mercoledì 8 agosto 2012

MY INCREDIBLE JOURNEY IN LONDON

Lenta la luce filtra dalle tapparelle accostate, dalla strada non giunge un suono. É un tiepido bacio sulla mia fronte, che lentamente mi ridesta da un sonno invischiato di strani sogni. Mi stiracchio pigramente nel momento in cui la sveglia trilla, la camicia da notte attorcigliata al corpo come i tentacoli di qualche mostro. 
Alla cieca allungo una mano e la spengo, penso di girarmi dall'altra parte e sonnecchiare ancora qualche minuto ma un altro campanello, più forte ed insistente - così insistente che anche la gatta esprime il suo netto dissenso al quel suono assordante e petulante - mi costringe ad alzarmi. 
Butto i piedi oltre il letto e, senza nemmeno infilarmi le pianelle, mi trascino alla porta. Il pavimento è un dolce refrigerio sotto i miei piedi nudi. 
Provo a controllare chi, in quel primo pomeriggio di un giorno di inizio ottobre, si azzarda a disturbarmi ma dall'occhietto dell'uscio non scorgo nulla. Quindi mi risolvo ad aprire. Davanti a me, in camicia da notte e capelli scarmigliati, appare la figura di una donna, che dai tempi dell'infanzia, non vedevo.
"Tu? Tu?", biascico, forse sto ancora sognando, penso stordita. "Avanti muoviti, vestiti a modo. Dobbiamo andare!", replica lei, serafica con quel suo imperturbabile sorriso ad adornarle il viso, identico a quello che emerge nei miei ricordi infantili. "Su, su. É maleducazione far attendere, quando si é stati invitati". Intanto mi ha spinto dentro casa e sta già rovistando nel mio armadio, tirando fuori vestiti, bluse, gonne, biancheria e calze. 
Osservo quell'ammasso di roba senza riconoscere un solo capo del mio non proprio sguarnito guardaroba. Faccio per protestare ma lei mi porge un paio di cose, culotte bianche e una specie di camiciola. Le agita con piglio autoritario davanti al mio naso, intendendo che le devo indossare, senza fare tante storie. Alla fine, sentendomi sempre più come se fossi ancora addormentata, ubbidisco. Mi domando da dove provengano quei vestiti: so per certo di non avere mutande o altra biancheria di colore bianco. Ho una certa idiosincrasia per il colore bianco e lo evito come una malattia. Faccio appena in tempo ad allacciare l'ultimo bottone di madreperla che sotto il naso mi ritrovo una gonna beige e una camiciola azzurrina. Faccio un passo indietro e scuoto la testa. Io quello non lo indosso!, mormoro. La mia vecchia conoscenza sospira, gli abiti finiscono nuovamente nel mucchio e la ricerca riprende frenetica. Pochi secondi e mi passa delle lunghe calze - nere questa volta - e poi un paio di stivaletti alti. Un solo movimento del dito e provvedo ad infilarli, senza emettere un fiato. 
Alla fine dalla matassa disordinata di vestiti trae fuori, una delle sue magie senza dubbio, un vestitino nero, semplice e di stile alquanto antiquato. Questa volta lo indosso senza fare storie e già lei mi attende in ingresso, reggendo il mio cappottino nero e un cappello, che non ricordo di possedere. Me lo calca in testa e mi fa cenno di prendere la borsa, abbandonata sul mobile dove tengo le chiavi.
Ho appena il tempo di dare una mandata e già mi ritrovo in strada, sotto un cielo pallido e senza sole. Non fa né caldo né freddo, il tempo sembra essersi fermato. Cosa che non mi lascia molto perplessa, visto il personaggio con cui mi accompagno. 
Accelero il passo per starle dietro e dopo nemmeno cento metri ci fermiamo, bussa alla porta e veniamo fatte accomodare in una casa dalle pareti di legno nero e tappezzeria a fiori. Ho una netta impressione di déjà-vu.
Di fronte a me si apre un'ampia stanza da pranzo, un bel tavolo rotondo, di legno, è apparecchiato per il tea: tovaglia bianca, fresca di bucato, piattini, chicchere, tazze, zuccheriera, vassoi di dolcetti e tramezzini, una grossa teiera di porcellana cinese finemente dipinta sono sparsi sul piano. Le sedie sono spostate e due donne, che da qualche anno hanno passato la giovinezza, si stringono mentre un vecchio, sghignazza a pochi centimetri dal soffitto. Questa immagine mi convince di nuovo che sto sognando. Non avvengono nel mondo "normale" fatti di questo tipo. Lei non si lascia prendere dal panico e cerca di far scendere il caro congiunto ma senza molto successo. L'ometto continua a sghignazzare e ben presto coinvolge anche me. Mi sento improvvisamente leggera e, inconsapevole, mi ritrovo a fissare l'amica del passato sospesa anche io in aria. «Non cominciare anche tu», brontola lei, «Mi basta già questo vecchio pazzerellone». Mi stringo nelle spalle, non è proprio colpa mia il trovarmi in mezzo a quella situazione strampalata.
Rido, cercando al contempo di mantenermi seria, ma mi è quasi impossibile, i pensieri si fanno confusi e le immagini sfocate. Ricordo appena che sto bevendo una tazza di tea, aromatico e dolce perché sento la testa pesante e non riesco a tenere gli occhi aperti, la conversazione mi sfugge così come non capisco le domande che mi vengono rivolte dall'amica e dallo zio. 
Vorrei scusarmi ma non riesco a parlare.
É un boato che mi desta questa volta, fuori il bagliore è più brillante. La dolce metà russicchia di fianco, incurante del rumore proveniente dall'esterno, e mi tira un calcio alla caviglia, che senza scompormi gli restituisco. Bofonchia un lamento e si gira, dandomi la schiena. Prendo la sveglia e cerco di decifrare che ora siano, mattina o pomeriggio.
I soffici ricordi della visita dell'amica di infanzia permangono nella mia mente, mentre mi risdraio, i capelli sciolti sul cuscino mi sfiorano il collo e comincio ad arrotolarmene una ciocca, da quanto non li taglio?, mi domando pigramente. Quella sensazione che qualcosa non sia a posto che ancora mi aleggia addosso, come se anche questa volta non mi fossi svegliata del tutto. Cerco di non far fuggire le immagini di quanto ho sognato pochi minuti fa. Servirebbe una buona tazza di tea, una sigaretta, leggere una rivista in cucina mentre fuori piove. Pensieri nostalgici i miei.
Mi alzo, regalo qualche grattatina alla gatta, allungata in fondo ai miei piedi. Sistemo la camicia da notte, arrotolata intorno alle gambe e inizio il mio tour. Metto su il bollitore ma poi lo spengo: abbiamo finito il tea, biscotti, pane per i toast. La dispensa è un deserto. Dalla strada giungono rumori ovattati ma non ho tempo di attardarmi.
Torno in camera per vestirmi ed uscire ad acquistare il necessario per la colazione, prendo a casaccio dei vestiti dalla sedia. Quello dorme, fuori potrebbero combattere la terza guerra mondiale e nemmeno se ne accorgerebbe. In bagno mi vesto, noto che gli abiti sono simili a quelli del mio sogno ma non mi soffermo troppo. Probabilmente li ho comprati a qualche mercatino e me ne sono dimenticata. 
Ho poco tempo. Faccio cenno alla gatta di far silenzio ed esco, percorro il piccolo androne senza accendere la luce e in pochi minuti sono nella via. London mi appare nel suo fulgore di inizio autunno, ma nessuno in giro. Deve essere molto presto. Il cielo è bianco con sfumature argentate, non dissimile a quello del mio sogno. 
Le botteghe hanno ancora tutte le serrande abbassate, sono l'unica persona in giro. Mi sento come se fossi rimasta l'ultima persona sull'intero pianeta, poi una donnina mi compare a non più di un paio metri, dirigendosi verso un intrico di viuzze poco distanti. Decido di seguirla e la vedo entrare in un cortile.
Un'arcata mi introduce in un mercatino delle pulci, ricorda quello di Portobello's Road ma in miniatura: non più di una quindicina di bancarelle sparpagliate. Da una prima rapida occhiata sembra che espongano soprattutto oggetti di antiquariato, o modernariato, vintage e oggetti simili. 
Lampade, mobili di piccole dimensioni, soprammobili di vari gusti e proporzioni, qualche abito, scarpe, borsette, persino occhiali. E poi diari, penne e set da scrittoio.
Sto appunto guardando uno di questi, potrebbe essermi utile, dopotutto spesso prendo appunti a penna prima di riversare tutto nel computer e uno, insieme ad una di quella penne stilografiche così vintage, potrebbe fare al caso mio, che l'anziana ambulante mi si fa vicino e mormora: "Ottima scelta, miss, questo è il set più bello che ho...". Afferra una scatolina di legno intarsiato e me la porge. "Abbiamo anche la sua penna stilografica, in ceralacca nera, ideale per una giovane come lei, che mi sembra molto colta e, se posso permettermi, sono certa che ama scrivere. Glielo si legge negli occhi". Mi ritraggo imbarazzata e spaventata a quelle parole ma la vecchia cambia repentinamente fisionomia apparendomi come un mostro: occhi cattivi contornati di nero e pelle grigiastra, sottile e squamata come quella di un rettile, un ghigno sadico e affamato deforma le labbra e intravedo zanne nere grondanti saliva. Sorrido, poco convinta e faccio per allontanarmi ma quella mi insegue, accelero il passo. "Non costa tanto, miss, e son cose fatte per durare", mi grida alle spalle ma non torno indietro. Mi ritrovo all'ingresso, sotto l'immenso arco e mi volto, gli ambulanti hanno lasciato i loro stand e si dirigono verso di me e mi metto a correre per quanto la gonna stretta me lo consente. Giro a casaccio per le viuzze di quella parte del quartiere finché mi rendo conto che son sola...e che mi sono persa.
Prendo la borsa e rovisto, il cellulare mi dice "no service" e maledico tra me e me le case così alte e vicine. Cercare di tornare indietro è impossibile, potrei aver girato in qualunque punto di quel labirinto. L'unica soluzione è proseguire per la via in cui mi trovo e sperare di incontrare una qualche fermata del tube che mi permetta poi di tornare a casa. Al diavolo tea, burro, marmellata e toast. Al momento mi viene più che altro da vomitare per il puzzo di acqua stagnante.
Cammino aguzzando l'orecchio nella speranza di sentire delle voci e poter chiedere indicazioni quando d'un tratto, girando dietro un angolo mi ritrovo davanti un piccolo imbarcadero. La strada declina verso il fiume che ha preso il posto della strada, il pontile in legno scuro che permette di salire su barchette, più simili a scialuppe che a veri e propri battelli, la biglietteria ricavata in uno sgabbiotto di legno anch'esso e dipinto di bianco. Di fianco la sala d'aspetto, dove cinque o sei persone, soprattutto donne, attendono il loro turno. Sopra la casetta bianca spicca un cartello, recante la scritta "linea fluviale cittadina londinese", in pratica un servizio di bus su barca. Nel centro di London? Ma da quando? Penso che sto proprio sognando, è un'avventura quindi. Uno di quei sogni nonsense. Sorrido tra me, se è un sogno sono al sicuro...e non può non essere un sogno, conosco London come le mie tasche e so che non ha mai avuto un servizio fluviale, non nel mezzo di un quartiere residenziale per lo meno.
Entro nella biglietteria affollata e, nella mia enorme borsa, cerco il portamonete ma non so minimamente dove debba andare. Noto una cartina e mi soffermo a leggere: stazioni che non conosco, in una parte della città che mi è sconosciuta (cosa che in un sogno può anche capitare, mi ripeto). Una fermata attira la mia attenzione: Borough Hill. So benissimo che non esiste uno stop con questo nome ma, tra tutti, è quello che mi ispira più fiducia di tutti gli altri. Inoltre non è molto distante rispetto a dove mi trovo ora, una decina di fermate, di conseguenza non deve essere molto lontano rispetto a dove vivo. E poi in un'avventura bisogna affidarsi all'istinto, altrimenti che gusto c'è.
Torno davanti alla bigliettaia e sorrido, timida, sentendo gli occhi degli altri passeggeri addosso a me. "Borough Hill", mormoro e quella mi consegna un talloncino color arancio pallido. "Battello 15, in arrivo tra sei minuti. Fermata 14", mi dice con voce atonale. Sorrido e mi appropinquo ad una signora, sedendomi al suo fianco. 
Il cellulare continua a non dare segni di vita ma almeno posso ascoltare un po' di musica. Seleziono una playlist, sotto lo sguardo incuriosito della sconosciuta. Non mi pare così in là con gli altri da non aver mai visto quel genere di telefonino.
Un improvviso frastuono copre sia le sue parole sia parte del brano che sto ascoltando, ci sporgiamo e dalla finestra scorgiamo un caccia bombardiere che fende quel cielo color piombo ora. Strabuzzo gli occhi e a malapena sento quella che commenta. "Maledetti tedeschi, maledette le loro bombe. Cominciano verso quest'ora a sorvolare la nostra povera città, per scegliere dove bombardare. Maledetti". Cambio canzone e metto via il telefono in borsa. Londra bombardata?, roba da seconda guerra mondiale, roba da film, roba da sogno. La piccola imbarcazione, che mi deve portare nella misteriosa Borough Hill, compare, scendendo lentamente lungo il fiume. Mi alzo per vidimare il biglietto e la mia attenzione è catturata dalla data: febbraio 1941! Sto sognando di essere nella London bombardata dai tedeschi e sto per intraprendere un viaggetto lungo un canale interno alla città, che non dovrebbe esistere nella realtà. Ma che mi dici il mio cervello addormentato? Prima quella strampalata visita ora questo.
Non potendo fare altro mi faccio aiutare dal manovratore, che mi vidima il biglietto e mi fa cenno di prendere posto vicino a lui. Dal labiale interpreto che mi dirà quando sarò giunta a destinazione. Ascolto stranita, quasi in apnea, le canzoni che si alternano e dopo quasi tre quarti d'ora arrivo a Borough Hill. L'uomo mi aiuta a scendere e una volta sulla terra ferma mi dirigo verso la sala d'attesa. Ho bisogno di rimettere a posto le idee. Mi siedo e, con estrema lentezza perché mi sento senza forze, spengo il telefono, non ha senso tenerlo acceso. Lo rimetto nella borsa e mi guardo intorno: non riconosco questo posto e non c'è nessuno cui domandare.
Penso a come tornare a casa, a svegliarmi e riprendere la mia vita quotidiana. Penso e mi sento sempre più stanca, come se stessi affogando in un lago di pece. Sento le palpebre sempre più pesanti mentre il rombo degli aerei si fa più intenso. Il mio cervello è attraversato da pensieri simili a flash: devo andare a casa, i bombardamenti è meglio evitarli, come ci sono finita in questo posto. 
Non riesco ad opporre a questa stanchezza, che rende le membra pesanti e i pensieri confusi, alcuna forza di volontà. Alla fine cedo e reclino la testa su una spalla, scivolando in quello che sembra sonno, appiccicoso e irreale. L'ultimo pensiero cosciente, e non poco sciocco considerata la situazione, è che spero che nessuno mi rubi la borsa. Dopodiché precipito nell'oblio.
"Hey baby, sveglia...è ora di colazione", mi sussurra Lui all'orecchio facendomi sobbalzare e quasi casco dal letto. «Cosa? Che? Dove?». Respiro profondamene riprendendo il controllo. Fuori le nuvole sono nere ma l'aria è tersa e fresca come sempre dopo un temporale e mi accarezza la pelle. «Colazione, mia cara. Non hai fame?» e indica il vassoio con il tea fumante, i toast dorati, la marmellata di fragole. La gatta mi guarda basita mentre si avvicina a quelle delizie decisa ad assaggiarle. Con gentilezza la sposto facendole un grattino sulla capoccia, ma ricevendo un grugnito insoddisfatto in cambio mentre se ne va in cucina a sgranocchiare qualche crocchino.
Mi infilo la canotta sul corpo sudaticcio, scacciando gli strani strascichi di quel sogno. «Sto morendo di fame...stanotte ho fatto un incredibile viaggio in giro per London. Nemmeno te lo puoi immaginare», gli racconto, addentando un toast.

ps: questo racconto non è stato inventato (se non per la parte finale) ma è il resoconto "romanzato" di un sogno che ho fatto qualche notte fa! Spero che vi piaccia 

Goth Night and Sweet Dreams from your Night Angel




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