano liberi. Il corpo della sventurata, uccisa nelle prime ore del mattino del 30 settembre in Mitre Square, si trovava sulla sinistra, tra quello di un giovanotto e di un ubriacone. «Ho già effettuato l’autopsia, sapendo l’importanza del caso e il resoconto dovrebbe essere già sulla vostra scrivania. L’ho inviato poche ore fa», aggiunse il chirurgo. «Non sono passato dal commissariato», rispose Abberline evasivo, «Lo leggerò domani mattina...Intanto se volete anticiparmi quanto avete potuto scoprire dall’esame del corpo della vittima, qualche indizio che potrebbe rivelarsi risolutivo».
La voce non ammetteva repliche e il medico si profuse in una dovizia di particolari non richiesta su ciò che aveva scoperto.
Da sotto il colletto della camicia si intravedeva l’incisione dell’autopsia, ancora rossa e appena al di sotto del segno lasciato dall’affilato coltello di Jack. Un’altra mutilazione inferta alla donna da un uomo, pensò la ragazza in abiti maschili lanciandole un’occhiata. Il puzzo nella sala era penetrante ma lei non vi fece caso, ciò che le interessava era osservare l’opera di Jack. «La testa, come negli altri casi, era quasi staccata dal collo - il medico spiegò indicando la lacerazione profonda -. Dopo questo gesto, ha spostato il suo interesse verso le sue parti basse, con particolare accanimento, mutilandola. Potrebbe essere una vendetta o un regolamento di conti o potrebbe esserci una qualunque altra spiegazione. La mano è la medesima dei precedenti omicidi. Il fatto di essere stato interrotto durante l’uccisione della Stride - Bond indicò il tavolo di fronte - può aver scatenato in lui un desiderio di rivalsa, portandolo quindi ad accanirsi con particolare violenza sulla Eddowes». 
Il giovane accompagnatore di Abberline si scostò dai due uomini e si chinò sulla donna, concentrandosi sulla sua gola. Sapeva cosa cercare. Bond lo guardò con curiosità, quel ragazzino aveva un sangue freddo che non aveva mai trovato in nessun poliziotto, prima di allora, e spesso nemmeno nei suoi colleghi. «Potreste scostare i lembi del colletto», gli domandò il giovane. Bond si adoperò per liberare l’area il più possibile quindi lasciò il giovane alle sue osservazioni e tornò da Abberline, che in un angolo della stanza fumava un sigaro.
Gli occhi si mossero veloci lungo la cicatrice del taglio alla gola, scorgendone le irregolarità volute. L’assassino aveva cercato di nascondere qualcosa con quel taglio. La sua vista acuta, infine, colse ciò che sta cercando. Troppo piccoli per essere visti durante un’autopsia veloce: due fori alla base del collo. Qualcuno l’aveva morsa e poi le aveva squarciato la gola per fare in modo di nascondere i segni. 
Si sollevò e raggiunse il medico e l’Ispettore. Sul suo viso si poteva leggere soddisfazione ma il sorriso era serio e venato da una punta di preoccupazione. Sembrava che quel giovane agente avesse fatto delle scoperte importanti nei pochi minuti in cui aveva osservato il cadavere. Senza dire una parola, il giovane strinse la mano al medico, una stretta forte che lasciò la mano di Bond dolorante, lo ringraziò del privilegio concessogli, quindi abbandonò la sala autopsie seguito da Abberline.
Si fecero chiamare una carrozza e attesero nella hall, in silenzio. Fecero ritorno alla palazzina e al salottino. L’Ispettore fu lasciato da solo mentre la sua ospite andava a cambiarsi, dopo pochi minuti fece il suo ingresso con indosso i medesimi abiti del loro incontro. Aveva un’aria preoccupata. 
Abberline attese spiegazioni ma lei lo congedò. «Devo pensare. La manderò a chiamare appena possibile», gli disse in modo sbrigativo accompagnandolo alla porta. L’Ispettore, invece che andare a casa, tornò al commissariato per leggere il referto dell’autopsia. Sperava che il medico avesse aggiunto qualche particolare ma dovette ricredersi. 
Non diceva niente di più di quello che già aveva saputo poco prima.
Dopo di allora nessun altro messaggio gli era stato recapitato, fino a quel pomeriggio dell’undici novembre e lui non aveva resistito ed era andato da lei. Come le altre volte.

Pomeriggio dell’undici Novembre 1888

Abberline fu ben felice di rivedere il maggiordomo in livrea nera e il viso smunto. Il vecchio si fece di lato per farlo accomodare. «Siete atteso», gli comunicò con voce profonda e grave.
L’Ispettore entrò, timoroso come le altre volte e di nuovo si trovò nello stretto ingresso della casa di Lord Alvers. La casa era immersa nella quasi totale oscurità e alcune lampade creavano isole di luce in quell’altrimenti oceano di buio. Il maggiordomo allungò un braccio e gli indicò la via, precedendolo di pochi passi. Lo condusse nel solito salottino con caminetto. Le persiane erano chiuse e pesanti tende di velluto erano tirate. Non uno spiraglio di luce avrebbe potuto penetrare nell’ambiente. Il fuoco scoppiettava, creando forme danzanti sulle pareti, e una lanterna ad olio spandeva la sua calda luce permettendo all’uomo di legge di avanzare senza correre il rischio di inciampare.
Una figura maschile era seduta su una delle poltrone, vicino al fuoco, e sembrava perso nella lettura di un vecchio volume ma quando Abberline fu più vicino egli parlò. «Aveva detto che sareste arrivato non appena ricevuta la sua lettera. Non la sopporto quando fa in quel modo». 
L’uomo si alzò, appoggiando sul vicino tavolino il libro, e tese la mano. «Ispettore Abberline», si presentò l’ospite e quello gliela strinse con un tale vigore da fargli scricchiolare le ossa. «Un piacere fare la vostra conoscenza, signor Ispettore. Ero curioso di incontrarVi. Negli ultimi due giorni ho sentito parlare molto di voi». Abberline sentì il viso avvampare a quell’affermazione. «Non arrossite per favore - aggiunse il suo interlocutore, serio -. Non sono così sicuro che avrete ancora voglia di sorridere dopo che avremo parlato». Frederick Abberline tremò, gli occhi del giovane uomo erano neri e con una luce crudele nel profondo: occhi da squalo, pensò il poliziotto, ricordando quando anni prima aveva visto i grandi animali marini all’acquario.
«Sono qui per...», non riuscì a terminare la frase e dalla tasca del cappotto estrasse la missiva, sventolandola davanti all’uomo. «Vi stavo aspettando. Come vi ho detto, Lei sapeva che sareste corso qui non appena letta. Venite con me, poi parleremo. Devo mostrarvi qualcosa»·
Lo superò, invitandolo a seguirlo. Si muoveva in quella quasi totale oscurità con sicurezza e condusse Abberline fuori dalla stanza e lungo un corridoio stretto e altrettanto debolmente illuminato. Durante il tragitto rimase in silenzio e, dopo non più di cinque minuti, si fermò davanti ad una porta. «Fate piano Signor Ispettore», gli disse, aprendo la porta e permettendogli di sbirciare all’interno. Si trattava di una sontuosa camera da letto e, per quello che la luce introdotta dallo spiraglio lo permetteva, Abberline poté vedere un grande letto. Le tende del baldacchino erano state lasciate aperte e vide la ragazza stesa, sotto le coltri. Sembrava addormentata ma dal pallore del suo viso avrebbe anche potuto essere morta.
Fece per dire qualcosa ma il suo ospite gli fece cenno di non parlare portando l’indice alle labbra. Chiuse la porta e si incamminò di nuovo lungo il corridoio, seguito da un sempre più perplesso ispettore. 
In pochi minuti si ritrovarono nel salottino, dove aveva incontrato la fanciulla le altre volte. Qualcuno, durante la loro assenza, aveva provveduto a ravvivare il fuoco e ad aggiungere un paio di altre lampade. Ora l’ambiente era decisamente più confortevole. 
Si accomodarono sulle poltrone e dopo pochi minuti una cameriera portò un grosso vassoio con il tea. «Ho pensato che avremmo chiacchierato più volentieri davanti a una tazza di tea», spiegò il giovane. Abberline annuì e prese la tazza che la servante gli porgeva: il liquido ambrato ondeggiava appena. Ne aspirò, con soddisfazione, l’aroma e sorrise al suo ospite, ma il misterioso giovane non lo ricambiò. 
Afferrò un calice e si apprestò a bere un liquido rosso, identico a quello che aveva sorseggiato la ragazza durante il loro ultimo incontro.
«Ora veniamo a noi» disse, posando il bicchiere, ormai vuoto, sul vassoio e fissando il suo occhio - l’altro era coperto da una benda nera e da un lungo ciuffo di capelli neri - sull’ispettore. Si appoggiò allo schienale e sembrò rilassarsi. «Penso che comprendiate la necessità della riservatezza in tutta questa vicenda. - proseguì lo sconosciuto, con un’espressione seria -. É stata ferita da quel pazzo sadico maniaco di Devan per aiutare voi, e meno male che prima di perdere i sensi è riuscita a mandarmi un messaggio mentale, in questo modo sono riuscito a trovarla e portarla, al sicuro, in questa casa. Non oso immaginare cosa sarebbe successo se fosse finita, in quelle condizioni di estrema debolezza, nelle mani di qualche mortale. Io non mi fido di voi umani». L’ultima frase fu pronunciata con una chiara nota di disprezzo.
Abberline non capiva ma si sentì in dovere di assentire.
«Questa è la fine della storia - aggiunse ancora lo sconosciuto -. Ditemi, piuttosto, come è cominciata. Come è successo che Lei si sia trovata ad affrontare in duello, di nuovo, Devan...o come aveva deciso di farsi chiamare lui Jack lo Squartatore. Sapevo che sarebbe successo, ma dopo tutti questi secoli pensavo che fosse ormai impossibile...E non sono stato in grado di impedirlo, o almeno di proteggerla». La sua espressione si oscurò di un velo di tristezza.
Tacque e per qualche minuto i due uomini rimasero in silenzio, scrutandosi a vicenda. Infine Abberline esordì «Lord Alvers...», ma prima di riuscire a proseguire nel suo racconto, fu interrotto dallo sconosciuto. «Perdonatemi ma io non sono il padrone di questa casa. Il vostro Lord Alvers ha ceduto al suo fascino e le ha permesso di risiedere in questa magione...come amica. Al momento il proprietario di questa pregevole dimora è lontano da Londra, ma le ha permesso di restare a sua discrezione. Per quel che riguarda me, potete chiamarmi Warfield».
L’ispettore era allibito, si chiese se dovesse emettere un mandato di ricerca per Lord Alvers e scoprire se era fuori Londra, come sostenuto da questo Warfield. «Potete stare tranquillo, Ispettore - gli disse il gentiluomo -. Se volete posso darvi l’indirizzo dove è ospite Lord Alvers e potrete controllare personalmente. Per nostra scelta né Lei né io siamo usi ad ammazzare i nostri amici, soprattutto se ci permettono di vivere in un lusso come questo». Indi gli fece cenno di proseguire.
«Mr. Warfield l’inizio di questa storia...il 31 agosto colui che in seguito si è identificato come Jack lo Squartatore ha ucciso una sventurata a Whitechapel. Alla fine del mese di settembre, in una sola notte, ne ha ammazzate due. Due sventurate dilaniate...Dopo questo duplice omicidio la vostra amica mi ha contattato e si è offerta di risolvere il problema. Sembrava sapere così tanto su questo personaggio che si firmava Jack lo Squartatore».
Tacque, pi riprese. La voce seria sembrava appesantita da un peso: «Forse se avessi accettato subito l’aiuto che lei mi stava offrendo, Mary Jane Kelly sarebbe ancora viva...».
Stava per proseguire quando la fanciulla fece la sua comparsa: indossava una pesante vestaglia di velluto nero, i capelli sciolti sulle spalle circondavano il viso, pallido e livido, ed erano di un rosso così intenso da sembrare fiamma viva. Warfield scattò in piedi e le si fece accanto. «Non dovevi alzarti, la ferita non è del tutto guarita...», le disse, accompagnandola verso il divano, con apprensione. Nonostante l’estremo pallore, dal suo corpo e dai suoi occhi si sprigionava energia e quella che Abberline interpretò come una forte voglia di vivere.
«Stai zitto! Non sto così male e non ne posso più di restare a letto, in quella stanza chiusa come se fossi in prigione», gli rispose secca, ma la voce suonava affaticata. «Inoltre il nostro caro Ispettore merita di sapere che fine ha fatto uno dei suoi più temibili avversari». 
Si sedette, sistemando la vestaglia come se fosse il più pregevole degli abiti. Il suo sguardo, al contrario della sua voce, guizzava dall’uomo di legge al suo fidato amico.
Warfield scosse la testa ed uscì dalla stanza, diretto chissà dove. «Il solito esagerato il buon Woulf. Non fateci caso, Ispettore, non è così noioso, di solito. É  preoccupato per me. Passa la sua non vita a preoccuparsi per me, come se ce ne fosse bisogno», sogghignò poi divenne seria.
«Potete dare alla città la notizia che lo Squartatore non importunerà più le prostitute di Whitechapel o di qualunque altro quartiere di questa splendida città», annunciò, infine, e si concesse un sorriso. Abberline colse il baluginio dei suoi denti bianchissimi, notando quanto quelle piccole perle fossero affilate. «Non preoccupatevi per me - aggiunse allargando le braccia per mostrare all’Ispettore che niente del suo bel corpo era stato deturpato -. Come vedete, non sono messa male come Woulf vuole credere. Basteranno un altro paio di giorni di riposo e starò bene. Non dovete fare quella faccia preoccupata. Non è colpa vostra, lo scontro tra Devan e me era solo questione di tempo». La sua voce ora aveva assunto un tono suadente e sensuale, che fece rizzare i capelli al poliziotto.
Abberline assentì e si morse il labbro. La curiosità di sapere come lei aveva potuto finire uno omicida come Jack lo divorava. Come già avvenuto durante i loro precedenti incontri, lei sembrò leggere nella sua mente. «Saprete tutto a breve, Ispettore», gli rispose.
Dopo poco minuti Woulf fece ritorno nel salottino, portava un vassoio con un calice di cristallo e una brocca con quello che sembrava vino. Quando la giovane vi gettò lo sguardo, gli occhi si accesero di un brillio famelico. Afferrò il bicchiere e la brocca, lo riempì e lo scolò in un sol sorso, poi si leccò le labbra e sorrise. «Molto meglio. Molto meglio». La sua voce sembrava un miagolio soddisfatto. Volse, a quel punto, lo sguardo verso Abberline. «Siete pronto per un viaggio all’Inferno, Ispettore?». Il tono delicato suonava glaciale.
L’uomo increspò le labbra ma non rispose, temeva ciò che ella stava per raccontargli. Woulf appariva nervoso, ma cercava di mascherare la sua inquietudine. Il solo pensiero di quello che avevano condiviso quella ragazza e Devan gli infuocava il petto di una gelosia mortale.
Lady Angeline si ravviò la chioma e diede inizio al suo racconto.
«Devo ammettere che pur essendo a Londra da qualche mese non ho avuto sentore della presenza di Devan fino a dopo la metà di settembre. Percepivo la sua vicinanza ma non abbastanza da cogliere con chiarezza le sue intenzioni. Se così fosse stato, me ne sarei occupata molto prima che giocasse al chirurgo pazzo con la prima delle vostre derelitte. Avrei chiuso i conti con lui e con ciò che c’era stato tra noi in modo definitivo. Un singolo duello mortale».
Tacque, lasciando decantare le sue parole nella mente dei due uomini. «Chissà poi tutta questa necessità di venire a Londra», bofonchiò contrariato Woulf. La giovane donna rise, «Divertimento mio caro, puro divertimento...mi annoiavo al castello. Ne converrai che ciò che Londra può offrire è unico al mondo». Woulf tacque ma Abberline poté cogliere la sua contrarietà sull’argomento.
«Lord Alvers - proseguì poi lei - fu così gentile da permettermi di risiedere in questa deliziosa casa e volle rifornirmi di tutto ciò di cui avrei potuto aver bisogno. Si offrì anche di farmi da chaperon alle occasioni mondane più importanti, presentandomi a molti suoi amici».
Si fermò un momento, allungò una mano e la mosse: la brocca si mosse da sola sollevandosi dal tavolino. Il liquido si versò nel bicchiere, poi il pregiato pezzo di cristallo tornò al suo posto. Il calice si alzò e si mosse lentamente verso Lady Angeline, che lo afferrò e ne degustò il contenuto con evidente soddisfazione.
«Niente di meglio», commentò prima di riprendere il racconto, reggendo ancora il bicchiere. «Il turbine della vita londinese mi ha inghiottita e, dopo secoli di quasi obbligata reclusione dal mondo, mi sono concessa un po’ di distrazione. Voi umani sapete essere divertenti quando volete, senza dubbio il gusto del vostro sangue ne guadagna». Woulf accusò la velata frecciata: lei se ne era andata per la sua poca fiducia verso il genere umano e la sua decisione di non abbandonare i confini del castello che era appartenuto alla famiglia di origine di lei e, in un certo modo, l’aveva costretta a fare altrettanto. Alla fine dell’anno precedente lei era fuggita, senza dargli notizia...fino all’alba del 9 novembre, quando l’aveva trovata ferita. Non aveva avuto il coraggio di dirle che era a Londra da qualche settimana e che la seguiva da lontano, ragione per cui era riuscito ad arrivare in tempo e a metterla al sicuro prima che il sole la dissolvesse in polvere. Forse lei lo sospettava ma se anche era così, non gliene aveva parlato.
Angeline gli lanciò uno sguardo di sbieco, osservando la sua reazione, poi proseguì. «Devan, il vostro Jack lo Squartatore, deve essere arrivato a Londra non prima della metà di luglio. Fu una notte fresca, un vento marino mi portò il suo odore. Non dovevamo essere separati da molte miglia, probabile che fosse già a Whitechapel. Nemmeno ora posso dirvi cosa possa averlo spinto a commettere quegli atroci omicidi, dopo essersi nutrito di quelle povere umane. Era un sadico e un pazzo, questa potrebbe essere la sola spiegazione. Posso ipotizzare che lo squarcio alla gola fosse un tentativo di nascondere i fori dei suoi morsi e il fatto che le abbia quasi decapitate potrebbe essere dovuto al fatto che temeva potessero risvegliarsi come vampiri a loro volta. Sul perché abbia infierito sul resto del corpo, non posso dirlo ma potete essere sicuro che l’opera era sua. Ho riconosciuto il taglio della sua lama. Come ho detto, amava giocare con voi umani, provava un senso di invincibilità di fronte alla vostra caducità e debolezza. Lo faceva sentire onnipotente».
«Devan era solo un folle», ringhiò Woulf e Angeline gli prese una mano. «Ormai è dissolto, le sue polveri si sono mischiate con lo smog di questa città. Non nuocerà più a nessuno, inutile continuare a parlare di lui».
Abberline ascoltava quello strano racconto, pallido e sudato. La nobildonna gli rivolse un sorriso, aperto ma crudele. Lui poté vedere i suoi denti lunghi e acuminati: questa volta mostrati senza pudore. «Woulf, fai preparare un brandy per il caro Ispettore, temo che potrebbe aver bisogno di essere rinfrancato, alla fine di questa storia». Woulf fece un cenno con il capo e si dissolse, sembrava ormai che le due creature avessero deciso di non nascondersi oltre. «Sembra un modo molto comodo di spostarsi», abbozzò Abberline, allargando le labbra in un sorriso forzato. «Molto comodo. É così che Woulf mi ha trovata e portata in salvo. Sarei divenuta cenere se il sole mi avesse colta su quel tetto, lontana da ogni riparo. La ferita inferta dalla spada di Devan era più profonda di quanto mi fosse apparso all’inizio e a fanciulle come me non fa bene perdere troppo sangue. Grazie agli dei oscuri guarisco in fretta. In ogni caso nonostante la ferita sono riuscita a trapassare il suo cuore. Questo l’ha quasi ucciso e questo mi ha dato il vantaggio, gli ho staccato la testa di netto. In pochi secondi si è dissolto in cenere e il vento l’ha portato chissà dove...Londra è ora al sicuro», rispose Lady Angeline, seria. 
Di lì a pochi minuti Woulf riapparve, reggendo in mano una bottiglia, contenente un liquido ambrato, ed un bicchiere di cristallo. «Direttamente dalla riserva personale di Alvers», disse, porgendoli ad Abberline, che se ne versò una generosa dose e la buttò giù in un sorso. L’uomo uscì, senza aggiungere altro. Abberline lo seguì con lo sguardo e poi tornò a guardare la giovane seduta di fronte a lui. «Woulf non ama sentir parlare di Devan», spiegò brevemente.
La donna accavallò le gambe, un lembo della vestaglia nera si scostò rivelando una gamba inguainata in quello che sembrava un paio di pantaloni neri e alti aderenti stivali neri.
Si sistemò una ciocca di capelli e riprese il racconto. «Fu solo dopo l’omicidio dell’8 settembre che compresi che il responsabile doveva essere Devan. Non solo lo sentivo sempre più vicino, sebbene fosse chiaro che il suo obiettivo non ero io, ma mi appariva chiara l’escalation della sua follia e il suo desiderio di morte. Per questo vi contattai: sapevo che non avreste mai avuto la possibilità di trovarlo ed eliminarlo, non senza il mio aiuto. Come già vi ho spiegato».
Il tono della sua voce assunse un tono che alle orecchie dell’Ispettore suonava mesto, era ben consapevole che se le avesse dato credito la prima volta che si erano incontrati l'assassino che si firmava «Jack» sarebbe stato fermato prima che compisse quella strage di sangue. Abberline abbassò gli occhi sentendosi in colpa. La sua riluttanza era costata parecchie vite.
«Devan era un vampiro, se non vi fosse ancora chiaro. Come lo siamo Woulf ed io. Creature della notte, tornate dalla tomba e che si nutrono di sangue umano per, diciamo, vivere». 
Quell’ultima affermazione causò un colpo di tosse violento all’Ispettore, che si era servito di una generosa seconda dose di liquore e aveva accostato il calice alla bocca. Il liquido si sparse intorno, macchiando il tavolino e il tessuto della poltrona. L’uomo si guardò intorno con aria contrita ma la dama rise. «Non crucciatevi, mio buon Ispettore, qualcuno della servitù pulirà». A sua volta bevve un secondo bicchiere di liquido rosso e per un momento una tonalità di rosa animò le sue guance altrimenti color avorio. 
«Devan apparteneva alla stirpe oscura», proseguì la fanciulla. Il tono della sua voce era diventato serio e grave. «Da secoli ci mischiamo a voi umani, sembriamo come voi ma non lo siamo. Ci nutriamo del vostro sangue e la vostra caducità è fonte di potere per noi».
Abberline ascoltava impietrito quelle rivelazioni incredibili. La misteriosa Lady Angeline sorrideva compiaciuta.
«Non dovete temere, la maggior parte di noi si confonde tra la folla, celati a voi mortali in piena vista. Sembriamo come voi ma non siamo come voi. Ci nutriamo del vostro sangue ma non sempre arriviamo ad uccidere. Quelli di noi che si comportano come Devan sono rari, in questi tempi così evoluti, non dovete temere che altri tentino di emularlo. La vostra bella città è al sicuro, ve lo posso assicurare».
Abberline ristette in silenzio, attendendo altre spiegazioni ma non ne giunsero altre. La vampira si alzò in piedi e l’uomo si incantò ad osservare l’eleganza. Lei si voltò verso di lui, «Ispettore non dovreste pensare certe cose di me». La voce tagliente aveva una nota allegra. L’Ispettore si alzò a sua volta, rispettoso nei confronti della dama. «Ora è meglio che voi andiate. Non manca molto all’alba e per me è giunto il momento di ritirarmi».
Una cameriera comparve alla porta del salottino e scortò Abberline fino all’ingresso e fu fatto accomodare all’esterno della casa di Lord Alvers. Volse il viso verso la magione, ad una finestra scorse il viso di Woulf, o Warfield, che lo osservava con espressione seria. L’uomo di Scotland Yard rabbrividì appena, mentre si incamminava verso casa. Era ancora sconvolto da ciò che gli era stato raccontato e rimuginava sulle rivelazioni che gli erano state fatte.
Se non avesse visto i prodigi di cui gli ospiti di Lord Alvers erano capaci, non avrebbe creduto alla possibilità che esistessero, in quel crogiuolo di modernità che era Londra, esseri non umani. Il poliziotto che era in lui ripeteva che quei due potevano rappresentare una minaccia a loro volta per la popolazione della città, al pari di Jack the Ripper. Una parte del suo io, invece, gli ricordava che solo grazie all’intervento di Lady Angeline il pericoloso omicida era stato fermato e la pace restituita non solo alla capitale ma anche alla sua vita. Aveva nei suoi confronti un debito di gratitudine, aveva salvato la sua carriera. Restava solo il problema di dare una spiegazione plausibile alla fine degli omicidi di Jack. Serviva alla popolazione, alla Casa Reale, a lui e agli altri poliziotti.Ci avrebbe pensato nei giorni seguenti, ora serviva un sistema perché le non fosse associata a quel caso.

«Saprò mantenere il segreto, non parlare di lei. Fare in modo che nessuno dei miei colleghi pensi che lei possa sapere qualcosa o essere in qualche modo implicata», rimuginò tra sé mentre si dirigeva verso un tassì. «In fondo nessuno sa niente di lei, appare solo come una visitatrice occasionale del commissariato. Tante donne passano dai nostri uffici tutti i giorni, cercando sostegno. Altre volte offrendolo. Nessuno la collegherà a me e al caso dello squartatore. E le sue lettere sono tutte in mano mia, basta che le distrugga e nessuno potrà a venire a conoscenza di questo suo coinvolgimento».

martedì 15 ottobre 2013

CRONACHE DALLA FORESTA DI KHUN



Nell'impenetrabile e vastissima foresta di Khun (che nessun geografo era mai riuscito a riprodurre su una mappa definendone i confini), tra tutte le creature leggendarie che vi avevano trovato rifugio nel corso dei secoli, l’unicorno era sempre stato considerato animale sacro ed intoccabile per eccellenza. Dagli uomini era indicato come simbolo di coraggio indomito in battaglia, perché nonostante la sua natura mite non si era mai tirato indietro per difendere il proprio territorio e i propri simili, se minacciato. Le donne lo consideravano emblema di purezza e di umiltà, perché per quanto fosse una creatura dalla straordinaria e superba bellezza - dalla linea snella ed elegante del corpo alle lunghe zampe dagli zoccoli dorati o argentati, per le lunghe criniere e code fino ai dolcissimi occhi, che potevano avere il colore del cielo o essere di un intenso viola o ancora di un cangiante bianco oppure per i lunghi corni ritorti che spiccavano al centro della fronte - non amava pavoneggiarsi come era costume, invece, di certe creature come il pavone o i grossi felini che si nascondevano nei recessi più bui dell’intrico di rami, arbusti, alberi e sottobosco che era la foresta di Khun.
A rendere questo leggendario animale ancor più benvoluto dall’uomo era la sua intelligenza, definibile al pari di quella umana. Secondo alcuni, che sostenevano di avere avuto incontri con queste creature, alcuni di essi possedevano il prezioso dono della parola, un attributo che durante il governo di taluni regnanti avevano portato rappresentanti di questa specie a palazzo, dove erano stati assurti al ruolo di consiglieri del re - dimostrando in parecchie situazioni maggior giudizio e buon senso di chi sedeva sul trono -.
Numerose erano le leggende e le storie che su questo mitologico animale circolavano, e tutte lo indicavano come protagonista di gesta eroiche e di grande generosità nei confronti di qualunque creatura abitasse nella foresta di Khun, ma vi era stato un lungo lasso di tempo in cui coloro che le conoscevano non avevano osato narrarle, e nel breve volgere di poche generazioni erano state quasi del tutto dimenticate. Le storie sugli unicorni erano state soppiantate da quelle delle azioni degli uomini e queste erano legate ad uno dei periodi più bui e terribili che la storia umana avesse vissuto, un evo che era stato caratterizzato da pestilenze, guerre, ladrocini, violenze, soprusi nei confronti della popolazione del regno di cui la foresta di Khun faceva  parte. Si era trattato di un periodo che veniva - quelle rarissime occasioni in cui era nominato - come il periodo successivo a "la morte dell’ultimo unicorno". 
Non che questa specie si fosse del tutto estinta durante quegli anni terribili ma quello che portò la gente a definire in quel modo quel lungo lasso di tempo fu una decisione presa dal sovrano in persona. 
All'incirca alla metà del suo regno Re Horgas - passato alla storia con il ben poco nobile appellativo di «l’oppressore» - decise che credere alle creature magiche, che si affermava abitassero i recessi della foresta di Khun e forse qualche altra regione limitrofa ad essa, fosse da primitivi e da selvaggi. 
Decise quindi di emettere numerosi decreti in cui si vietava al popolino di parlare di quegli argomenti, ai poeti impose di non cantare mai più le avventure e le storie e ai bambini di dare vita a giochi che da quelle favole prendessero spunto. Fece circolare nuove storie in cui lui e i suoi cavalieri erano protagonisti, agli aedi fece comporre nuovi poemi in cui i fatti della guerra, o gli amori di palazzo erano i principali temi e infine equiparò gli unicorni alle più normali specie animali che vivevano nelle foreste come cervi, lupi, scoiattoli e tutto ciò che era considerato cacciabile e così anch'essi cominciarono a cadere sotto le frecce dei cacciatori e in breve i pochi esemplari rimasti a quella carneficina si nascosero nei luoghi più remoti del bosco. 
Pochi anni dopo quegli editti quando un giovane cacciatore portò al re il corpo senza vita di un anziano unicorno. La criniera, che un tempo doveva essere stata di un fulvo dorato era candida, il corno era smussato dalle battaglie che aveva sostenuto durante la gioventù e che l'avevano lasciato privo di un occhio e con il corpo ricoperto da molteplici cicatrici. Quando il vecchio sovrano vide il corpo senza vita dell'animale domandò al giovane se quello era l'ultimo della sua specie. Il cacciatore assicurò che quello era senza ombra di dubbio, o possibilità di smentita, l’ultimo esemplare di quella razza, l’ultimo unicorno della foresta di Khun e probabilmente di tutto il mondo conosciuto. Horgas era scoppiato in una sonora risata a quella risposta, soddisfatto per quanto era riuscito a compiere: ora il popolo non parlava più delle stupidaggini fantastiche ma si industriava per guadagnare i soldi per pagare le tasse (che di anno in anno aumentavano sempre di più per consentire alla corte di mantenere un tenore di vita elevato e lussuoso) e nessuno osava contrastare alcuna decisione del sovrano, né in tempo di pace e tanto meno in tempo di guerra. 
Horgas diede ordine di scuoiare l'unicorno e appendere la pelle e il corno nella piazza principale di modo che tutti venissero a conoscenza che nella foresta di Khun non vi era più alcun animale di fantasia ma solamente concrete bestie che si potevano cacciare per ricavare pellami e carne da vendere nei mercati o per uso personale (consentito dopo che era stato pagato uno scellino di tassa in quanto Horgas aveva emesso un editto in cui inseriva nei possedimenti della sua casata la foresta di Khun, azione del tutto arbitraria).
Il cacciatore che aveva portato l'ultimo unicorno aveva lasciato la carcassa dell'animale ai guardaboschi del re e se ne era andato, rifiutando la ricompensa che il sovrano voleva elargirgli, sostenendo che era stato solo un caso fortuito che la sua freccia avesse colpito l'unicorno. Se ne era andato e nessuno l'aveva più visto o ne aveva sentito parlare per parecchi anni anche se qualcuno sosteneva di averlo visto aggirarsi per la foresta con gli occhi da folle ripetendo frasi sconnesse poi era semplicemente svanito.
Gli editti emanati da Horgas, culminati con lo sterminio indiscriminato degli unicorni sortirono come effetto principale un inaridimento degli animi della popolazione, la quale rivolse i propri pensieri esclusivamente ad attività più terrene e più produttive, dall'agricoltura al commercio. Nel breve volgere di un decennio nessuno fu più in grado di ripetere le storie sulle gesta di Horgas e di comporre più poesie, le arti scomparvero e per farsi fare un solo ritratto era necessario valicare i confini del regno e, tranne che a palazzo, non si festeggiavano più ricorrenze o festività. La vita era un serie di giorni lavorativi in fila uno dietro l'altro, cosa che comunque era diventata una necessità per sostenere il peso dei balzelli. Spesso nelle famiglie si arrivava a far interrompere ai figli gli studi per mandarli a fare i garzoni di bottega e il popolino divenne una massa ignorante e succube degli editti del re di turno.
Horgas l’oppressore morì qualche settimana dopo l'uccisione dell'ultimo unicorno, in maniera molto misteriosa ma colui che governò dopo di lui e i successivi sovrani non furono migliori. Un paio di secoli dopo salì al trono un tale Kershen, che per qualche strano incrocio di destini e di matrimoni era arrivato ad essere l’ultimo in linea di successione della casata cui apparteneva Horgas. 
Quasi trecento anni si erano succeduti tra guerre, ladrocini, carestie, pestilenze, governanti incapaci che dissanguarono il popolo con tasse, balzelli, tributi, imposte e gabelle che svuotarono le tasche dei cittadini per andare a rimpinguare quelle del palazzo dove la corte viveva in uno sfarzo sfrenato mentre i più non avevano di che mettere insieme il pranzo con la cena.
E se durante il regno di Horgas e dei suoi successori la popolazione se la passava male nemmeno per l’esercito le cose andavano bene. Il paese viveva un costante stato d’assedio e l’esercito doveva tenere a bada invasioni quasi continue.
Nel corso dei decenni Horgas prima e poi i suoi eredi avevano proceduto a smantellare la potente macchina bellica che era stato l’esercito. I soldati erano in costante servizio attivo, sottopagati, sfruttati e disprezzati dai cortigiani che facevano la bella vita a palazzo.
Solamente un esiguo numero di guarnigioni erano mantenute negli avamposti considerati strategici in caso di attacco nemico. 
L’unico ordine che quei generali avevano ricevuto da ogni nuovo sovrano che posava il proprio sedere sul trono e si metteva la corona in testa consisteva nel proseguire a combattere contro possibili invasori ma in nessun caso avvertire il re o la capitale perché, come più di un re aveva spiegato quando li aveva convocati in udienza impartendo quelle direttive, «Dopotutto erano faccende militari e non interessavano nessuno nel regno» e quella frase era divenuta di rito ad ogni nuova incoronazione. In non poche occasioni i supremi comandi dell’esercito non si erano trovati d’accordo e avevano tentato di far cambiare idea ai governanti ma alla fine avevano dovuto accettare quella decisione, soprattutto dopo che uno dei tanti re cui si erano rivolti aveva fatto capire loro che se i suoi ordini non fossero stati rispettati la prima conseguenza per loro sarebbe stata la detenzione per qualche tempo nelle galere del palazzo nei casi migliori, nei casi considerati più gravi la detenzione a vita e se avessero subodorato un tentativo di tradimento la sentenza prevedeva la morte per impiccagione o per decapitazione.
Nel corso del governo di Horgas e dei suoi successori le sorte del regno furono rette sopprimendo ogni tipo di contestazione o moto di ribellione servendosi di una polizia segreta. In quegli anni terribili parecchie migliaia di persone finirono nelle prigioni reali oppure scomparvero, senza che alcuno riuscisse a sapere che fine avessero fatto.
Il periodo che aveva fatto seguito a "la morte dell’ultimo unicorno" ebbe fine nello stesso modo in cui aveva avuto inizio, con un’incoronazione, un matrimonio e un battesimo e qualche editto reale.
Quando il giovane principe Kershen salì al trono prese in moglie la duchessa Mathilda e tutti, dal più umile servitore fino al più alto prelato, dai nobili di basso lignaggio a quelli imparentati con la famiglia reale, dall’ultimo soldato al supremo comandante, sperò che quel giovane che aveva studiato in paesi lontani ed era stato allevato secondo leggi e regole diverse da quelle che i suoi antenati avevano emanato nel corso dei secoli si rivelasse migliore di chi lo aveva preceduto. 
E per una volta gli dei ascoltarono le preci e le invocazioni di quegli uomini e di quelle donne. 
Dopo l’incoronazione il nuovo sovrano cominciò un lento lavoro di sistemazione della legislatura del regno, tra cui un editto che metteva fuorilegge la caccia agli unicorni. I suoi segretari e consiglieri non approvarono quell’idea e capirono che dovevano far qualcosa per mantenere lo status quo quando egli inviò ad esplorare la foresta di Khun alcuni suoi fedeli guardiacaccia. 
«Voglio che scopriate se qualche esemplare possa essere scampato al genocidio. Non limitatevi a loro: cercate ogni creatura incantata che in quegli intrichi ha trovato riparo dalla follia dei miei antenati. Fate, salamandre, grifoni o linci volanti. Trovatele e occupatevene, in modo che capiscano che la Foresta di Khun è tornata un luogo sicuro».
Così aveva parlato il re. Il secondo atto del governo di Kershen fu invitare in patria gli eruditi incontrati nei suoi viaggi, perché studiassero i testi che languivano nelle biblioteche e, a loro volta, facessero ricerca su tutte le storie che dovevano esistere e che forse qualcuno ancora ricordava. 
Altro gesto di Kershen fu quello di liberarsi di tutti i consiglieri legati al precedente sovrano, tenendo solamente due suoi fidati collaboratori provenienti dal nord e abili tanto con la spada quanto con le parole.
La popolazione accolse con gioia quelle decisioni, sicura che ne avrebbero fatte seguito altre di altrettanta saggezza.
Grande fu la gioia del re e del popolo quando quegli uomini che avevano setacciato ogni anfratto dell’oscura foresta di Khun fecero ritorno conducendo ben quattro esemplari di unicorno.
Apriva la parata un enorme maschio nero, con una lunga criniera bianca e l’aspetto fiero. Gli occhi erano trasparenti come la luce e li teneva socchiusi mentre traversava la via principale della capitale, circondato da una folla urlante. Al centro della fronte spiccava un lungo corno ritorno, di un accecante color perlaceo mentre i suoi zoccoli erano color oro.
Lo seguiva una femmina, più piccola e dalla struttura delicata. Il mantello era di un delicato color bianco rosato come pure la criniera e la coda. I suoi occhi erano simili per colore al cielo medesimo e il suo corno, più corto di quello del maschio, era liscio e color pervinca. I suoi zoccoli argentati non producevano rumore mentre veniva condotta a lungo la via.
Due puledrini, dagli occhi cerulei e le criniere lilla ma dai manti neri. Il corno di uno era nero e a spirale mentre quello dell’altro era bianco e liscio, gli zoccoli erano entrambi argentati.
I quattro animali furono portati in una zona riparata del parco reale, dove furono visitati dai veterinari che provvidero a curare alcune piccole ferite che dovevano essersi procurati quando avevano visto gli uomini, che erano riusciti a catturarli. Anche se si erano fatti docilmente condurre dai loro rifugi alla capitale, i quattro unicorni non si rivelarono altrettanto docili una volta arrivati al parco del re. Furono lasciati liberi di correre per i giardini e la foresta protetta, lasciandosi avvicinare solo dagli uomini che li avevano trovati e verso cui sembravano provare una sorta di riconoscenza.
«Maestà dovete tenere conto - spiegò uno dei veterinari, durante una delle visite del monarca - che questi animali hanno ereditato dai loro antenati il terrore degli uomini, durante i secoli in cui la loro stirpe è stata cacciata indiscriminatamente, costringendoli a rintanarsi nei luoghi oscuri e selvaggi dove sono stati trovati». 
Gli unicorni furono ospitati nel parco reale per quasi due lunghi anni e non appena i due puledri furono cresciuti furono riportati nella foresta di Khun, perché la ripopolassero. Nel giro di nemmeno dieci anni la popolazione degli unicorni si era moltiplicata, in quanto una volta che avevano fatto ritorno, tra gli alberi e le radure erano emersi molti altri esemplari, a dimostrazione che nonostante tutti i tentativi di sterminarli, gli animali si erano rivelati più furbi ed intelligenti degli umani. 
Anche il recupero delle antiche tradizioni proseguì relativamente veloce, infatti più ci si allontanava dalla capitale e quindi dal diretto controllo del monarca più le nozioni delle antiche storie erano più facili da recuperare e nel breve volgere di un quinquennio gli eruditi poterono presentare a re Kershen i primi volumi contenenti leggende e miti legati alla Foresta di Khun.
Ogni settimana il re ascoltava le richieste dei cittadini e, come con gli studiosi, aveva mandato suoi uomini fidati per sapere quale era la situazione in cui si trovavano i suoi sudditi. La risposta non gli era piaciuta, per nulla. Per settimane era rimasto chiuso nel suo studio cercando una soluzione.
Kershen non era uomo da lasciarsi intimorire dalle sfide e aveva preparato una serie di ordini che avrebbero dovuto rimettere in sesto l’intero regno.
Fece riaprire le scuole e le accademie e a chi gli domandava perché, rispondeva che «Un popolo che non apprende a leggere e scrivere, non è un popolo libero. Non è diffondendo l’ignoranza che si può sperare di essere migliori ma studiando e approfondendo. La mente si apre ad un mondo nuovo. A questo servono anche le leggende e i miti del passato. Ogni uomo dotato di intelligenza deve avere la possibilità di imparare e di avere una cultura. Non basta sapere un mestiere per essere un uomo».
Quei discorsi poco piacevano ai nobili, che vivevano ancorati alle tradizioni tramandate dai tempi di Horgas, facendosi mantenere dal popolo. Fu intorno al quindicesimo anno di regno di Kershen che i nobili ordirono una congiura, ma furono sbattuti fuori dai confini del regno dai nuovi ranghi dell'esercito, che era ritornato se non proprio agli antichi splendori almeno ad una forma decente, fedele al nuovo sovrano.
Altri dissidenti se ne andarono spontaneamente, dopo aver tentato di assassinare non più il re ma il principe.
Kershen, che si era sempre reputato un uomo fortunato, aveva infatti garantito la successione dinastica generando un figlio maschio, che era stato chiamato August. Per volere di Kershen stesso il bambino era stato allevato in modo sobrio, favorendo le arti alla pratica della guerra e impedendo che il piccolo si perdesse nel vizio e nell’ozio. Lui stesso, per quanto sempre oberato di lavoro, trascorreva con il figlio ogni momento libero dagli impegni di stato. Nonostante gli insegnamenti paterni August rimase sempre parecchi passi indietro ed ancorato ad alcune delle tradizioni severe introdotte dai suoi avi.
Tra un riforma delle accademie e il tentativo di ridurre le tasse, Kershen era anche riuscito a ripristinare l’esercito, a rinforzare i confini e a stringere qualche debole trattato di pace.
Sentiva la fatica del regnare sulle sue spalle e il corpo divorato dalla malattia e il momento di passare il comando ad August si faceva sempre più vicino. Tanto Kershen che la corte si rendeva conto che era necessario trovare una sposa per il giovane August. Mathilda, la madre del principe, si era rivelata un prezioso sostegno per il sovrano ed egli voleva per il figlio una moglie che gli fosse di aiuto e non di intralcio. 
Dopo parecchi tentativi la scelta era caduta sulla figlia maggiore di un potente principe di un regno rinomato per la rigidità delle sue leggi e per la diffusa leggenda che alcune eredi venissero allevate secondo le regole della cavalleria.
La regina espresse in più di un’occasione la sua perplessità ma il marito fu irremovibile e alla fine lei cedette.
Missive furono inviate chiedendo, senza troppi giri di parole, la mano della principessa Lavia. Da parte del regnante giunse come risposta un ritratto della fanciulla e la richiesta di uno del principe.
Per qualche mese tra le due capitali vi fu un intenso scambio di messaggeri e alla fine si giunse ad un accordo. Kershen era compiaciuto e Mathilda cominciò a sospettare che trovasse divertente quella corrispondenza con il padre della principessa Lavia. Nuovamente cercò di parlargli ma Kershen la zittì. «Cerchi sempre di togliermi il divertimento in ogni mio atto», poi indicò l’ultima lettera giunta dal vicino. «Ha accettato e ha detto che a breve arriverà un messaggero per preannunciare l’arrivo del corteo che accompagnerà la principessa Lavia al nostro palazzo. Mi aspetto quindi che tu organizzi un’accoglienza degna della futura regina. In gioco c’è molto più del futuro della nostra casata. Ora lasciami, ho una riunione per vedere se questo ennesimo patto di pace funziona oppure no». Kershen aveva sbuffato mentre qualche delegato si presentava alla sua porta chiedendo udienza.
Mathilda aveva annuito e si era congedata dal marito per andare a dare la buona novella al figlio. August era nel giardino a passeggiare, seguito a vista da due guardie del palazzo. Quando videro comparire la regina si misero sull’attenti ma quella li ignorò. Mathilda fece un cenno al figlio e insieme si allontanarono.




venerdì 30 agosto 2013

LA BAMBOLA DI AMINA


L’ARRIVO DELLO ZIO ALFONSO - 

Aria di feste. 

Nella magione dove Amina vive con i suoi genitori, il fratello maggiore Federico e la sorellina Anita, sembra che tutti - compresa la servitù - siano in preda a una qualche strana forma di disforia. La mamma trascorre molto tempo nella nursery, insieme a lei e ad Anita, mentre spesso suo padre e Federico escono a cavallo insieme e tornano solo nel tardo pomeriggio, con le gote arrossate dal freddo e un’espressione greve in volto. Amina li osserva con un certo sospetto: da quando lo zio Alfonso ha scritto che sarebbe venuto a trascorrere le festività dicembrine - così ha scritto, ma si sa, che questo zio del babbo è un tipo strano - tutti sembrano in preda ad una dose di follia. 
«Mamma, quando arriverà lo zio?», chiede una sera alla mamma, mentre le sta rimboccando le coperte. Nel letto di fianco Anita dorme già da un pezzo. La donna le sorride, le labbra tinte di rosso. «Presto bimba mia. Forse già nella giornata di domani. Ha scritto che avrebbe portato un regalo per ognuno di noi. Sarà un periodo bellissimo, vedrai». Detto questo la mamma si alza e le manda un bacio, prima di uscire. «Dormi e fai sogni d'oro e d'argento», le sussurra mentre si chiude la porta alle spalle ma Amina non la sente: sprofondata sotto il piumone scivola nel sonno. Sogna, la piccola Amina. Sogna arcobaleni e farfalle, fate e giardini fioriti. Sogna un uomo alto e bello, che le sorride e la fa giocare: il misterioso zio Alfonso che trascorrerà con loro le vacanze. 
La mamma scende le scale e torna in salotto, dove trova il marito. «Amina e Anita stanno finalmente dormendo». Si siede sul divano, sollevando le gambe e sospirando. «Amina mi ha chiesto quando Alfonso arriverà, sembra molto emozionata per questa visita. Speriamo che non ne risenta, è così delicata e tutte queste emozioni potrebbero farle male». Il marito la guarda, un sorriso mesto compare sul suo volto. Le labbra si stirano e intorno agli occhi si irradia una ragnatela di rughe. «Spero presto, spero presto. Questa attesa mi sta logorando», è il suo commento. In piedi, di fronte al camino, scalza alcuni ciocchi e cerca di ravvivare il fuoco. All'esterno si può percepire il soffice cadere della neve. La notte è fredda ma limpida, una tipica serata invernale in campagna.
«Andiamo a dormire, caro. É tardi e siamo entrambi stanchi. Domani penseremo per bene a come accogliere lo zio, nel migliori dei modi e secondo il suo gusto», gli fa eco lei, porgendogli una mano. Lui la guarda ma non si muove. Un senso di freddo si è impadronito di lui: il fatto che lo zio, fratello di suo padre, andatosene dall'avita casa oltre venticinque anni prima, ritorni in seno alla famiglia, lo spaventa. Da un quarto di secolo non ha quasi dato notizie di sé e ora improvvisamente manda un telegramma dicendo che non vede l'ora di tornare a casa e di riunirsi alla famiglia. Ciò che Amina ha scambiato per euforia da parte dei suoi genitori, di solito così compiti e seri, è solo una reazione nevrotica alla notizia. Batte l’una quando finalmente i due adulti si ritirano nelle rispettive stanze, lei lo saluta sull’uscio con un casto bacio sulla guancia poi gli volta le spalle e in pochi passi è alla sua porta, dietro la quale scompare. Ettore sospira, non sopporta più quella ridicola situazione da separato in casa. Non sopporta più il distacco di sua moglie da lui. Rivuole indietro gli anni felici, prima della tragedia. «Forse la visita di Alfonso riporterà un po’ di pace in questa casa», si dice chiudendosi la porta alle spalle a sua volta, ma non crede ai suoi stessi pensieri.
Nell’altra stanza Francesca si spoglia ed indossa la camicia da notte di raso, rabbrividisce per il freddo e si infila sotto le coltri. «Speriamo che tutto vada per il meglio», è il suo ultimo pensiero mentre sprofonda in un sonno agitato, senza sogni. In camera sua, intanto, Ettore sta leggendo un vecchio libro di storia antica, in attesa di sentire le palpebre farsi pesanti e finalmente abbandonarsi a qualcosa di simile ad un riposo ristoratore ma il sonno si rifiuta di fargli visita. Sono quasi le tre e quarantatré quando, infine, si addormenta a pagina 92, poco dopo la conquista della Grecia da parte di Filippo il Macedone.
«É arrivato. É arrivato». Amina entra in camera della madre correndo e saltando sul letto, disfacendolo. «Mamma. Mamma. Mamma. É arrivato». Francesca emerge dal sonno, «Chi, tesoro?», riesce a chiedere biascicando le parole. «Lo zio Alfonso», trilla la bambina, battendo le mani con enfasi. A quella risposta Francesca si tira su a sedere di scatto, butta in aria coperte e lenzuola, corre in corridoio, in camicia da notte e scalza. La pendola in fondo al corridoio batte sette colpi e mezzo. Francesca bussa con forza alla porta del marito, chiamandolo con insistenza, una nota di ansia a spezzarle la voce. Infine Ettore compare, indossa il pigiama di sghimbescio, ha la barba sfatta e gli occhi sono rossi. «É qui. Alfonso è arrivato», ansima Francesca spostandolo a forza ed entrando nella camera del marito. Ettore la guarda, scarmigliata e in preda al panico, cercando il suo aiuto come sono mesi che non avviene.
«Cosa facciamo?», lo implora con gli occhi. Ettore si accascia sul letto, cercando di prendere il respiro. Prima di riuscire a rispondere, una voce potente e maschile, proveniente dall’ingresso, sente che lo chiama. «Ettore! Scendi subito ad abbracciare il tuo vecchio zio Alfonso». L’uomo deglutisce: il possente timbro baritonale dello zio Alfonso non si è indebolito in quegli anni. Viene colto da un improvviso tremito ansioso. L’ultima volta che ha visto il fratello di suo padre aveva quindici anni e un sacro terrore di quell’uomo grosso, burbero e dai modi spicci. All’udire il modo autoritario con cui lo sta chiamando non deve essere cambiato. «D-dobbiamo scendere», gli sussurra Francesca, seduta in terra con la testa tra le mani, incapace di alzarsi.
Un nuovo boato rompe il silenzio e Alfonso saluta con un urlo di gioia, o almeno così Ettore e Francesca percepiscono dal suono della sua voce, i loro tre figli. «Andiamo», Ettore riesce ad alzarsi e a prendere per mano la moglie, tirandola in piedi di peso. 
A piedi nudi, mano nella mano, i due scendono e trovano i tre figli avvolti nelle grosse spire delle braccia di Alfonso. «Finalmente», ride l’uomo dalla barba incolta. A stento Ettore riconosce lo zio ma gli sorride. «Su bambini, non disturbate lo zio, deve essere stanco per il viaggio», si rivolge a Federico, Amina ed Anita. «Andate in cucina a fare colazione poi a prepararvi».
I tre sbuffano ma ubbidiscono e veloci corrono in cucina, sotto lo sguardo divertito di Alfonso. «Benvenuto», mormora Francesca, lanciando timidi sguardi all’uomo e alle molteplici valigie che invadono l’ingresso di casa. «Chiamo subito Norvi perché si occupi dei bagagli», aggiunge e si sposta dal marito, afferra un campanellino d’argento e lo agita. Dopo pochi minuti compare un uomo di mezza età, che si inchina con deferenza. «Norvi occupatevi dei bagagli dello zio Alfonso, fateli sistemare nella stanza rossa, per favore». L’uomo si inchina di nuovo e, silenzioso come è comparso, sparisce. Alfonso guarda la scena con un sorrisetto. Quando il maggiordomo ricompare è seguito da due robusti giovani, che senza apparente fatica si impossessano delle due voluminose valigie e del grosso baule di pelle nera. «Piano piano con quello. Contiene cose preziose e ci tengo che non vengano rovinate», avverte Alfonso. I due fanno un cenno col capo e si avventurano su per le scale, dirigendosi alla stanza rossa.
Per qualche minuto restano tutti e tre nell’ingresso, guardandosi poi Ettore propone di prendere un caffè. «É quello che ci vuole», aggiunge dirigendosi verso la cucina. «Non hai perso la tua affettazione», ride Alfonso tirandogli una manata sulla schiena, così forte che quasi lo manda in terra, «Ma devo ammettere che hai un ottimo gusto in fatto di donne». Fa l’occhiolino a Francesca, che si ritira di qualche passo, arrossendo e rendendosi conto in quel momento di non aver indossato la vestaglia. D’istinto si stringe le braccia intorno alle spalle nude. «Torno subito», si scusa e corre di sopra. Si chiude a chiave in camera, ha il fiato grosso e il cuore le batte in petto così prepotentemente da darle l’impressione di essere sul punto di scoppiare. «Che uomo. Che uomo», si ripete senza riuscire a togliersi dalla mente l’espressione bramosa che ha intravisto guizzare negli occhi di Alfonso. Ettore le ha raccontato che venticinque anni prima Alfonso ha lasciato la famiglia per una vita errabonda e solitaria: non è tornato a casa nemmeno per i funerali di genitori e zii, non ha dato notizie di sé per anni, mandando una cartolina di tanto in tanto, da posti esotici, giusto per far sapere che era ancora vivo. «Scriveva proprio questo - le ha raccontato Ettore -. “Sono ancora vivo. Alfonso” e niente altro. Nemmeno la sua eredità ha mai richiesto».
Con questi pensieri che le turbinano in testa, Francesca si spoglia e prende da un cassetto la biancheria, dall’armadio una blusa ed una gonna, infila le calze e un paio di scarpe, quindi si avvolge nel vecchio cardigan di sua madre e si ravvia, alla bell’e meglio, i capelli. Si lancia una rapida occhiata nello specchio e finalmente torna di sotto, riunendosi in cucina al resto della famiglia. Pur struccata ed imbarazzata la donna appare di una bellezza rara, pur senza raggiungere la perfezione di poche fortunate. «Incantevole», la accoglie Alfonso, con in mano una tazzina fumante di caffè. Francesca arrossisce di nuovo. Ettore le lancia a malapena un’occhiata, si concentra sull’imboccare Anita con qualcosa che ha la consistenza di un budino. 
Le guance della bimba sono sporche di una crema color giallo uovo e così pure le manine paffute. Ride e alcuni pezzi finiscono anche sul bavaglino.
La cuoca le porge una tazza di tea e riceve un cenno di ringraziamento poi si ritira, in attesa di sapere cosa la signora vorrà che venga preparato per pranzo. Amina, seduta al tavolo di fianco ad Anita, guarda rapita lo zio, la barba nera appena striata di grigio, i vestiti sgualciti e scoloriti, gli orecchini d’argento che ornano i suoi lobi e i tatuaggi sulle braccia. É così diverso da suo padre. Senza togliergli gli occhi di dosso sorseggia una tazza di «cioccolatte», a base di cacao e latte caldo. Di Federico nemmeno l’ombra.
«É bello essere tornato», Alfonso rompe il silenzio familiare che si è creato. «Ho qualche regalo per voi, per festeggiare il mio ritorno a casa». Detto questo si alza ed esce dalla cucina, salendo le scale e dirigendosi con sicurezza alla stanza rossa. Nonostante tutti gli anni trascorsi in paesi lontani, non si è dimenticato la geografia della casa dove è nato e cresciuto.
«Forse dovresti andare a vestirti e renderti presentabile», dice Francesca al marito, con voce tagliente, da dietro il bordo della tazza di porcellana. Lui si guarda, scalzo e ancora in pigiama. «Almeno uno di noi due lo è, presentabile», risponde Ettore lanciando un’occhiata all’abbigliamento della moglie. Non sa se l’ha fatto apposta oppure è solo un caso ma indossa una stretta blusa e una gonna con un ampio spacco, che esaltano la sua figura snella. Francesca lo ignora. «Bambine andate a prepararvi poi andate in salotto, e comportatevi per bene», dice ai figli. Affida Anita alla governante perché la vesta. Rimasta sola, Ettore ha abbandonato il campo e si è andato a vestire a sua volta, chiama la cuoca e le impartisce pochi secchi ordini sul pranzo, la cena e i pasti per i giorni successivi. «Sarà fatto», è la semplice risposta della donna e lascia la padrona da sola con i suoi pensieri. 
Francesca abbandona sul tavolo la tazza di tea e si reca in salotto, si è appena seduta sul divano che vede Alfonso comparire sulla porta: tra le braccia regge una decina di pacchetti di varie dimensioni e sembra ancora più grosso. «Appoggiali pure sul tavolo», gli indica con un dito, cercando di non lasciar trasparire il disagio che prova nel trovarsi nella stessa stanza da sola con lui. A trarla d’impaccio è l’improvvisa comparsa del resto della famiglia. «Calma, calma», si rivolge soprattutto ad Amina ed Anita, che sgambettano intorno allo zio ridendo e battendo le mani, cercando di afferrare gli involti. «Venite a sedervi qui vicino a me», le invita Francesca, «Non date fastidio allo zio mentre sistema i pacchi». Federico si siede su un bracciolo, fingendo disinteresse per ciò che si sta consumando davanti ai suoi occhi. Osserva la scenetta con il distacco tipico di certi adolescenti solitari Dopo pochi minuti arriva anche Ettore, vestito ora di tutto punto e prende posto nella sua solita poltrona.
«Ci siamo tutti», esclama con soddisfazione Alfonso, guardandoli. Comincia a scegliere tra gli involti. Il primo è proprio per il nipote. Si tratta di un involto rettangolare, voluminoso e pesante. «Spero che ti piaccia. L’ho preso in Cina, una decina di anni fa», spiega Alfonso, mentre dal mucchio ne prende un secondo e lo porge, con deferenza, a Francesca. «Questo, invece, proviene dall’India», spiega sbrigativamente. La donna si appoggia sulle ginocchia la grossa scatola piatta. Stessa carta da pacchi che avvolge tutti i doni e spesso spago a chiuderlo. «Federico per favore prendimi le forbici nel cassetto», ordina al figlio maggiore, che sbuffando ubbidisce. Con quattro colpi ben assestati lo spago è tagliato, Francesca porge quindi al marito le cesoie. «Grazie», fa lui senza guardarla in viso.
Con delicatezza Francesca apre il suo regalo: è una scatola di cartone azzurra, la quale rivela, avvolto in una velina di pallido bianco, uno splendido abito di un rosso acceso con ricami dorati. «É un sari, l’abito tradizionale delle donne indiane. Se ti serve aiuto ad indossarlo, chiedi pure», le spiega Alfonso con un largo sorriso. Francesca arrossisce e mormora qualcosa. Ettore sta liberando il suo dalla rozza carta marrone e scopre un grosso volume. «Mi sembrava di ricordare che fossi un appassionato di storia antica e ho recuperato questo raro libro sulla storia imperiale della Cina». Ettore lo sfoglia con un misto di interesse, curiosità e stupore. Sta scoprendo più cose dello zio in quella mattina che in tutta la vita.
«E ora passiamo a voi», Alfonso si rivolge ai bimbi. Dal mucchio prende due pacchetti delle medesime dimensioni e ne porge uno ad Amina ed uno ad Anita. Le due bambine strillano di gioie poi cominciano a tirare per strappare i cordini di iuta fino a riuscire a sfilarli e poi procedono a ridurre a brandelli, senza smettere di ridere, la carta color caramello. Davanti agli occhi di mamma e papà, del fratello maggiore le due bambine scoprono due bambole. Quella di Anita indossa un abito principesco, di foggia orientale, ha la pelle scura e le labbra sorridenti. «Beaaaaaa», esclama la bambina e si alza per andare a farla vedere da vicino alla mamma. La bambola che Amina tiene tra le mani è una classica bambola di foggia europea: ha un viso pallido e paffuto, occhi cerulei e una boccuccia che può sembra tanto atteggiata tanto in un sorriso quanto corrucciata. Indossa uno sfarzoso abito di taffettà lilla con passamaneria di una tonalità più scura. Intorno al viso le scendono boccoli color del fuoco e le braccia sono protese verso la bimba. Amina la osserva ammirata, non riesce a distogliere lo sguardo da quello fisso della bambola. «La chiamerò Contessa Lavinia, si vede che è nobile», comunica con serietà, stringendola poi al petto.
«E ora veniamo a te giovanotto», Alfonso prende un pacco bitorzoluto e lo lancia a Federico, che lo afferra maldestramente. Anche lui strappa corda e carta rivelando un paio di guantoni per la boxe. «Ti darò un paio di lezioni mentre sarò qui», gli dice Alfonso. «Non c’è niente di meglio di un po’ di movimento per svegliare il corpo e la mente», aggiunge.
Sul tavolo restano altri pacchettini, che lo zio spiega essere dei ninnoli, con cui decorare la casa. «Niente di speciale ma oggetti per la buona sorte. Mi occuperò di sistemarli personalmente in casa più tardi. Inoltre daranno un tocco di oriente a queste vecchie stanze».
Ettore fa per replicare che non vuole cianfrusaglie in giro per casa ma Francesca lo precede. «É una splendida idea. Ci vuole proprio un po’ di fortuna in questa casa», afferma con un’espressione sorniona. Ettore scuote la testa, si alza e lascia la stanza. Alfonso lo segue con lo sguardo. «Va a chiudersi in biblioteca. Starà chiuso per tutto il giorno a leggere il suo nuovo libro. Lo rivedremo stasera, forse per cena. É il suo modo di affrontare le situazioni che non gli vanno a genio», spiega con voce priva di tono Francesca.
Fuori ha smesso di nevicare e Francesca propone a tutti un giro del parco. «Più tardi, adesso mi occuperò di quei ninnoli. Voi andate pure, avete bisogno di stare all’aperto, siete così pallidi». Poi si rivolge a Federico: «Tu tieniti pronto, oggi pomeriggio incroceremo i guantoni, ragazzo». Federico agita la testa in quello che può essere tanto una risposta positiva quanto un cenno di diniego poi esce.
Anita prende per mano sua mamma e insieme escono, la bambola orientale è abbandonata sulla seduta del divano, tra i cuscini di velluto color avorio. Amina le segue, Contessa Lavinia stretta tra le braccia. Alfonso la guarda e sul suo viso si apre una smorfia perfida. Torna a dedicarsi ai ninnoli, che ha lasciato sul tavolo.
LA BAMBOLA DI AMINA -
«Andiamo bella Contessa Lavinia. Ci mettiamo il cappottino e usciamo a passeggiare, è una bella giornata e vedrai come ti piacerà». Amina si rivolge alla bambola, carezzando le gote paffute e lisce, intrecciando le ditine tra i riccioli posticci. Sistema l’elegante abito della fantoccina e le ripete quanto sia bella. Non la lascia nemmeno quando Francesca l’aiuta ad indossare il suo montgomery. «Anche Contessa Lavinia ha bisogno di un cappotto. Uno bello, come il tuo». Allunga la manina e accarezza il velluto del pesante soprabito della madre. «Morbido», dice e lo stringe nel pugno, tirandolo verso di sé. «Amina non tirare così, rischi di strappare la stoffa», strilla Francesca afferrandole la mano e strattonandola fino a che si sente un suono secco e un triangolo di tessuto strappato penzola dal fianco destro. Amina guarda il disastro e il visetto diventa paonazzo, gli occhi si stringono e la bocca si storce in una smorfia di disperazione. Francesca guarda il disastro combinato dalla figlia e alza gli occhi al cielo. Amina scoppia in un pianto terribile, singhiozzi convulsi si alternano a urli disumani. Stringendo al petto Contessa Lavinia, la bambina si getta verso la madre, che riesce ad afferrarla all’ultimo momento, prima che cada e batta la testa.
Le tocca la fronte, è sudata e piangente. Il viso distorto dallo sconforto. Francesca sente la rabbia scemare mentre la preoccupazione prende il sopravvento: Amina è sempre stata delicata di salute. «Calma, calma Amina. Non è successo niente. Questo vecchio cappotto è così liso che basta un tocco e va in brandelli», cerca di rincuorare la figlia ma Amina continua a singhiozzare. Biascica parole senza senso mentre bagna di lacrime il viso della madre. Francesca tocca la fronte della figlia di nuovo, è bollente. «Forse è meglio se per oggi non usciamo. Adesso andiamo di sopra, ti metti a letto e la tua bella bambola ti terrà compagnia». «Contessa Lavinia», mormora singhiozzando Amina, appoggiando la testa sulla spalla della mamma. «Hai ragione, Contessa Lavinia».
Con la bambina stretta tra le braccia, Francesca passa davanti ad uno stupito Ettore, che ha assistito alla scena dalla balconata del primo piano. «Forse dovremmo...», comincia ma Francesca lo zittisce con uno sguardo. Lui la segue fino in camera della figlia e la osserva toglierle il cappotto, il vestito, farla sedere e prendere un catino con dell’acqua, una salvietta di cotone e cominciare a passarglielo sul viso, sul collo, sulle braccia. Spera in questo modo di far abbassare la temperatura febbricitante. 
Francesca, con delicatezza, lava via le lacrime e il dispiacere da Amina. Le porge la camicia da notte di cotone bianco e gliela fa indossare. «Adesso mettiti a letto e cerca di riposare. Se più tardi starai bene usciremo insieme nel parco, prima della merenda». Amina le sorride, l’espressione più tranquilla e non più contratta dall’angoscia. Francesca le bacia la fronte, l’aiuta a mettersi sotto le coperte e le passa Contessa Lavinia poi fa per uscire. «Mamma, un bacio anche per Contessa Lavinia, per farla dormire bene», la implora Amina porgendole la bambola.
La donna la guarda, poi si concentra sulla bambola: quell’espressione ambigua, quegli occhi fissi la inquietano un poco ma si fa coraggio e, tornata indietro, si china a baciare la fronte della bambola. La sente stranamente calda e cedevole, come se fosse quella di una vera bambina.
Infine esce e va a sbattere nel marito. «Allora?», le chiede lui, con una punta di fastidio nella voce. Deve essere stato disturbato dalla scenata di Amina. «Nulla, caro. Nulla». Francesca non spreca tempo a parlare ma torna in camera sua e cambia il suo soprabito con una giacca di pesante panno. Con l’anno nuovo lo porterò dal sarto di fiducia perché cerchi di sistemare il danno fatto dalla figlia. Il sole splende quindi dovrebbe bastare, pensa Francesca, legandosi la cintura stretta intorno alla vita sottile. Intorno al collo e alle spalle si sistema una stola .di pesante cashmere e ridiscende nell’ingresso. Trova Federico e Anita che l’aspettano e, mentre stanno uscendo, si unisce a loro anche lo zio Alfonso.
«É una giornata troppo bella per stare chiusi in casa. I ninnoli li potremo sistemare stasera tutti insieme», afferma mentre li precede e apre loro la porta. Quando Francesca gli passa di fianco, si sfiorano e lei si morde un labbro. Si volta ma del marito nessuna traccia, in compenso dalla biblioteca giungono le note di un qualche brano di musica classica.
In camera Amina parla con la sua nuova bambola, più bella di tutti i giocattoli che ha ricevuto fino ad ora. Ha dieci anni ma è ancora molto infantile. Per la sua salute cagionevole è sempre stata insieme a sua madre e questo ha limitato molto la sua crescita. Al di là della sua salute fisica ciò che ha sempre preoccupato Francesca è l’estrema sensibilità della figlia e la sua incapacità di reagire in modo positivo di fronte alle situazioni di maggiore difficoltà, cercando sempre il suo sostegno. Forse per la sua particolare situazione, Amina ha sviluppato un attaccamento quasi morboso nei suoi confronti e non sopporta di stare troppo tempo distante da lei. Comportamento che Francesca comincia a trovare difficile da sopportare, ma non può negare di avervi contribuito in larga misura: «Ma cosa avrei dovuto fare? Era così piccola allora?», si chiede per l’ennesima volta.
Un altro fatto che turba la donna è la spiccata fantasia di Amina. Teme, infatti, che l’abbandonarsi eccessivamente all’immaginazione faccia perdere il senso della realtà alla bambina. Osserva Federico e Anita, che davanti a lei camminano. Nessuno di loro sembra avere i problemi di Amina. Anita, anzi, è l’esatto contrario: spesso vessa sua sorella maggiore con scherzi cattivi. Da parte sua Federico non dimostra alcun interesse verso le sue sorelle e trascorre la maggior parte del suo tempo a leggere oppure fuori a cavallo. «Ha lo stesso carattere di suo padre», pensa Francesca con una punta di rammarico.
Mentre passeggia, Francesca cerca di non pensare alla situazione in cui si trova la sua famiglia, vuole godersi quell’attimo di pace e di tranquillità.
«Contessa Lavinia vedrai come ti piacerà uscire. Abbiamo un parco bellissimo e ci faremo accompagnare dalla mamma alla serra, dove ci sono dei fiori bellissimi. Le chiederemo di regalarcene uno, da mettere nei capelli. Sarai ancora più bella con un fiore tra i capelli», le dice scandendo appena le parole. Gli occhi glauchi di Contessa Lavinia la guardano immoti e resta in silenzio. Amina non ci fa caso. «Adesso è ora di riposare, altrimenti ci ammaliamo e saremo obbligate a stare in camera». Bacia in fronte la bambola e poi chiude gli occhi, sbadiglia e ripete «Buonanotte». Le sembra che da molto vicino le giunga una voce, simile alla sua ma ancora più delicata, che le augura«Buonanotte» ma ormai è troppo stanca per alzare il capo e vedere chi sia stato.
Amina sogna, cammina per il parco tenendo per mano una bambina simile a lei, che indossa un abito lilla e ha i capelli rossi.. Chiacchierano e ridono mentre passeggiano, lei si sente bene ed è felice come poche volte lo è stata in vita sua. D’improvviso, in lontananza, scorgono la mamma e i suoi fratelli. Amina li chiama con la mano ma loro non le badano. Continuano nel loro girotondo. Allora comincia a correre ma non riesce ad avvicinarsi mai abbastanza. Un senso di angoscia la coglie e si volta. Vicino a lei trova la bambina, che ha le fattezze della sua bambola. «Non ti preoccupare - le dice - ci sono io con te. Io non ti lascerò mai. Loro sono cattivi e non ti vogliono bene. Io ti voglio bene». Le porge la mano, Amina si gira e scorge le figure dei suoi familiari scomparire in lontananza. «Io e te staremo insieme per sempre, come sorelle», le dice ancora la versione umana di Contessa Lavinia, sul suo viso candido compare una smorfia, poi la cinge con le braccia, così forte da farle quasi male.
Con un gridolino e boccheggiando Amina si sveglia di colpo. Ha il respiro affannato, come se avesse corso, e si sente un peso in petto. La stanza è immersa nella penombra, non sa che ore sono o dove sono gli altri. Getta indietro le coperte e mette i piedi in terra. Il pavimento è freddo ma non ci fa caso. Afferra delicatamente Lady Lavinia e raggiunge la porta, la apre senza produrre rumore e mette la testa fuori. Il passaggio che conduce alle camere dai letto dei genitori è deserto e la casa silenziosa. «Andiamo», dice a voce alta, un po’ rivolta a Contessa Lavinia, un po’ per farsi coraggio. 
Percorre avanti ed indietro un paio di volte il corridoio poi, appoggiandosi al corrimano scende le scale. In pochi minuti si ritrova nel grande ingresso: sulla destra la strada che porta alla cucina e all’ala destinata alla servitù, a sinistra il salotto, la sala della musica e lo studio di suo padre. «Non c’è nessuno. Se ne sono andati e ti hanno lasciato sola», mormora ridacchiando una voce nella sua testa. Amina si guarda intorno ma non vede nessuno. «Se ne sono andati a passeggiare, senza di te. Ti hanno lasciata sola, ma io non ti lascerò mai sola. Io e te siamo come sorelle», ripete la voce. La bambina guarda la sua nuova bambola: l’espressione, ne è sicura, è diversa. Invece di quella smorfia ambigua, ora sulla faccia del fantoccio è comparso un largo sorriso. Contessa Lavinia sembra felice che siano loro due sole. Amina si avvicina al grande portone d’ingresso e sbircia all’esterno ma non vede nessuno. «Ho ragione: se ne sono andati», aggiunge la bambola nella testa di Amina. «Quando torneranno gliela faremo pagare, non possono essere così cattivi verso di te». Una lacrima riga la guancia della bimba, che tira su col naso e si asciuga con una manica della camicia da notte. La mamma non approverebbe ma la mamma l’ha lasciata sola. «Sola», sussurra a se stessa e alla bambola. Si sente stanca e spaventata ma Contessa Lavinia la sprona. «Non vale la pena stare male per loro, sono solo stupidi. Impareranno che non ci si comporta così con noi».
Amina comincia a girovagare per le stanze, parlando con la bambola. In salotto nota i pendenti che lo zio Alfonso ha lasciato sul tavolo, ne prende uno e lo osserva: è una palla di metallo lucido. Lo scuote e dall’interno proviene un delicato tintinnio. «Le fate!», esclama Amina. «Lo zio ha fatto prigioniere le fate», ripete facendo risuonare i cinque gingilli. Questa volta la bambola non dice nulla. Amina cerca di aprirli per liberare le fatine, ma riesce a produrre solo una serie di differenti scampanellii. Vuole a tutti i costi liberare le fate, che sono rinchiuse dentro alle sferette argentate. Poi le viene un’idea. Appoggia con delicatezza la bambola sul piano di legno, quindi corre via. Si ferma a pochi passi dalla cucina, in punta di piedi percorre l’ultimo pezzo di corridoio e spinge piano la porta. Grazie al fatto che sua mamma odia i rumori molesti come i cigolii, ogni uscio della casa è ben oliato. Prende vittoriosamente possesso della cucina e si guarda in giro, nota un grosso coltello e pensa che è esattamente quello che ci vuole per rompere quelle brutte palle di metallo che tengono imprigionate le fatine. Lo afferra ed esce, tornando con cautela verso il salotto. Regge il coltello per il manico, tenendo la lama quasi all’altezza del viso. Gli occhi sono lucidi e si sente accaldata, ma non le sembra la solita febbre che la coglie quando si emoziona troppo. Si sente investita di un compito importante: liberare le fate. Quando raggiunge il tavolo del salotto è in preda ad un’eccitazione sconosciuta. Sorride a Contessa Lavinia e prende la prima sferetta, la posizione davanti a lei e la colpisce. L’oggetto, senza riportare scalfitture, rotola lontano. Amina appoggia il coltello e corre a riprenderlo. Prova una, due, più e più volte ma sempre con lo stesso risultato. Sente le lacrime salirle agli occhi, scuote i globi, producendo una cacofonia assordante di tintinnii. «Non riesco a liberarle. Non ci riesco». Piange e si siede in un angolo. La bambola stretta al petto, il coltello vicino e le cinque palle sparpagliate davanti. «É colpa dello zio se le fate sono rinchiuse lì dentro. E la mamma mi ha lasciata da sola. Non mi vuole più bene», ripete come in trance. Gli occhi sono vitrei e hanno assunto, forse per effetto della luce invernale che entra dal grande finestrone, una tonalità cerulea.
«Sono cattivi: hanno abbandonato te e guarda cosa hanno fatto alle fate», le ripete Contessa Lavinia, le labbra rosse appoggiate all’orecchio. «Meritano di essere puniti. Sono cattivi e non ci vogliono bene».
Il rumore dell’uscio che si apre e le risate di Francesca riportano Amina per un momento alla realtà. Si alza da terra e prende il coltello. Si avvicina all’ingresso e vede la mamma e lo zio che ridono e parlano. Federico sta salendo le scale insieme ad Anita.
«CAAATTTTIIIIIIVVVVVVVIIIII!», urla con quanto fiato ha in gola e si getta sulla mamma e Alfonso, alzando il coltello sopra la testa. Nonostante sia solo una bambina riesce a menare fendenti a destra e a manca, ferendo i due adulti. Alfonso prova a bloccare la ragazzina ma quella riesce, chissà come, a sfuggirgli. Gli occhi sono fissi e la bocca è spalancata in un ghigno terribile. I lineamenti delicati sono stravolti dalla ferocia. Sulle mani dell’omone compaiono striature rosse. Lasciando libero sfogo alla rabbia cieca che l’ha colta la bambina riesce anche a portare a segno qualche colpo e in pochi minuti madre e zio sono in terra, in una pozza di sangue, ma ancora vivi.
In cima alle scale compaiono Ettore, seguito a breve distanza da Federico, che ha udito a stento le urla belluine della sorella minore. Anita è al sicuro, in un’altra ala della casa, affidata ad una cameriera perché le faccia un bagno. «AMINAAAA», urla l’uomo ma la bambina sembra non sentirlo. Continua a colpire la madre e lo zio a turno con il coltello, come un’automa impazzito. La camicia da notte è chiazzata di rosso, come pure il viso e i capelli castani. Nell’altra mano regge la bambola che ha ricevuto in dono poche ore prima, anch’essa inzaccherata di sangue. «Amina, tesoro», comincia a blandirla Ettore, scendendo le scale e cercando di avvicinarla. Ode appena sua moglie gemere. «Tesoro, calmati, metti giù il coltello», cerca di richiamare la sua attenzione. 
Amina, di scatto, si volta verso di lui: il volto è un misto di odio ed estrema tristezza. «Le hanno uccise. Le hanno uccise. Le hanno messe nelle palle di metallo e ora non cantano più», urla con voce stridula. «E non ci vuole più bene. Più bene. Ci ha lasciato sole. A me e a Contessa Lavinia. Ci ha lasciate sole, sole, sole...Non ci vuole più bene», aggiunge, subito dopo, con voce atona. «Calma, calma. Piccola mia». Ettore le si avvicina e allunga una mano per toccarla ma lei fa scattare il coltello e lo ferisce al polso. Dietro di lei Alfonso è immobile e occhi vitrei si intravedono. Francesca gorgoglia, spruzzando saliva rossastra, mentre rivoletti rossastri percorrono le gambe poi tace anche lei.
Ettore fa un passo indietro, con una mano sbarra il passo al figlio maggiore, che l’ha raggiunto. L’ingresso della casa è ora immerso in un silenzio innaturale. Al centro della stanza Amina si riscuote e il coltello le cade di mano. Federico scende di corsa gli ultimi gradini e si getta sul corpo di sua madre, scuotendola ma senza avere risposta. Ettore scatta in avanti e recupera il coltello, che sistema su una mensola alta. 
Quando torna a dedicarsi alla figlia, lei lo guarda con aria spaesata: gli occhi sono vivide pozze nere, fino a poco prima - ne è più che certo - avevano sfumature di un azzurro pallido. Quasi identici a quelli della bambola, da cui sembra non voglia separarsi. Un comportamento fuori dalla norma, dato che Amina non ha mai amato le bambole. La figlia gli sorride, poi si avvicina tendendogli le braccia. Nel fare quel gesto le cade la bambola ma lei la ignora. Ettore non sa che fare, Federico piange, in terra, pochi metri più in là.
Improvvisamente l’ingresso si riempie di persone: cameriere, sguattere, la cuoca, Norvi. Tutti compaiono, richiamati probabilmente dalle urla e cominciano a parlare tutti insieme. Amina continua a guardare suo padre, le braccia aperte perché lui l’abbracci. Ettore non riesce a muoversi, o meglio: ad ogni passo della figlia per avvicinarsi lui arretra. 
A trarlo d’impaccio è una delle cameriere, che si mette sul passaggio di Amina e la prende in braccio. La bambina emette un urletto di protesta, poi accetta di farsi portar via. Contessa Lavinia resta sul pavimento, inzaccherata di sangue e con quel suo sorriso di traverso sul volto. Nessuno bada a lei. Una volta che Amina è stata allontanata, Ettore si riscuote a sua volta e riprende il solito piglio deciso, che lo caratterizza sia nella vita privata che negli affari. Si rivolge al maggiordomo.
«Norvi, avverti le autorità e fai in modo che tutto resti come è. E toglimi quella bambola maledetta dalla vista. Ricorda, alla cameriera di non mettere a lavare la camicia da notte di mia figlia, la polizia vorrà vederla», dice Ettore. E finalmente si fa vicino al figlio maggiore e si china ad abbracciarlo, in silenzio. Il vecchio maggiordomo ubbidisce, senza fiatare.
Norvi recupera la bambola e la consegna a una delle sguattere, ordinandole di portala alla signorina Amina, quindi si reca nello studio del padrone, dove si trova l’apparecchio telefonico e compone il numero della stazione di polizia del paese. Una volta comunicata la richiesta di far venire, con urgenza, qualcuno alla villa degli Ardigoti, si reca in cucina e parla con la cuoca, che si mette a preparare il caffè per i poliziotti e per il padrone.
«Sarà dura. Molto dura», commenta, prima di tornare nell’ingresso, a disposizione di Ettore e pronto ad accogliere la forza pubblica. La tragedia, per la seconda volta, incombe sulla famiglia.
In camera di Amina, Nina cerca di spogliarla ma la bimba scalcia e urla. Chiama la mamma, chiama il babbo. Piange e strepita. Quando Nina prende la bambola da Norvi e riceve la disposizione del padrone di mettere da parte l’indumento macchiato per la polizia, la bimba cerca di infilarsi nello spazio tra i due. «Mamma...Mamma...Mamma» ripete senza tregua ma Nina è veloce a prenderla in braccio e a riportarla sul letto. Le porge la bambola e Amina la guarda tra le lacrime e fa un passo indietro, cadendo sul piumone. Nina, senza perdere la calma, appoggia la bambola su un tavolino e poi torna ad occuparsi della bimba. «Su vieni - le dice con dolcezza, porgendole nuovamente la mano -. Togliamoci questa brutta camicia da notte e mettiamoci un bel vestitino». Amina afferra la mano e viene tirata in piedi di nuovo, Nina afferra l’orlo, stando ben attenta a non toccare le zone sporche, tira la stoffa arrotolandola pian piano e infine facendola passare sopra la testa. L’indumento finisce sul tavolo, accanto alla dimenticata Contessa Lavinia. Recupera il catino con l’acqua, posto sotto il comodino. Pulisce il viso e le mani della bambina, quindi le fa indossare, sopra alla biancheria miracolosamente pulita, un vestitino di percalle rosa e un paio di pantofole in tinta. La mette a terra e, afferrandole la manina, la conduce da suo padre, che si è ritirato nel suo studio privato, poi torna nella cameretta dove prende camicia da notte e bambola e li porta da Norvi, che a sua volta li pone sulla stessa mensola dove Ettore ha messo il coltello.
La casa e i suoi abitanti restano in attesa dell’arrivo della polizia, nessuno ha pensato a coprire i corpi martoriati di Francesca e dello zio Alfonso. I due cadaveri giacciono nell’ingresso fissando il soffitto.
LE FATE NON CANTANO PIÙ -
Nina bussa allo studio di Ettore, l’uomo apre l’uscio e fissa la cameriera, con una punta di stupore negli occhi. Accanto alla ragazza nota la figlia, ora ripulita dal sangue della madre e dello zio. «Signore - comincia Nina, arrossendo per l’evidente imbarazzo -. Forse è meglio che si occupi di Amina prima dell’arrivo...». Non riesce a finire la frase, fa una rapida riverenza e corre via, in direzione della cucina. Ettore la osserva scendere le scale veloce e dirigersi verso la cucina. Dallo studio non riesce a scorgere i corpi abbandonati dello zio e della moglie. Sente che dovrebbe essere, in qualche modo, in preda alla disperazione per la perdita di Francesca: non può negare a se stesso di aver amato - di amare ancora, gli mormora una vocina nella sua testa - la donna di un sentimento profondo. É conscio che i suoi occhi asciutti e l’essersi ritirato nello studio saranno considerati in modo strano dalle autorità. Ha spesso letto sui giornali di fatti di sangue e ha imparato, dalle enfatiche parole dei giornalisti, come un comportamento identificato come “fuori dal normale” può risultare pericoloso.
Ettore volge lo sguardo su Amina, che gli sorride. All’uomo appare la solita bambina, sembra inconsapevole di quello che ha fatto, i suoi occhi castani sono lucenti e appare tranquilla. Nessuna traccia della maledetta bambolotta che lo zio Alfonso le ha regalato poche ore prima. «Avanti, entra», si risolve a dirle, si scosta per permetterle di passare e poi si chiude la porta alle spalle. Ettore si sente a disagio insieme alla figlia come spesso gli è capitato.
Senza degnarla di ulteriore attenzione Ettore torna alla scrivania, recupera il pregiato libro di storia e si accomoda sull’ampia poltrona. Nel camino un grosso ciocco di legno arde allegramente e riscalda l’ambiente. La lampada diffonde una luce morbida e gialla. Un ambiente calmo e lontano dalle brutture del mondo.
«Papà mi leggi questo», Amina si arrampica sulle ginocchia di Ettore e punta il dito sulla pagina, producendo un secco fruscio. L’uomo si trattiene a stento dallo scostarsi con un gesto di ribrezzo, non tanto per quello che ha appena compiuto la bimba quanto per una sua naturale avversione per i bambini. Solleva il volume in modo da permettere alla figlia di sistemarsi poi pone il libro sulle sue ginocchia pallide e comincia a leggere. Amina appoggia la testa sulla sua spalla, rilassata e sorridente, mentre ascolta con espressione assorta.
La scena, vista da un casuale visitatore, apparirebbe deliziosa ma ad un osservatore più attento non sfuggirebbe l’espressione tirata del viso dell’uomo, senza difficoltà potrebbe riconoscere la fatica compiuta nei confronti dell’inconsapevole figlia.
Non son passati nemmeno quindici minuti da quando Amina è stata consegnata da Nina al padre, un forte bussare interrompe la lettura. Ettore intima alla figlia di scendere e si alza a sua volta. Con poche falcate è alla porta e la apre: si trova di fronte Norvi, più grigio del solito. Il maggiordomo si inchina rispettosamente e con poche frasi concitate lo avverte che di sotto la polizia è arrivata e richiede la sua presenza.
Ettore deglutisce e porta le mani al collo, si sistema la cravatta e poi supera il domestico. «Accompagnala tu di sotto, ma passa dalla cucina e controlla che sia in ordine», gli mormora prima di scomparire. Amina fa per seguirlo ma Norvi la ferma. «Signorina Amina, venite». Le prende la mano e l’accompagna verso la cucina. «Dove è la mamma?», chiede, a metà corridoio Amina. Norvi si ferma e si volge a fissarla: lei gli sorride, gli occhi castani brillanti. «Andiamo signorina», ripete, senza rispondere alla domanda.
Il vecchio e la bimba percorrono in silenzio il resto del corridoio, in pochi minuti sono in cucina. Nell’ampio ingresso della villa, con il marmo rosa scurito dal sangue rappreso, Ettore sta parlando con il commissario di polizia . É un uomo azzimato, magro e con due occhi neri acuti e profondi che, da sotto un Fedora di panno nero, scrutano l’uomo di fronte a lui.
«Ero nel mio studio, a leggere un libro di storia - racconta Ettore, cercando di ricostruire nel modo più preciso possibile i fatti. Sente il viso avvampare e le lacrime pungergli le ciglia ogni volta che ripensa a ciò che è successo e alla perdita che ha subito -. Mia moglie Francesca, insieme a mio zio Alfonso, era uscita per una passeggiata nel parco. Con loro erano andati anche nostro figlio maggiore Federico e l’altra figlia Anita. Amina era rimasta a casa per un po’ di febbre. Non so dire cosa sia successo ma ad un certo punto ho sentito delle urla e un gran trambusto provenire dall’ingresso». Il signor Ardigoti si blocca un momento, trattenendo il respiro. Davanti agli occhi scorrono le immagini terribili: Amina, il sangue, il coltello, la maledetta bambola Contessa Lavinia coperta di rosso. Il commissario Vanni Ragato annuisce e attende. Ettore si schiarisce la voce e prosegue. «Sono uscito e ho visto - si blocca di nuovo, poi si fa coraggio e prosegue nel racconto -...ho visto Amina davanti ai corpi di sua madre e suo zio. In mano aveva un coltello e la camicia da notte, la faccia...tutto insanguinato». 
Si guarda in giro, con espressione attonita: vede i poliziotti che si agitano. quando è sceso chiamato da Norvi ha notato che i corpi Francesca ed Alfonso erano stati coperti da un lenzuolo, poi scoperti per essere mostrati all’anatomopatologo, poi nuovamente nascosti, infine dovevano essere stati portati all’obitorio. Qualcuno gli deve aver detto che entro fine settimana i corpi saranno restituiti alla famiglia, in modo da poter esser celebrate le esequie.
Il solerte Norvi, impassibile come sempre, ha consegnato agli sbirri la camicia da notte di Amina e il coltello, entrambi avvolti in un panno in modo da non comprometterne l’integrità come prove. Anche la bambola Contessa Lavinia è finita in una busta delle forze dell’ordine. Sarà analizzata dagli esperti quale prova. Ettore, mentre la stanno imbustando, afferma, «Potete tenervela. Non vogliamo più vederla». Il commissario lo guarda e ribatte «Forse sua figlia la rivorrebbe indietro, una volta completata l’indagine», ma si pente immediatamente di quanto detto: la bambola è insanguinata tanto quanto i corpi martoriati dal coltello. Impossibile che torni pulita. 
«É colpa di quella maledetta bambola se è successo tutto...se Amina ha accoltellato sua madre. É colpa sua», sbotta Ettore con rabbia senza riuscire a trattenersi. Da quando ha trovato sua moglie e lo zio morti è la prima volta che la sua voce si incrina ad un’emozione. Rotto l’argine la disperazione sfocia in lacrime
Il commissario Ragato fissa l’uomo: in paese ha fama di studioso e di letterato. Spesso è stato indicato come persona molto colta e intelligente e, soprattutto, non ha l’aspetto di uno sprovveduto, uno che crede alle storie di bambole maledette e storie simili. «Scusi, in che senso?», gli chiede, cercando di apparire gentile. Ragato è un poliziotto dal carattere rude e dai modi spicci, abituato più a trattare con i criminali che con le vittime. Ettore lo fissa: devono essere circa coetanei ma non potrebbero essere più diversi: l’uomo di legge con lo sguardo sveglio dai modi bruschi e lui, studioso e con uno scarso rapporto con la realtà. 
Ettore si sente perduto senza Francesca, è - era - lei che si occupava di tutto: dalla casa ai bambini. «Scusi, diceva», sospira Ettore cercando di concentrarsi per rispondere alle domande. «Stia tranquillo - lo rassicura il commissario -. Diceva, poco prima, che è stata la bambola. Cosa intende? Mi pare che mi abbia detto che è stata Amina a compiere...». Sta per dire “massascro”, ma si blocca. Si sistema il Fedora e cerca di sorridere, sperando di essere accattivante e rassicurante.
Ardigoti asserisce, «Amina ha delirato qualcosa a proposito di fate, della bambola e che era stata abbandonata. Ha detto che sua madre non voleva più bene a lei. E anche alla bambola». Ettore si afferra la testa, come colto da un malore. «Posso sedermi?», chiede mentre le mani cominciano a tremare: una reazione nervosa. Ragato fa un cenno positivo e Ettore si dirige nel salone. 
La maggior parte degli agenti ha lasciato la casa e tutto sembra di nuovo normale e tranquillo. Il sole è scomparso e qualcuno ha acceso le lampade. 
Ettore si lascia cadere sulla sua poltrona, mentre il commissario ammira lo sfarzo dell’ambiente, poi il suo sguardo viene catturato dalle palle color argento. Si avvicina e con attenzione ne prende in mano una, quando la solleva dall’interno si sprigiona una sinfonia di scampanellii. «Le fate - urla Amina entrando di corsa nella sala -. Le fate, non fare del male alle fate. Le hanno uccise. Povere fate».
Ettore si alza di scatto e si dirige dalla figlia. La prende in braccio e fa per uscire dalla stanza per riportarla in cucina. In mezzo all’ingresso trova Nina. «É scappata», si scusa la ragazza e fa per prendere a sua volta Amina in braccio quando il poliziotto emerge. «Per favore, vorrei parlare con lei...In sua presenza, ovviamente, signor Ardigoti».
In fondo, pensa Ettore, non ha torto dato che Amina ha commesso gli omicidi. L’idea gli mette i brividi ma per quanto terribile sia l’idea è solo la nuda e cruda verità e dovrà imparare a conviverci per il resto della vita. Torna meccanicamente indietro e insieme alla figlia si siede sul divano. Ragato li raggiunge e, prima di chiudere le porte del salone alle sue spalle, lancia un’occhiata alla cameriera, che se la da a gambe scomparendo in cucina.
Lo sconosciuto raggiunge padre e figlia, sorride e torna al tavolo. Le strane sfere sono ancora sparpagliate sul piano, Ragato ne afferra una e la mostra ad Amina. La ragazzina l’afferra e la struscia sulla guancia. «Povera fata - mormora -. Povera fatina. Ti ha uccisa», si stringe al petto la palla e poi la bacia e una lacrima riga la guancia pallida. Ettore le accarezza i capelli con dolcezza, lei solleva gli occhi castani verso di lui e gli riserva un mesto sorriso. Ettore sente che sta per cedere e si alza, rifugiandosi nella sua poltrona. Ragato prende il suo posto, vicino ad Amina. Il gingillo è ancora stretto tra le mani. Il commissario si chiede come rivolgersi alla ragazzina, i bambini lo mettono ancor più a disagio degli adulti. Prima che riesca a dire qualcosa è lei che si rivolge a lui. «Lo zio aveva ucciso le fate, io ho dovuto punirlo. Non si uccidono le fate. Ora non cantano più». Scuote l’oggetto ma non proviene alcun suono. Ragato la fissa, stupefatto. «É morta», dice Amina con voce atona.
Il commissario sta per rivolgerle una domanda quando la bambina comincia ad essere scossa da un tremito. L’uomo fa un balzo indietro mentre il padre si alza di scatto e la prende al volo, prima che rovini a terra. Della bava esce dalla bocca e gli occhi sono rovesciati all’indietro. «É meglio portarla in ospedale. L’accompagno io», Ragato guida l’uomo con in braccio la bambina alla porta e poi verso la sua auto. Amina tra le braccia del padre continua ad essere scossa da quella che sembra una crisi epilettica molto grave.
Ragato guida veloce verso il paese, la nebbia avvolge il paesaggio invernale come una coperta grigia spessa e pesante e rende quasi impossibile scorgere la strada.
Con uno stridio di freni la macchina si ferma davanti al piccolo nosocomio e Ragato balza fuori, circumnaviga il mezzo e aiuta Ettore ad uscire poi entra di corsa. Facendo valere il suo tesserino di commissario requisisce un medico del turno di notte e lo scorta fino all’ingresso. Ora Amina è calma, tra le braccia del padre. Il medico fa cenno ad un’infermiera e fa strada al poliziotto e all’uomo con la ragazzina fino ad un ambulatorio. Si presenta velocemente come Antonio Malvaldi, anche lui da poco è stato trasferito da un’altra sede per sostituire il vecchio primario, che è andato in pensione qualche mese prima.
Ettore adagia Amina sul lettino sistemato a sinistra e le accarezza il viso, umido ma freddo al tatto. «Povera figlia mia», mormora. Intanto il commissario ha fatto un riassunto della situazione al medico. «É stato il primo caso di, diciamo, atti convulsori?»; domanda. Ardigoti annuisce, «Per quel che ne so...Ma Francesca me l’avrebbe detto, se avesse avuto qualche problema di salute. É sempre così attenta. Amina le crea sempre così tante preoccupazioni...», aggiunge senza distogliere lo sguardo dalla bimba, che riposa sulla branda.
L’uomo in camice bianco, sgualcito quasi quanto il suo viso asciutto, si siede alla scrivania. «Le cause di questo evento potrebbero essere molteplici e dovremo sottoporla ad esami per accertarne l’origine». Gli occhi sono arrossati dalla mancanza di sonno ma lo sguardo è attento e vigile. «Potete lasciarla qui per stanotte e domani mattina ce ne occuperemo», aggiunge il dottor Marvaldi, cercando di mostrarsi rassicurante.
Ettore lancia un’occhiata al commissario, che si fa avanti. Si schiarisce la voce e cerca, con tatto, di spiegare la situazione.
«Mi rendo conto che l’ora è improba ma questa bambina è parte importante di un’indagine di polizia e deve essere ancora interrogata». Dal lettino Amina emette un singhiozzo e suo padre le si fa vicino. «Si sta svegliando», comunica. La voce gli trema ma non è chiaro se per l’emozione o per la preoccupazione.
Malvaldi si alza e si avvicina, la bimba lo guarda con occhi lucidi di febbre. Il viso è arrossato ma sorride. Il poliziotto resta in disparte ad osservare la scena, sposta il peso del corpo da un piede all’altro e alla fine raggiunge i due uomini. Fa un cenno al dottore e chiede se la bimba possa rispondere ad alcune domande. 
«Sarebbe meglio aspettare domani pomeriggio», risponde Malvaldi tornando alla scrivania. «Non vorrei che si agitasse nuovamente, scatenando un altro episodio convulsorio o reazioni peggiori. Non sappiamo nulla, per il momento». Poi si rivolge, di nuovo, ad Ettore: «Se riusciste a procurarvi qualche informazioni dal medico di famiglia sulla salute di vostra figlia...sarebbe per noi molto utile». Ardigoti annuisce. «Il nostro medico di famiglia è il dottor Fausto Cernaja, il numero dello studio e del’abitazione coincidono». La risposta è vaga, sintomo del disinteresse che l’uomo deve aver riservato alle piccolezze legate alla famiglia.
Amina comincia ad agitarsi, cercando di mettersi seduta. «Calma, calma», la ammonisce Ettore ma il medico lo esorta a lasciarla fare. Le si avvicina e le sorride. «Come ti senti?», le chiede con garbo. Amina trae un lungo sospiro e mormora un bene, poco convinto, cui fa seguito un lungo sbadiglio.
Malvaldi sorride e con un interfono convoca un’infermiera e le affida la piccola Ardigoti, raccomandandosi di metterla in una camera da sola. 
Ragato è sempre più impaziente ma non può fare molto, non vuole correre il rischio di ritrovarsi con una denunzia perché ha sottoposto ad interrogatorio una bambina malata. Anche se si tratta di un’omicida.
Rimasti soli il commissario si offre di accompagnare Ettore a casa. «Tornerò domani pomeriggio a prenderla, se lo desidera», ma quello scuote la testa. «Se non è un problema per il dottore preferirei dormire qui...per non lasciare Amina da sola. É una bambina così fragile, alle volte. Da qualche tempo Francesca si lamentava di improvvisi momenti di debolezza e febbre alta o improvvisi attacchi di sonnolenza, che si manifestavano nel corso della giornata». Il medico non obietta, sebbene il regolamento del piccolo nosocomio non lo permetterebbe ma si rende conto che quella è una situazione anomala.
Per quanto nessuno dei due gliel’abbia palesemente detto, è chiaro che sono coinvolti nel brutale duplice omicidio che si è consumato poche ore prima a Villa Primavera. Non riesce a capire quanto sia coinvolta la piccola ma, dalle reazioni del poliziotto, sembra che abbia un ruolo centrale nella tragica vicenda.
«Arrivederci. Tornerò domani pomeriggio. Spero che per allora sia possibile parlare con la bambina», saluta Ragato, poi scompare fuori dall’ufficio. L’ultima avvisaglia della sua presenza è il rombo della macchina che si allontana nella notte.
Il medico e il padre di Amina sentono l’assenza del poliziotto in modo fisico. L’uomo senza il camice si appoggia al lettino e nasconde il viso tra le mani: contro i palmi sente le lacrime pungere e il corpo scosso dai tremiti.
Il medico resta in disparte, dall’armadietto alla sua destra una boccetta contenente un liquido trasparente, ne versa alcune gocce in un bicchiere e vi aggiunge dell’acqua quindi lo porge ad Ettore. «Beva. La calmerà», gli dice, affabile. Ettore si scola in un sol sorso il liquido trasparente, è amarognolo e gli ricorda una medicina che sua madre gli somministrava da bambino. Man mano che l’ansiolitico fa effetto sente una strana calma impossessarsi di lui. «Posso andare da Amina?», domanda al dottore, che gli fa strada. Il piccolo ospedale è silenzioso, i malati riposano e il personale del turno di notte si è preso una pausa prima di tornare ai propri doveri. In una saletta alcune infermiere sorbiscono una tazza di tea caldo, sperando che nessuno per qualche decina di minuti abbia bisogno di loro.
La piccola è stata sistemata in una bella cameretta, con due letti. L’abito è ben piegato su una sedia e ad Amina è stata fatta indossare una camicia da notte di cotonina bianca. Sta dormendo e si tiene stretta una ciocca di capelli. Il letto di fianco è libero ed è stato preparato. Ettore si siede sulla sponda e comincia a togliersi le scarpe. La stanchezza ha preso il posto alla rilassatezza di pochi minuti prima, Malvaldi gli lancia un’occhiata e gli dice: «Vado a vedere se le trovo un pigiama e una vestaglia», prima di scomparire in corridoio. 
Ettore guarda l’orologio, sono le 11.45. A casa si staranno chiedendo che fine possono avere fatto, pensa che forse avrebbe fatto meglio ad accettare il passaggio del poliziotto e poi avrebbe sempre potuto far ritorno all’ospedale con la sua macchina. «Avrei potuto prendere anche il necessario per domani», si dice togliendosi la camicia poi i pantaloni. Con cura piega gli abiti e li dispone su un tavolino, si siede sul letto attendendo il ritorno del medico.
Sente Amina lamentarsi nel sonno, come se stesse avendo un brutto sogno. La mancanza di Francesca si ripresenta con prepotenza e sente nuovamente le lacrime salirgli agli occhi.
Malvaldi riappare alle sue spalle, reggendo degli abiti candidi e glieli porge. Ardigoti indossa la casacca e i pantaloni del pigiama. Sono puliti e freschi di bucato. «Grazie», mormora con riconoscenza, mentre il medico lo accompagna a letto e lo aiuta a infilarsi sotto le coperte. «Cerchi di riposare», gli dice lo specialista. «Domani visiteremo sua figlia e vedrà che andrà tutto bene» poi esce e socchiude la porta ma viene fermato dall’uomo. «Aspetti, voglio spiegarle - comincia a parlare -. Usciamo». A piedi nudi lo raggiunge ed esce in corridoio. Chiude la porta. «C’è una cosa che non le ho detto, prima, su Amina - Ardigoti è visibilmente agitato, nel tentativo di raccontare con chiarezza mentre la sua mente si fa sempre più confusa -. Da dopo la tragedia la salute della bambina è andata peggiorando, ma il nostro dottore ci ha assicurato che sarebbe migliorata...che ci voleva solo del tempo». Malvaldi ascolta attentamente, la memoria di Ettore si scioglie e riassume tanti piccoli avvenimenti, dispersi nella quotidianità. La narrazione manca di elementi e particolari ma riesce a dare un quadro abbastanza generale delle condizioni della bambina al dottore. «Grazie, ora vada a risposare. Ne ha bisogno», gli dice aprendo la porta, poi fa un cenno con la mano e si allontana verso le scale. Intorno tutto è bianco e silenzioso. 
Ettore torna a letto, rabbrividendo e cerca conforto tra le coltri. Cede ad un sonno chimico e senza sogni, in cui sono lavate via le emozioni violente vissute quel giorno. Il medico torna nel suo studio e dall’armadio di metallo trae alcuni volumi, che dispone sulla scrivania. Prima di immergersi nella ricerca di qualche informazione che possa fare chiarezza sullo stato di salute della piccola Ardigoti, chiama una delle infermiere e le chiede di cercare il numero di telefono del dottor Cernaja. La donna prende il foglio con le informazioni e torna al gabbiotto della telefonista, mettendosi a scartabellare l’elenco telefonico. Per sua fortuna in paese c’è un solo Fausto Cernaja, medico generico e meno di un quarto d’ora dopo consegna il biglietto con il numero al suo capo. «Grazie Gabriella, sarebbe così gentile da portarmi una tazza di caffè». La donna fa un cenno d’assenso ed esce, dirigendosi alla sala riunioni, dove è a disposizione del personale una macchina per preparare bevande calde. 
Intanto il primario apre i libri, alcuni se li è portati dall’università e altri li ha acquistati recentemente: in essi spera di trovare una risposta ai sintomi presentati da Amina Ardigoti.
Un lieve bussare lo distrae dalla sua lettura. Gabriella, la caposala, entra reggendo una tazza fumante. «Eccola, cerchi di non stancarsi troppo», gli si rivolge con una certa apprensione. Malvaldi aspira l’odore intenso del caffè e l’appoggia sul tavolo, distante dai libri ma abbastanza vicina da essere raggiunta allungando il braccio.
«Mi sembra di essere tornato a quando preparavo l’esame di chirurgia», ride ma l’infermiera resta seria. «Io vado - dice, guardando l’orologio che le pende sul petto -. É ora del giro». A passo di carica esce e Malvaldi può tornare ai suoi libri.
Man mano che spulcia tra le pagine e i capitoli dei grossi tomi, .un sospetto si insinua e scava nella sua testa come un verme nella terra e si artiglia ai suoi pensieri. 
Prende appunti e fa schemi, cancella opzioni e ne aggiunge altre: alle tre di notte, infine, sembra essere giunto ad una conclusione ma sa che ci vorranno esami specifici per sapere il suo sospetto è corretto oppure no. In fondo spera di essersi sbagliato. Si stira e stropiccia gli occhi, carica la vecchia sveglia che gli ha regalato sua madre quando si è laureato e si sdraia sulla branda, prendendo subito sonno.
Dall’altra pare del villaggio, in un appartamento spoglio, messo a disposizione dal comando provinciale, il commissario Vanni Ragato si rigira nel letto. É arrabbiato con se stesso per aver ceduto alla richiesta del padre dell’assassina e si chiede che cosa diranno i superiori del suo comportamento. «In un posto peggiore di questo non possono spedirmi», si ripete, avvolto nelle coperte, fissando il soffitto. 
Senza aver chiuso praticamente occhio per buona parte della nottata, alle sei si alza e si prepara. Albeggia appena quando scende in strada, il bar all’angolo sta aprendo e lui si infila dentro, aiutando il ragazzo a sollevare la serranda.
Lo accoglie il barista, un giovanotto allegro e socievole. Ordina un cappuccino e lo scola così: bollente e senza zucchero. Paga e se ne va. In tutto non ha pronunciato più di dieci parole.
La sua meta è, prima di tutto, il comando. Fa qualche domanda in giro chiedendo di leggere il rapporto sull’omicidio in casa Ardigoti e domanda se si sa qualcosa dal medico legale o dal laboratorio, dove sono stati spediti la camicia da notte, il coltello, la bambola e le forbici. Le risposte che ottiene gli fanno capire che è meglio desistere. «Vado», dice al piantone e quello non fa in tempo a chiedergli dove, che è già scomparso. 
Sale in macchina e si dirige all’ospedale. Vuole ignorare che lo spaccaossa gli ha detto di presentarsi nel pomeriggio, e comunque ha deciso di seguire da vicino tutti gli esami a cui Amina Ardigoti sarà sottoposta: dopotutto è pur sempre l’autrice di uno dei più efferati omicidi di cui si sia occupato durante tutta la sua carriera. Non vuole rischiare di perdersi un indizio.
Parcheggia il più lontano possibile e marcia verso l’ingresso, si confonde con i parenti dei ricoverati. Alla reception scorge una bella ragazza, vestita con la divisa da ausiliaria e fa per avvicinarla ma è intercettato dal dottore Malvaldi. L’uomo appare ancor più spiegazzato del giorno prima. «Speravo proprio che si presentasse», gli dice, afferrandolo per un braccio e tirandolo verso il suo studio. Ragato sente i peli del collo drizzarsi e sa che non è un buon segno. Il primario chiude la porta e lo invita a sedersi. «Perdoni il mio modo di fare un po’ brusco, ma ho bisogno di parlare con lei. Ieri non c’è stata occasione». 
Tace un momento e prende fiato. «Solitamente non mi immischio in questioni dove è coinvolta la polizia, ma dato che sembra che quella bambina, malata per di più, sia per voi così importante, mi sento in dovere di non lasciare nulla al caso. Sarebbe, quindi, così gentile da dirmi in che modo quella povera creatura è coinvolta con il suo duplice omicidio?».
Ragato sente un raschio in gola mangiarsi le parole. «L’ha commesso». La frase è buttata lì, come se fosse la risposta più ovvia. «Così ci è stato riferito dal padre, dal maggiordomo, da tre cameriere e dal fratello maggiore, sebbene nessuno l’abbia vista materialmente commettere il reato. É stata trovata con in mano l’arma, dal padre. Non abbiamo motivo di credere che sia stato qualcun altro, a questo punto dell’indagine anche se io sarei più contento che venisse fuori. Non mi piace l’idea che una bimba di dieci anni abbia commesso un duplice efferato omicidio», aggiunge. «Altri particolari non posso rivelarli, sono protetti dal segreto istruttorio. Le sto anche dicendo più di quello che sarei autorizzato a fare in circostanze più normali, ma mi rendo conto della particolarità della situazione e penso che sia più utile averlo come alleato che dover combattere con lei».
Ragato si zittisce e pensa che avrebbe bisogno di una sigaretta, per calmarsi e schiarirsi le idee. «Sarebbe utile, per noi, riuscire almeno a prendere le impronte alla bambina e anche al padre. Ci servono per il confronto. Ieri non siamo riusciti». Aggiunge in un secondo momento, titubante.
Il medico accenna ad un sorriso schivo ma torna subito serio: «Al momento la bambina deve stare tranquilla, prima di avere i risultati degli esami non mi sento di sottoporla ad alcun tipo di stress inutile. Per quel che riguarda il padre potete agire come meglio credete, senza dimenticare che vi trovate in un ospedale e dovete tenere un certo contegno».
Ragato sa che è improbabile riuscire a trovare qualche residuo addosso alla piccola ma continua a sperarci. Sarebbe un bel colpo di fortuna. «Potete almeno far consegnare ai nostri gli abiti che aveva indosso ieri? Per vedere se ci sono residui, che potrebbero aiutarci a sbrogliare la matassa di questo strano caso».
Malvaldi si accarezza il mento, con aria dubbiosa. «Per gli abiti non ci sono problemi, spero solo che non siano già stati lavati. Manderò subito un’infermiera a prenderli e glieli farò portare. Mi attenda qui». Malvaldi si alza ed esce, sulla porta ferma una giovane e parlottano per un lungo momento quindi rientra. Si siede di nuovo e attende, in silenzio. Ragato si sente a disagio ma non osa. 
L’uomo di legge non sa se sia opportuno raccontare al medico la storia delle fate, dei gingilli argentati, della bambola ma pensa che per quello ci sarà tempo.
Un bussare delicato attira l’attenzione dei due uomini e l’infermiera di poco prima entra, reggendo una busta di plastica trasparente contenente un abitino da bambina. Pulito. Poi si ricorda: non è quello che aveva indosso quando aveva commesso i delitti. Cercando di apparire cordiale lo afferra e lo appoggia vicino alla sedia, quindi ringrazia con un cenno la donna. Il medico la invita ad uscire con un movimento della mano.
Quando sono di nuovo soli Malvaldi ricomincia ad accarezzarsi il mento. «Prima che parliate di nuovo con Amina Ardigoti, voglio che gli esami che ho ordinato questa mattina siano completati. Ho fatto delle indagini, confrontando informazioni datemi dal padre e sto attendendo anche che il medico di famiglia arrivi. Se avete tempo potete aspettare. Penso che possa essere utile per le indagini. Dovete solo pazientare. Se volete posso farvi portare qualcosa».
Il commissario si passa una mano sul viso, dovrebbe passare al comando per consegnare un primo rapporto ai suoi superiori ma non saprebbe scrivere molto di più rispetto alle poche informazioni che ha già messo nelle loro mani. E per i quali si è preso non poche occhiatacce di biasimo. Come se fosse colpa sua se una bambina isterica aveva preso a coltellate mamma e zio a pochi giorni dal natale e dai giorni di riposo per molti di loro.
«Grazie dell’opportunità, professore - risponde -. Se non le dispiace esco a fumare una sigaretta poi magari, se fosse possibile, avere un caffè». Ragato si alza e si reca alla porta. Il medico, dopo aver parlato con la caposala, gli si avvicina e lo accompagna in corridoio. «Quando avete finito tornate pure al mio studio. Adesso devo andare a fare un giro di visite ma tornerò in breve tempo. Poi discuteremo della faccenda».
Il commissario esce e assapora l’aria fresca del mattino dicembrino. Si ravvia una ciocca di capelli e si accende la sigaretta. Aspira a lungo e lentamente, godendosi ogni boccata. Appoggiato ad un muretto osserva il via vai di medici e dei parenti in visita.
Dopo aver gettato il mozzicone Ragato rientra e attende il dottor Malvaldi in corridoio, sentendosi in imbarazzo ad entrare nel suo studio senza di lui. Mentre aspetta il medico vede arrivare un signore trafelato. Non è tanto alto e  regge una borsa da medico. Si rivolge ad una donna in divisa da ausiliara, «Cerco il dottor Malvaldi, sono Fausto Cernaja». Quel nome accende una lampadina nella testa di Ragato, che si fa avanti e allunga la mano all’uomo. «Commissario Vanni Ragato, piacere». L’uomo lo guarda poi a sua volta allunga la destra e gliela stringe. «Piacere. Sto cercando il dottor Malvaldi, mi ha chiamato ieri per una questione inerente Amina Ardigoti. Spero che non le sia successo nulla di così grave da richiedere la presenza della polizia».
Ragato si schiarisce la voce e sta per rispondere quando dal fondo del corridoio compare Malvaldi. Li raggiunge e chiama, di nuovo, la caposala. «Per favore, ci porti tre caffè e magari qualche cornetto, anzi a me porti un cappuccino. Non ho ancora mangiato nulla da ieri. Per favore mandi Ottone al bar. Prego seguitemi». Il medico fa cenno ai due uomini di seguirlo nello studio, sventolando una cartella recante il nome di Amina Ardigoti.
La capo sala scuote il capo mentre torna alla reception, compone un numero interno e dopo poco ecco giungere un ragazzone grande e grosso dall’espressione pacifica e sorridente. 
Confabula brevemente con lui e gli mette in mano due banconote. Quello scatta sull’attenti poi esce. Pochi minuti dopo si lancia, a bordo di una vecchia motoretta, giù dalla strada.
Intanto nello studio privato del medico, i tre uomini chiacchierano in attesa della colazione. Cernaja è a disagio e continua a sistemarsi la cravatta, Ragato trattiene la necessità di fumare una sigaretta. «Appena bevuto il caffè parleremo. Mi sono stati appena consegnati gli esami di Amina e vorrei discuterne con voi, dottor Cernaja. Quanto a voi, commissario, avrete preziose informazioni da dare ai vostri capi. Informazioni che spero vi aiutino nelle vostre indagini».
Cernaja lancia un’occhiata storta al poliziotto poi al medico poi di nuovo al poliziotto. «Posso sapere come mai mi ha chiamato. É successo qualcosa di grave alla bambina?». Malvaldi ignora la domanda e si appoggia allo schienale della poltrona e intreccia le mani dietro la testa. Ragato non sa se rispondere al posto del primario, alla fine preferisce tacere e osservare lo svolgersi della vicenda.
Dieci minuti dopo qualcuno bussa alla porta e Ottone fa il suo ingresso reggendo un vassoio coperto. Con abilità lo appoggia sulla scrivania e lo scoperchia, rivelando tre cappuccini fumanti e paste di vario genere. Il barista ha fatto un ottimo lavoro. Vedendo i croissant freschi, Ragato si rende conto di aver fame. «Grazie Ottone», gli dice il dottore afferrando un grosso cornetto. L’uomo scatta sull’attenti e sorridendo esce, tornando alla sua mansione di magazziniere.
Gli uomini si godono il rinfresco in silenzio e quando hanno infine finito, Malvaldi si occupa di liberare il tavolo. «Ora alle faccende serie», esordisce prendendo la cartella. «Per prima cosa, grazie di essere venuto con così breve preavviso, dotto Cernaja. Questi che ho qui con me sono gli esami cui ho fatto sottoporre Amina Ardigoti. Per prima cosa, penso debba sapere cosa è successo perché la bambina sia ricoverata qui e può farlo in modo esaustivo il commissario».
Ragato trae un lungo sospiro e si stropiccia le mani. «Ieri pomeriggio Amina Ardigoti ha ucciso a coltellate sua madre e suo zio, senza apparente motivo. Sia al momento dell’atto criminoso che in seguito, rispondendo a mie domande, ha parlato in modo sconnesso riguardo a fate morte, all’essere stata abbandonata dalla mamma». Malvaldi sgrana gli occhi, quella manciata di notizie conferma le scoperte fatte durante la sua ricerca. A quella notizia Cernaja quasi cade dalla sedia dalla sorpresa e fa cadere la borsa da medico, che ancora tiene stretta al petto.
«Come è stato possibile? Quando l’ho visitata l’ultima volta, tre mesi fa, mi è sembrata tranquilla. Da dopo la tragedia ha fatto molti miglioramenti importanti», quasi urla, con voce stridula.
«Che tragedia?», chiede Ragato, lasciando venir fuori la sua anima da segugio.
L’uomo sgrana gli occhi e inizia a raccontere. «Amina aveva una sorella gemella identica, Flavia. Come spesso capita in questi casi, le due bambine erano molto unite. L’inverno passato Flavia ed Amina hanno contratto una brutta forma di polmonite, che ha minato il loro fisico. Contro ogni previsione sono guarite ma Flavia è rimasta molto debole e la primavera seguente, durante un’escursione, ha avuto un incidente. Per quasi due settimane ha lottato ma non ce l’ha fatta. Da allora Amina ha cominciato ad avere problemi caratteriali. Ettore e Francesca si sono rivolti a me e insieme abbiamo cominciato un percorso per cercare di capire come procedere. Tre mesi fa ho visitato Amina e l’ho trovata migliorata». Il medico di campagna tacque, Malvaldi e Ragato si lanciano un’occhiata perplessa. Questa nuova informazione chiarisce un quadro prima nebuloso.
«Le avete fatto delle visite di tipo psicologico più che mediche, se non ho capito male», domanda il primario e l’altro annuisce. Senza aggiungere altro gli passa la cartella e quello legge velocemente.
«Non è possibile», sospira infine. «Avrei voluto sbagliarmi ma purtroppo non è così: quella bambina sta molto male e starà sempre peggio».
«Se potete spiegare anche a me», interviene il commissario, che ha tirato fuori taccuino e penna.
«Amina Ardigoti ha un medulloblastoma», la voce di Malvaldi suona cupa. Il viso è pallido e le occhiaie scure spiccano su quel candore. «Si tratta di un tumore maligio, tra i più diffusi in età infantile. Si sviluppa per lo più nel cervello o in altre parti dell’encefalo».
Cernaja si stropiccia la cravatta, sempre più nervoso. «Come ho fatto a non accorgermi. I sintomi erano palesi. Mal di testa, nausea, vomito, debolezza e febbre, sonnolenza e cambiamenti dell’umore...ma ho pensato che fosse tutto causato dalla morte di Flavia».
Ragato sente addosso tutto il peso di quelle frasi: con quella diagnosi non è possibile imputare alcunché alla bimba, se mai prima ci fosse questa opzione.
«Signori - il commissario si alza in piedi -. Io devo andare a fare rapporto. Grazie per la collaborazione». A Malvaldi porge un cartoncino, «Il mio numero diretto». Fa un saluto con la mano ed esce. Una volta nel piazzale si ferma e comincia a respirare con lentezza.
Nello studio i due dottori continuano a parlare, la previsione di vita della bambina non è delle migliori. «Possiamo solo cercare di alleviare il dolore. Da quello che si evince dalle analisi e dalle radiografie, il tumore è troppo esteso per intervenire con la chirurgia. Inoltre la bambina è molto debilitata per quello che è accaduto ieri, quindi qualunque terapia che non sia palliativa potrebbe risultare controproducente».
La discussione è interrotta da un bussare sordo. Malvaldi si alza ed apre, trovandosi davanti Ettore Ardigoti. Ha un’espressione provata e i vestiti spiegazzati. «Scusate - appare imbarazzato -. Vorrei sapere se ci sono novità dagli esami. Amina ora è con un’infermiera e sta giocando. Sembra stare meglio di ieri».
Malvaldi si fa da parte ed invita l’uomo ad entrare. Cernaja si alza in piedi di scatto vedendo Ardigoti e gli si avvicina, con espressione comprensiva.
«Si sieda», lo invita il primario, accomodandosi a sua volta. «Signor Ardigoti - la sua voce è spezzata ed incerta - gli esiti degli esami di Amina, non sono per niente buoni. Ho chiamato il dottor Cernaja perché è il vostro medico di famiglia». Fa una breve pausa, poi riprende a parlare. «Mi ha parlato di quello che è accaduto la primavera scorsa. Penso che Amina fosse già malata allora ma il trauma potrebbe aver scatenato i sintomi più importanti».
Ettore volge lo sguardo su entrambi, «Cosa ha mia figlia?». La sua voce esprime tutta la tristezza che ha nel cuore. É Cernaja a rispondere: «Amina ha un brutto tumore al cervello. Non operabile. Io, io ho frainteso come psicologici quelli che invece erano i sintomi della malattia. Ora è troppo tardi, la sola cosa che possiamo fare è farle vivere al meglio questi ultimi mesi di vita».
Nel sentire la condanna che grava sulla testa di sua figlia, Ettore non riesce a trattenersi e scoppia in lacrime: prima Flavia, poi Francesca e lo zio Alfonso e ora Amina. «E cosa posso fare? E la polizia cosa dice? E la storia della bambola, delle fate?», ha così tante domande da fare che non riesce più a trattenersi.
Malvaldi si alza e gli si fa vicino, appoggia una mano sulla spalla. «Le “fate” che Amina sostiene di aver sentito cantare e le parole pronunciate dalla bambola sono solo allucinazioni causate dalla malattia».
Il primario aggiunge che ha avvertito il commissario e che è sicuro che non ci saranno ripercussioni su Amina, data la sua particolare situazione.
«Può venire a casa?», chiede un ormai prostrato Ettore.
«Al momento non ancora, dobbiamo ancora fare qualche esame per capire come sarà meglio agire, inoltre vorrei che il vostro medico la visitasse. Per cercare di avere un’idea chiara della sua condizione mentale. Penso che tra un paio di giorni potrete tornare a casa».
Ettore non può far altro che accettare. «Oggi tornerò a casa per avvertire Federico e portarlo a trovare Amina. Vi ringrazio della vostra premura verso mia figlia».
L’uomo esce dallo studio, le spalle curve e l’aria di chi porta addosso tutti i mali del mondo. «Che tragedia», commenta Cernaja.
Quando torna in camera Ardigoti trova la figlia intenta a disegnare insieme ad un’infermiera. «É stata bravissima», gli dice la donna. L’uomo fa un cenno di ringraziamento e si prepara. «Io devo andare via per qualche ora, se potete occuparvi di lei». L’infermiera risponde con un cenno del capo, è stata assegnata ad Amina dal dottor Malvaldi. «Andate tranquillo, mi occuperò io di lei».


Ragato bussa all’ufficio del suo capo. La voce rude gli intima di entrare. «Eccovi Ragato, iniziavo a temere che foste scappato». L’uomo non risponde ma si siede e trae dalla tasca del cappotto il taccuino.
«Avete novità su quell’incresciosa storia dell’omicidio Ardigoti?». Il commissario si limita ad annuire, si schiarisce la voce e comincia a parlare.
Per due ore Ragato e il suo capo parlano e si confrontano. La conversazione è interrotta ad un certo punto da un giovane agente, che comunica a Ragato di essere atteso al telefono.
Il commissario esce e dopo pochi minuti rientra, un’espressione triste in volto.
«Le condizioni di Amina Ardigoti si sono aggravate. Mi ha appena chiamato il primario. Ha poche settimane, forse giorni».
Ragato tace e attende che il suo capo gli dica come procedere, se fosse per lui chiuderebbe quel caso senza infierire oltre sulla famiglia ma con il suo superiore non si può mai sapere.
«Fate come volete. A questo punto a che serve», ringhia l’uomo dietro la scrivania.
Ragato scatta sull’attenti, fa il saluto ed esce, prima che l’altro cambi idea.