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sabato 20 ottobre 2012

THE HALLOWEEN QUEEN



HALLOWEEN QUEEN

C'era molta emozione, soprattutto tra i ragazzi, per l'approssimarsi della notte di Halloween. Sui patii delle case erano state sistemate zucche intagliate nelle più svariate espressioni di Jack Lantern. I bambini cominciavano ad indossare i loro costumi per il consueto giro bussando alle case dei vicini per raccogliere dolcetti e regalini.
Nelle vie si potevano già vedere gruppetti di piccoli maghi, principesse dai vaporosi vestiti rosae poi fate, elfi e altre misteriose creature dai mantelli neri.
Non solo i bimbi si divertivano in quella strana notte ma anche i più grandi si stavano preparando per trascorrerla in modo divertente. I più fortunati, travestiti dai mostri classici della tradizione, si apprestavano a presentarsi a casa di Hannaleen Metcalf, considerata senza possibilità di smentita la ragazza più invidiata della città dato che suo padre era il più ricco nella zona ed era anche considerato un uomo del quale era meglio non mettere in discussione le opinioni, per la consueta festa all'insegna della paura.
Le festa di Halloween a casa di Hannaleen potevano essere considerate eventi esclusivi ed essere tra gli invitati significava contare qualcosa nella ristretta comunità.
Gli esclusi potevano ripiegare sulla festa organizzata nella palestra della scuola, cercando di immaginare come sarebbe stato essere ammessi nelle sale di casa Metcalf, decorata per l'occasione con scheletri e altre amenità paurose.
Nonostante Halloween fosse da anni spacciata per una festa all'insegna del terrore e della paura, in giro si vedeva solo gente che si divertiva. Perfino le abitazioni, illuminate e addobbate, sembravano partecipare all'allegria generale invitando chi si aggirava per le strade a suonare il campanello chiedendo dolciumi.
Nulla dell'antico sabbath Samhain era rimasto vivido in quella specie di farsa, forse solo una rivisitazione dela consuetudine di indossare mascheramenti per sfuggire alle anime decedute nei dodici mesi precedenti, che durante il percorso di Selene tornavano a passeggiare sulla terra in cerca di un nuovo corpo del quale prender possesso.
A non partecipare alla bolgia di divertimento generale solamente la casa all'angolo, all'inizio del sobborgo. L'unica luce, fioca, proveniva dalla cucina dando l'impressione che l'abitazione fosse vuota e desolata. La famiglia era riunita per la cena, in un silenzio imbarazzante come sempre: a capotavola era seduto un anziano e di fianco a lui, una di fronte all'altra, due donne di mezza età. Di fronte aveva preso posto una ragazzina di non più di diciassette anni, che dava l'idea di essere al mondo per errore. Sedeva silenziosa, portando meccanicamente il cibo alla bocca, senza guardare in faccia nessuno degli altri. I capelli tanto biondi da sembrare bianchi, scendevano a coprirle il viso. Teneva gli occhi bassi e il suo respiro era impercettibile, sembrava desiderare non essere in quel luogo in quel momento. 
Improvvisamente il vecchio batté la mano sul tavolo e urlò alla ragazza, «Tirati indietro quei capelli maledetta piccola bastarda. Non riesco a vederti gli occhi! E guardami quando ti parlo! Maledetta figlia di una madre nubile. Lo sai che voglio che a cena ci si presenti in un certo modo, non conciata come una donnaccia di strada, come tua madre».
Senza rispondere Lucina prese l'elastico e legò i capelli poi guardò il nonno, che tiranneggiava lei, sua madre e sua zia da che poteva ricordarselo insultando in particolare la loro scarsa virtù. Non aveva mai capito il perché, cioè almeno per quel che concerneva lei e sua zia. Sua madre viveva con la colpa di averla messa al mondo senza essere sposata o per lo meno vedova. Colpa peggiore anche il non aver mai voluto rivelare chi fosse suo padre e accettare un matrimonio riparatore. E di questo la ringraziava ogni giorno, sopportando senza fiatare insulti e cattiverie - che le avevano regalato un'esistenza solitaria e il disprezzo di tutti nel borgo dove si era trovata a vivere - ma il nonno cominciava ad esagerare. 
Alzò lo sguardo e lo fissò, per la prima volta ubbidiva a quell'ordine. Il vecchio ricominciò ad inveire contro di lei, sulla sua scarsa educazione, sulle sue pessime maniere mentre le due figlie cercavano, invano, di calmarlo. «Taci», urlò ad un certo punto Lucina alzandosi in piedi. La sedia finì per terra con un rumore di ferraglia. «Zitto e non permetterti più di offendere nessuna di noi tre. Non abbiamo mai fatto nulla di male né a te né a nessun altro. Smettila. Smettila. Smettila». 
Il vecchio restò interdetto per la reazione della nipote, che tiranneggiava al pari delle due figlie trattandola come se fosse una schiava e rivolgendosi a lei nello stesso modo in cui per anni aveva osservato suo padre agire nei confronti di sua madre e come lui stesso aveva fatto, per decenni, con sua moglie. Finché lei si era impiccata per la disperazione e lui si era sfogato sulle figlie e poi anche sulla nipote.
«Basta con queste idiozie che ripeti ogni sera, ogni giorno, sempre. Basta...». Lucina abbandonò la cucina, prese il cappotto e uscì, prima che sua madre potesse fermarla. Cominciava ad essere tardi e in giro si vedevano solamente gli ultimi ritardatari alle varie feste. Lanciò uno sguardo distratto alla gente in costume, chiedendosi che effetto facesse, mascherarsi, andare ad una festa con altre persone che non ti insultavano o minacciavano di picchiarti. 
Come i compleanni, Lucina non aveva mai festaggiato Halloween. In casa era permesso celebrare solo le feste comandate e in modo molto sobrio, quasi dimesso. Sbuffò. «Vecchio maledetto bisbetico noioso prevaricatore», mormorò mentre si lasciava alle spalle la sua casa buia. Mise le mani in tasca e tirò il cappuccio del cappotto nero cercando di mimetizzarsi.
Passeggiò lungo la via dove aveva sempre vissuto fin da quando sua madre era tornata a casa per offrirle un futuro migliore, poi non si era rivelata una buona idea ma non si era mai sentita di dirlo a sua madre e faceva sempre di tutto per essere brava in modo da non creare ulteriori preoccupazioni in casa.
Rifletté sulla possibilità di andarsene, lasciare scuola, sobborgo e famiglia cercando fortuna altrove. Lucina era così presa dai suoi pensieri da non rendersi conto di aver girato per il lato sinistro del parco.
La zona era diventata tristemente nota come ritrovo di tossici e spacciatori, prostitute e altra umanità allontanata dalle brave persone della comunità. In molti mormoravano che lei stessa sarebbe finita in mezzo a quella gente, prima o dopo. Forse a drogarsi, forse a vendersi, forse a vendere droga ai loro bravi e puliti rampolli.
In quella particolare sera nessuno aveva trovato rifugio nei cespugli per un po' di amore clandestino o per lo scambio di soldi per una dose di paradiso artificiale. 
Mentre attraversava il sentiero in terra battuta Lucina pensava a come sarebbe stato bello avere amici, persone con cui confidarsi. Si immaginò quanto sarebbe stato divertente organizzare uscite e pomeriggi insieme, invece che stare sempre da sola, cercando di non essere vista, sperando di diventare invisibile.
Si fermò e alzò gli occhi al cielo, riuscendo ad intravedere la volta tra i rami degli alberi, pensando a quanto era bello il cielo.
Non si avvide, quindi, delle vivide fiammelle che da qualche metro si erano messe a seguirla silenziosamente. Se fosse stata un po' più attenta le avrebbe notate e sarebbe scappata. Quando si ritrovò circondata non riuscì nemmeno ad urlare e poté solo mormorare «Chi-chi siete?», mentre quelle si trasformavano in fluttuanti creature nere e si avventavano su di lei. Se anche ci fu una risposta, Lucina non riuscì ad udirla. Una di esse l'avvolse nel suo sudario nero pece. Nebbia bianca di levò dal manto e penetrò nella pelle della ragazza, che cadde riversa a terra, gli occhi sbarrati e le labbra spalancate in un grido muto. 
Non trascorse nemmeno mezz'ora che la ragazza cominciò ad ansimare, tossire e tenersi la pancia con le braccia. Lentamente riprese il controllo e si mise seduta, tirandosi indietro il cappuccio del cappotto e tirando un lungo respiro. «Finalmente! Finalmente! Il mio tormento è giunto al termine. Finalmente!». Rise sonoramente, la voce era diversa, tanto cristallina da risultare quasi tagliente. 
Sospirò di nuovo mentre si osservava le mani pallide e si tastava il volto, con espressione estatica. .
Si alzò in piedi spolverandosi il cappotto e i pantaloni, considerandolo uno abbigliamento ben strano per una fanciulla. «Bene, bene...Harmonia Breendley è tornata...e ora i responsabili potranno avere la loro punizione...Non avrei mai creduto di riuscire nel mio intento», sorrise al cielo di nuovo e tornò indietro ritrovandosi sulla via principale in pochi minuti. La sua testa vorticava di immagini e pensieri della povera ragazza di cui aveva preso il corpo, i ricordi di lei si sommavano ai suoi...Harmonia, una delle tante streghe che erano state condannate nei tempi bui dell'età moderna, decise che oltre che dei discendenti di chi l'aveva mandata a morire si sarebbe presa vendetta di chi si era divertito alle spalle dell'ex proprietaria del suo nuovo corpo. Meritavano tutti una lezione.
Si guardò intorno, come era cambiato quel posto dall'ultima volta che ci era stata. Sorrise mentre si accodava ai numerosi ragazzi e ragazze che, con indosso abiti delle più strane fogge, si stavano recando alla festa di Hannaleen. All'improvviso uno, da dietro, le diede uno spintone, facendola barcollare. «Ma chi abbiamo qui? Quella piccola bastarda di Lucina...dove credi di andare pantegana? Forse vuoi intrufolarti alla festa di Hannaleen come le persone che valgono, escrescenza schifosa? Ahahahah!! Vattene, prima che ti dia la lezione che ti meriti», disse una voce maschile con un'intonazione cattiva.
Con una piroetta la ragazza dai capelli così biondi da sembrare bianchi si voltò e lo guardò con espressione malvagia. «COme vi siete rivolto a me, screanzato mortale?», si mise le mani sui fianchi e gli occhi ben fissi in quelli del ragazzo, vestito da soldato e accompagnato da altri tre, con indosso altrettante divise mimetiche. «Che cosa? Allora hanno ragione quando dicono che sei stupida, oltre che cessa. Tornatene nella tua fogna, piccola schifosa lurida. Questo non è posto per te», le rispose facendole per dare un altro spintone, ma lei si scostò e quello ruzzolò a terra. «Aahahhaah!!! Idiota di un uomo! Mai mancare di rispetto ad una dama, soprattutto se quella dama sono io» e se ne andò senza voltarsi indietro. Gli amici del ragazzo, che aveva apostrofato in quel modo Lucina, si misero a ridere sguaiatamente. Eddie Frey si tirò in piedi e disse «Avanti! Muoviamoci, dobbiamo prendere quella schifosa prima che arrivi da Hannaleen...deve imparare a stare insieme alla feccia, cui appartiene. Questa sera non avrà scampo.»• Il gruppetto si lanciò all'inseguimento dirigendosi alla villa di Hannaleen.
Intanto Lucina proseguiva seguendo le persone mascherate, senza parlare con nessuno ed evitando il contatto fisico. A metà strada si fermò davanti ad una vetrina debolmente illuminata e si osservò. Non era niente male davvero, certo con qualche aggiustatina, pensò e sorrise. Si lisciò la chioma e sorrise di nuovo: aveva bisogno decisamente di un cambio di abbigliamento e anche di un po' di belletto. Si guardò intorno poi notò che all'interno c'era una persona e le fece dei segni, mimando la richiesta di entrare finché una donna anziana le aprì e Lucina si infilò dentro. 
«Grazie signora...ho bisogno del suo aiuto...ho bisogno di un vestito...scarpe...belletto...un mantello», disse mentre passava tra gli appendiabiti, osservando e accarezzando i vestiti. «Ha qualcosa di aderente in velluto? Nero, sarebbe perfetto», fissò la vecchia e mosse le labbra pronunciando qualche parola in una strana lingua. Quella si mosse, come se fosse stata comandata da una forza esterna, e in pochi minuti recuperò ciò che la ragazza aveva richiesto. Nel mentre lei aveva tirato le tende e si era spogliata, restando solo con la biancheria intima. Si osservò allo specchio, sempre più soddisfatta della sua scelta. Si provò un paio di abiti portatele dalla vecchia, senza esserne soddisfatta poi lo vide: lucente velluto nero, con lunghe maniche e un delizioso corsetto stringivita. Lo indossò. «Perfetto!», sospirò...da un mobiletto prese un paio di stivaletti in morbida nappa, le calze che aveva indosso erano un po' spesse ma avrebbe dovuto accontentarsi, per quella sera. «Bellissimi», disse procedendo ad infilarli. Trovò poi alcuni trucchi da teatro su un si truccò, scovando nel retrobottega un grosso specchio, pur mostrando qualche perplessità su ombretti, rossetti e altri oggetti che definì "diavolerie". «Molto meglio, il mio oscuro signore sarebbe così fiero di me», disse Harmonia sbattendo le ciglia intensificate con mascara, socchiudendo gli occhi resi ancor più profondi da ombretto nero e mandando un bacio alla sua immagine riflessa nello specchio con le labbra dipinte del colore del sangue.
«E ora vediamo di divertirci un po'», commentò tra sé e sé uscendo dal negozio, dopo essersi portata via anche una pochette nera e un cappotto di velluto, scovato in mezzo ai saldi.
Non appena si ritrovò in strada notò un gruppo di ragazzi vestiti come i marinai delle navi che spesso attraccavano nel vicino porto della cittadina dove era nata. «Guardate...è Lucina!», disse uno di loro indicandola. «Ma come si è vestita?», gli fece eco un altro ridacchiando ma fermandosi ad osservarla. Lucina gli sorrise e gli mandò un bacio, avvicinandosi.
«Buonasera esimi gentiluomini - esordì, tutti si accorsero che la sua voce era differente da come se la ricordavano - forse potreste indicarmi la via per raggiungere la casa di questa Hannaleen. Ho sentito che è in corso un ricevimento e ho decisamente voglia di un po' divertimento vecchio stile. Non mi faccio una bella risata da più di quattrocento anni e questa è la serata ideale per divertirsi».
Quelli si misero a ridere, «Se Hannaleen ti vede alla sua festa di Halloween penso che potrebbe arrivare ad ucciderti - disse quello con il cappello dalla piuma nera assumendo un'espressione seria-. Lo sai che non ti può sopportare». Harmonia, che a tutti appariva come Lucina, che non aveva mai avuto vita facile per via dell'essere la figlia di una madre nubile, per non esser mai stata alla moda, per avere gusti che non erano condivisi. Tutte cose che per la rinata strega invece rendevano la ragazza speciale. 
Harmonia rise, «Ci deve solo provare, quella sciocca. Questa notte è il mio momento di rivalsa su questo mondo e ho intenzione di godermela fino in fondo. E potete chiamarmi Harmonia, gentile messere...e troverei delizioso se foste così gentile da accompagnarmi, non son sicura della strada. Inoltre non vorrete lasciarmi da sola a fronteggiare quei violenti con indosso tute a chiazze». Il ragazzo guardò gli altri, quella nuova personalità di Lucina non gli dispiaceva affatto, inoltre non aveva mai sopportato Eddie ed i suoi amici. «Va bene, ti accompagneremo e Eddie non ti farà alcun danno...su Hannaleen non posso giurarci. Ti odia per davvero». Si incamminarono, la loro meta era a meno di dieci di minuti.
Intanto Eddie e gli altri erano arrivati a casa di Hannaleen e le avevano detto che Lucina aveva tutta l'intenzione di presentarsi. La reginetta della scuola ebbe un moto di rabbia e, raccogliendo le gonne del suo costume da dama, si fece largo tra gli invitati fino a raggiungere l'ingresso. «Quella schifosa dovrà vedersela con me. Partecipare alla mia prestigiosa festa, ma chi si crede di essere? Mischiarsi con noi».
Hannaleen accolse alcuni invitati ritardatari poi si mise di fronte alla porta, dietro di lei si sistemarono Eddie e gli altri, in attesa che Lucina si mostrasse.
Non trascorsero più di cinque minuti che Harmonia, insieme ai suoi nuovi amici, fece la sua apparizione. Hannaleen restò a fissarla, non solo osava presentarsi a casa sua ma aveva anche l'ardire di farlo insieme a Kayran. «Eccoci arrivati. Resta vicino a noi», le disse Kayran indicandole Hannaleen e gli altri.
Senza dargli retta Harmonia si staccò dal gruppetto e con un gesto della mano fece aprire il cancello, soddisfatta nel scoprire che la sua magia aveva conservato tutto il suo incredibile potere. Lesse la targa e quasi sobbalzò, incredula di fronte a tanta fortuna: quella con cui avrebbe dovuto confrontarsi era niente meno che la discendente del giudice Metcalf, che l'aveva mandata alla forca con l'accusa di essere una seguace delle forze oscure, dell'antica religione...Harmonia non riuscì a trattenere una risata di trionfo.
Avanzò sicura di sé, sentendosi gli occhi non solo di Kayran ma anche di Hannaleen, di Eddie e di molti sconosciuti.
«Non hai veramente ritegno», urlò Hannaleen man mano che la ragazza che aveva l'aspetto di Lucina si avvicinava, un sorriso di scherno dipinto sul volto truccato. «Non credere che ti lascerò insozzare la mia bella casa con la tua schifosa presenza, lurida figlia di una donnaccia...sei esattamente come tua madre. tutta la tua schifosa famiglia...».
Harmonia arrivò davanti a lei, superandola di un buon cinque centimetri. Allungò una mano e senza nemmeno toccarla la fece finire addosso a Eddie e agli altri. «Zitta, non sai nemmeno di cosa stai parlando, povera sciocca. Non hai idea di chi io sia».
Harmonia si volse, i capelli mossi da un vento impercettibile, lo sguardo acceso di fiamma e la pelle splendente. «Io sono la Regina di questa notte, io sono la Gran Sacerdotessa di Samhain...o come lo chiami tu e i tuoi seguaci Halloween...Io sono colei che regna incontrastata in questa notte!». Rise la strega ragazzina alzando le mani al cielo e facendone sprigionare lampi azzurrini, ridendo allo scatenarsi della tempesta. Si rivolse di nuovo a Hannaleen, avvicinando il viso a quello paonazzo della ragazza. «Parli insultando chi non vi ha fatto nulla, odiate qualcuno solo perché diverso da voi. Sei identica al tuo antenato, quello stolto superficiale del giudice Harvey Metcalf ma ora sono tornata e avrai la lezione che meriti».
Harmonia fece un paio di passi indietro e allungò la mano destra verso Hannaleen, lentamente quella fu sollevata in aria. Qualcuno urlò, i più non riuscivano a spiccicar parola per lo stupore.
Harmonia fece vorticare per alcuni minuti la povera Hannaleen, mentre la pettinatura si disfaceva, il trucco colava e il vestito veniva trasformato in un mucchio di stracci. Poi la rimise in terra. «Eccoti servita, questo è l'abbigliamento che ti si addice...sporco quanto lo è la tua anima». Hannaleen scoppiò in lacrime. «Tu, tu...Lucina l'ho sempre detto che tu sei cattiva, malata...feccia. Meriti di essere odiata. Invidiosa lurida schifosa».
A quelle parole si alzò un forte vento e Harmonia concentrò la sua rabbia, repressa da quattrocento anni contro la ragazza. Nuovamente Harmonia pronunciò parole incomprensibili e Hannaleen si ritrovò scaraventata nuovamente addosso ad Eddie. Quello, imitato da altri, si ritrasse schifato. Hannaleen ora indossava abiti del tutto simili a quelli che Harmonia conosceva da i ricordi di Lucina e aveva lo stesso aspetto trasandato e non alla moda. «Ora tu sei esattamente identica a chi tanto hai in odio. Ti avevo detto che con me non si deve scherzare. Non provo pietà e tanto meno simpatia per le persone grette, egoiste e superficiali. Stai zitta se non vuoi che ti faccia spuntare anche due orecchie a sventola o ti faccia cadere i capelli...hahahah».
Eddie, che solo per il fatto di essere il cugino di Hannaleen si sentiva in obbligo di fare qualcosa, si lanciò verso Harmonia ma fu intercettato da Kayran, che lo spedì a terra con un pugno
Harmonia la superò ed entrò, venendo accolta da uno scroscio di applausi e qualcuno le si avvicinò congratulandosi con lei per i suoi "trucchetti".
Kayran la raggiunse. «Complimenti. Hai veramente messo a posto Hannaleen. Veramente sei la Regina di Halloween». Tutti i presenti ripeterono quel titolo come una cantilena
Harmonia si godette il momento fino a che intravide il chiarore dalla finestra. «Devo andare» disse correndo via, pur a malincuore ma il suo signore oscuro era stato chiaro: aveva solo quella notte per mettere a posto il suo conto in sospeso con i Metcalf. La sua missione era compiuta.
Era senza fiato quando si ritrovò nella radura dove si era impossessata del corpo di Lucina, sorrise quando i fuochi fatui apparvero trasformandosi negli spiriti passati. Fu avvolta dai lunghi sudari neri e si sentì tornare eterea, abbandonare il corpo per tornare nell'oscurità. Poi fu solo buio e silenzio.
Era mattina inoltrata, il sole tiepido riscaldava appena l'aria quando Lucina si ridestò, di fronte a lei stava Kayran. «Tutto bene?», le disse porgendole la mano. Lei l'afferrò guardandolo confusa. «Ti ho cercato tutta mattina, da quando all'alba sei scappata. Non si parla d'altro che della lezione che hai dato ad Hannaleen durante la sua festa».
«Lezione? Che lezione?», soffiò Lucina senza capire. Si guardò chiedendosi perché mai indossasse quel vestito, quelle scarpe preoccupata di dove potessero essere i suoi soliti abiti e di cosa avrebbe detto il nonno quando sarebbe tornata a casa dopo la scenata che gli aveva fatto. Mentre faceva quel pensiero gliene spuntò un altro, in fondo non aveva fatto niente di così terribile, niente di così irreparabile. Sorrise senza accorgersene, sentendosi bene, sentendo la vita fluire in lei.
«Prima di te nessuno aveva mai avuto il coraggio di affrontare Hannaleen. Ti sei comportata da autentica Regina di Halloween, Lucina».
«Samhain, Regina di Samhain...e chiamami Harmonia», rispose di getto sorridendo, «Io sono Harmonia».
Lo prese sottobraccio e si fece condurre fuori dal bosco e lanciò un ultimo sguardo prima di buttarsi nella sua nuova vita.



mercoledì 8 agosto 2012

MY INCREDIBLE JOURNEY IN LONDON

Lenta la luce filtra dalle tapparelle accostate, dalla strada non giunge un suono. É un tiepido bacio sulla mia fronte, che lentamente mi ridesta da un sonno invischiato di strani sogni. Mi stiracchio pigramente nel momento in cui la sveglia trilla, la camicia da notte attorcigliata al corpo come i tentacoli di qualche mostro. 
Alla cieca allungo una mano e la spengo, penso di girarmi dall'altra parte e sonnecchiare ancora qualche minuto ma un altro campanello, più forte ed insistente - così insistente che anche la gatta esprime il suo netto dissenso al quel suono assordante e petulante - mi costringe ad alzarmi. 
Butto i piedi oltre il letto e, senza nemmeno infilarmi le pianelle, mi trascino alla porta. Il pavimento è un dolce refrigerio sotto i miei piedi nudi. 
Provo a controllare chi, in quel primo pomeriggio di un giorno di inizio ottobre, si azzarda a disturbarmi ma dall'occhietto dell'uscio non scorgo nulla. Quindi mi risolvo ad aprire. Davanti a me, in camicia da notte e capelli scarmigliati, appare la figura di una donna, che dai tempi dell'infanzia, non vedevo.
"Tu? Tu?", biascico, forse sto ancora sognando, penso stordita. "Avanti muoviti, vestiti a modo. Dobbiamo andare!", replica lei, serafica con quel suo imperturbabile sorriso ad adornarle il viso, identico a quello che emerge nei miei ricordi infantili. "Su, su. É maleducazione far attendere, quando si é stati invitati". Intanto mi ha spinto dentro casa e sta già rovistando nel mio armadio, tirando fuori vestiti, bluse, gonne, biancheria e calze. 
Osservo quell'ammasso di roba senza riconoscere un solo capo del mio non proprio sguarnito guardaroba. Faccio per protestare ma lei mi porge un paio di cose, culotte bianche e una specie di camiciola. Le agita con piglio autoritario davanti al mio naso, intendendo che le devo indossare, senza fare tante storie. Alla fine, sentendomi sempre più come se fossi ancora addormentata, ubbidisco. Mi domando da dove provengano quei vestiti: so per certo di non avere mutande o altra biancheria di colore bianco. Ho una certa idiosincrasia per il colore bianco e lo evito come una malattia. Faccio appena in tempo ad allacciare l'ultimo bottone di madreperla che sotto il naso mi ritrovo una gonna beige e una camiciola azzurrina. Faccio un passo indietro e scuoto la testa. Io quello non lo indosso!, mormoro. La mia vecchia conoscenza sospira, gli abiti finiscono nuovamente nel mucchio e la ricerca riprende frenetica. Pochi secondi e mi passa delle lunghe calze - nere questa volta - e poi un paio di stivaletti alti. Un solo movimento del dito e provvedo ad infilarli, senza emettere un fiato. 
Alla fine dalla matassa disordinata di vestiti trae fuori, una delle sue magie senza dubbio, un vestitino nero, semplice e di stile alquanto antiquato. Questa volta lo indosso senza fare storie e già lei mi attende in ingresso, reggendo il mio cappottino nero e un cappello, che non ricordo di possedere. Me lo calca in testa e mi fa cenno di prendere la borsa, abbandonata sul mobile dove tengo le chiavi.
Ho appena il tempo di dare una mandata e già mi ritrovo in strada, sotto un cielo pallido e senza sole. Non fa né caldo né freddo, il tempo sembra essersi fermato. Cosa che non mi lascia molto perplessa, visto il personaggio con cui mi accompagno. 
Accelero il passo per starle dietro e dopo nemmeno cento metri ci fermiamo, bussa alla porta e veniamo fatte accomodare in una casa dalle pareti di legno nero e tappezzeria a fiori. Ho una netta impressione di déjà-vu.
Di fronte a me si apre un'ampia stanza da pranzo, un bel tavolo rotondo, di legno, è apparecchiato per il tea: tovaglia bianca, fresca di bucato, piattini, chicchere, tazze, zuccheriera, vassoi di dolcetti e tramezzini, una grossa teiera di porcellana cinese finemente dipinta sono sparsi sul piano. Le sedie sono spostate e due donne, che da qualche anno hanno passato la giovinezza, si stringono mentre un vecchio, sghignazza a pochi centimetri dal soffitto. Questa immagine mi convince di nuovo che sto sognando. Non avvengono nel mondo "normale" fatti di questo tipo. Lei non si lascia prendere dal panico e cerca di far scendere il caro congiunto ma senza molto successo. L'ometto continua a sghignazzare e ben presto coinvolge anche me. Mi sento improvvisamente leggera e, inconsapevole, mi ritrovo a fissare l'amica del passato sospesa anche io in aria. «Non cominciare anche tu», brontola lei, «Mi basta già questo vecchio pazzerellone». Mi stringo nelle spalle, non è proprio colpa mia il trovarmi in mezzo a quella situazione strampalata.
Rido, cercando al contempo di mantenermi seria, ma mi è quasi impossibile, i pensieri si fanno confusi e le immagini sfocate. Ricordo appena che sto bevendo una tazza di tea, aromatico e dolce perché sento la testa pesante e non riesco a tenere gli occhi aperti, la conversazione mi sfugge così come non capisco le domande che mi vengono rivolte dall'amica e dallo zio. 
Vorrei scusarmi ma non riesco a parlare.
É un boato che mi desta questa volta, fuori il bagliore è più brillante. La dolce metà russicchia di fianco, incurante del rumore proveniente dall'esterno, e mi tira un calcio alla caviglia, che senza scompormi gli restituisco. Bofonchia un lamento e si gira, dandomi la schiena. Prendo la sveglia e cerco di decifrare che ora siano, mattina o pomeriggio.
I soffici ricordi della visita dell'amica di infanzia permangono nella mia mente, mentre mi risdraio, i capelli sciolti sul cuscino mi sfiorano il collo e comincio ad arrotolarmene una ciocca, da quanto non li taglio?, mi domando pigramente. Quella sensazione che qualcosa non sia a posto che ancora mi aleggia addosso, come se anche questa volta non mi fossi svegliata del tutto. Cerco di non far fuggire le immagini di quanto ho sognato pochi minuti fa. Servirebbe una buona tazza di tea, una sigaretta, leggere una rivista in cucina mentre fuori piove. Pensieri nostalgici i miei.
Mi alzo, regalo qualche grattatina alla gatta, allungata in fondo ai miei piedi. Sistemo la camicia da notte, arrotolata intorno alle gambe e inizio il mio tour. Metto su il bollitore ma poi lo spengo: abbiamo finito il tea, biscotti, pane per i toast. La dispensa è un deserto. Dalla strada giungono rumori ovattati ma non ho tempo di attardarmi.
Torno in camera per vestirmi ed uscire ad acquistare il necessario per la colazione, prendo a casaccio dei vestiti dalla sedia. Quello dorme, fuori potrebbero combattere la terza guerra mondiale e nemmeno se ne accorgerebbe. In bagno mi vesto, noto che gli abiti sono simili a quelli del mio sogno ma non mi soffermo troppo. Probabilmente li ho comprati a qualche mercatino e me ne sono dimenticata. 
Ho poco tempo. Faccio cenno alla gatta di far silenzio ed esco, percorro il piccolo androne senza accendere la luce e in pochi minuti sono nella via. London mi appare nel suo fulgore di inizio autunno, ma nessuno in giro. Deve essere molto presto. Il cielo è bianco con sfumature argentate, non dissimile a quello del mio sogno. 
Le botteghe hanno ancora tutte le serrande abbassate, sono l'unica persona in giro. Mi sento come se fossi rimasta l'ultima persona sull'intero pianeta, poi una donnina mi compare a non più di un paio metri, dirigendosi verso un intrico di viuzze poco distanti. Decido di seguirla e la vedo entrare in un cortile.
Un'arcata mi introduce in un mercatino delle pulci, ricorda quello di Portobello's Road ma in miniatura: non più di una quindicina di bancarelle sparpagliate. Da una prima rapida occhiata sembra che espongano soprattutto oggetti di antiquariato, o modernariato, vintage e oggetti simili. 
Lampade, mobili di piccole dimensioni, soprammobili di vari gusti e proporzioni, qualche abito, scarpe, borsette, persino occhiali. E poi diari, penne e set da scrittoio.
Sto appunto guardando uno di questi, potrebbe essermi utile, dopotutto spesso prendo appunti a penna prima di riversare tutto nel computer e uno, insieme ad una di quella penne stilografiche così vintage, potrebbe fare al caso mio, che l'anziana ambulante mi si fa vicino e mormora: "Ottima scelta, miss, questo è il set più bello che ho...". Afferra una scatolina di legno intarsiato e me la porge. "Abbiamo anche la sua penna stilografica, in ceralacca nera, ideale per una giovane come lei, che mi sembra molto colta e, se posso permettermi, sono certa che ama scrivere. Glielo si legge negli occhi". Mi ritraggo imbarazzata e spaventata a quelle parole ma la vecchia cambia repentinamente fisionomia apparendomi come un mostro: occhi cattivi contornati di nero e pelle grigiastra, sottile e squamata come quella di un rettile, un ghigno sadico e affamato deforma le labbra e intravedo zanne nere grondanti saliva. Sorrido, poco convinta e faccio per allontanarmi ma quella mi insegue, accelero il passo. "Non costa tanto, miss, e son cose fatte per durare", mi grida alle spalle ma non torno indietro. Mi ritrovo all'ingresso, sotto l'immenso arco e mi volto, gli ambulanti hanno lasciato i loro stand e si dirigono verso di me e mi metto a correre per quanto la gonna stretta me lo consente. Giro a casaccio per le viuzze di quella parte del quartiere finché mi rendo conto che son sola...e che mi sono persa.
Prendo la borsa e rovisto, il cellulare mi dice "no service" e maledico tra me e me le case così alte e vicine. Cercare di tornare indietro è impossibile, potrei aver girato in qualunque punto di quel labirinto. L'unica soluzione è proseguire per la via in cui mi trovo e sperare di incontrare una qualche fermata del tube che mi permetta poi di tornare a casa. Al diavolo tea, burro, marmellata e toast. Al momento mi viene più che altro da vomitare per il puzzo di acqua stagnante.
Cammino aguzzando l'orecchio nella speranza di sentire delle voci e poter chiedere indicazioni quando d'un tratto, girando dietro un angolo mi ritrovo davanti un piccolo imbarcadero. La strada declina verso il fiume che ha preso il posto della strada, il pontile in legno scuro che permette di salire su barchette, più simili a scialuppe che a veri e propri battelli, la biglietteria ricavata in uno sgabbiotto di legno anch'esso e dipinto di bianco. Di fianco la sala d'aspetto, dove cinque o sei persone, soprattutto donne, attendono il loro turno. Sopra la casetta bianca spicca un cartello, recante la scritta "linea fluviale cittadina londinese", in pratica un servizio di bus su barca. Nel centro di London? Ma da quando? Penso che sto proprio sognando, è un'avventura quindi. Uno di quei sogni nonsense. Sorrido tra me, se è un sogno sono al sicuro...e non può non essere un sogno, conosco London come le mie tasche e so che non ha mai avuto un servizio fluviale, non nel mezzo di un quartiere residenziale per lo meno.
Entro nella biglietteria affollata e, nella mia enorme borsa, cerco il portamonete ma non so minimamente dove debba andare. Noto una cartina e mi soffermo a leggere: stazioni che non conosco, in una parte della città che mi è sconosciuta (cosa che in un sogno può anche capitare, mi ripeto). Una fermata attira la mia attenzione: Borough Hill. So benissimo che non esiste uno stop con questo nome ma, tra tutti, è quello che mi ispira più fiducia di tutti gli altri. Inoltre non è molto distante rispetto a dove mi trovo ora, una decina di fermate, di conseguenza non deve essere molto lontano rispetto a dove vivo. E poi in un'avventura bisogna affidarsi all'istinto, altrimenti che gusto c'è.
Torno davanti alla bigliettaia e sorrido, timida, sentendo gli occhi degli altri passeggeri addosso a me. "Borough Hill", mormoro e quella mi consegna un talloncino color arancio pallido. "Battello 15, in arrivo tra sei minuti. Fermata 14", mi dice con voce atonale. Sorrido e mi appropinquo ad una signora, sedendomi al suo fianco. 
Il cellulare continua a non dare segni di vita ma almeno posso ascoltare un po' di musica. Seleziono una playlist, sotto lo sguardo incuriosito della sconosciuta. Non mi pare così in là con gli altri da non aver mai visto quel genere di telefonino.
Un improvviso frastuono copre sia le sue parole sia parte del brano che sto ascoltando, ci sporgiamo e dalla finestra scorgiamo un caccia bombardiere che fende quel cielo color piombo ora. Strabuzzo gli occhi e a malapena sento quella che commenta. "Maledetti tedeschi, maledette le loro bombe. Cominciano verso quest'ora a sorvolare la nostra povera città, per scegliere dove bombardare. Maledetti". Cambio canzone e metto via il telefono in borsa. Londra bombardata?, roba da seconda guerra mondiale, roba da film, roba da sogno. La piccola imbarcazione, che mi deve portare nella misteriosa Borough Hill, compare, scendendo lentamente lungo il fiume. Mi alzo per vidimare il biglietto e la mia attenzione è catturata dalla data: febbraio 1941! Sto sognando di essere nella London bombardata dai tedeschi e sto per intraprendere un viaggetto lungo un canale interno alla città, che non dovrebbe esistere nella realtà. Ma che mi dici il mio cervello addormentato? Prima quella strampalata visita ora questo.
Non potendo fare altro mi faccio aiutare dal manovratore, che mi vidima il biglietto e mi fa cenno di prendere posto vicino a lui. Dal labiale interpreto che mi dirà quando sarò giunta a destinazione. Ascolto stranita, quasi in apnea, le canzoni che si alternano e dopo quasi tre quarti d'ora arrivo a Borough Hill. L'uomo mi aiuta a scendere e una volta sulla terra ferma mi dirigo verso la sala d'attesa. Ho bisogno di rimettere a posto le idee. Mi siedo e, con estrema lentezza perché mi sento senza forze, spengo il telefono, non ha senso tenerlo acceso. Lo rimetto nella borsa e mi guardo intorno: non riconosco questo posto e non c'è nessuno cui domandare.
Penso a come tornare a casa, a svegliarmi e riprendere la mia vita quotidiana. Penso e mi sento sempre più stanca, come se stessi affogando in un lago di pece. Sento le palpebre sempre più pesanti mentre il rombo degli aerei si fa più intenso. Il mio cervello è attraversato da pensieri simili a flash: devo andare a casa, i bombardamenti è meglio evitarli, come ci sono finita in questo posto. 
Non riesco ad opporre a questa stanchezza, che rende le membra pesanti e i pensieri confusi, alcuna forza di volontà. Alla fine cedo e reclino la testa su una spalla, scivolando in quello che sembra sonno, appiccicoso e irreale. L'ultimo pensiero cosciente, e non poco sciocco considerata la situazione, è che spero che nessuno mi rubi la borsa. Dopodiché precipito nell'oblio.
"Hey baby, sveglia...è ora di colazione", mi sussurra Lui all'orecchio facendomi sobbalzare e quasi casco dal letto. «Cosa? Che? Dove?». Respiro profondamene riprendendo il controllo. Fuori le nuvole sono nere ma l'aria è tersa e fresca come sempre dopo un temporale e mi accarezza la pelle. «Colazione, mia cara. Non hai fame?» e indica il vassoio con il tea fumante, i toast dorati, la marmellata di fragole. La gatta mi guarda basita mentre si avvicina a quelle delizie decisa ad assaggiarle. Con gentilezza la sposto facendole un grattino sulla capoccia, ma ricevendo un grugnito insoddisfatto in cambio mentre se ne va in cucina a sgranocchiare qualche crocchino.
Mi infilo la canotta sul corpo sudaticcio, scacciando gli strani strascichi di quel sogno. «Sto morendo di fame...stanotte ho fatto un incredibile viaggio in giro per London. Nemmeno te lo puoi immaginare», gli racconto, addentando un toast.

ps: questo racconto non è stato inventato (se non per la parte finale) ma è il resoconto "romanzato" di un sogno che ho fatto qualche notte fa! Spero che vi piaccia 

Goth Night and Sweet Dreams from your Night Angel




domenica 8 gennaio 2012

SORELLE MORTE

1) La porta cigolando si aprì, lasciando trapelare un lampo di luce, poi il buio riprese il controllo sull'ambiente. La stanza circolare era immersa in una totale oscurità, eccezione fatta per un cono di luce al centro di essa. L'uomo incatenato, la testa riversa sul petto, respirava a fatica mentre quella luminosità purissima lo avvolgeva.
La dama, abbigliata di pesante broccato verde, mosse qualche passo avvolta nelle tenebre. Osservava la figura maschile privata di ogni forza e di ogni volontà. Stirò le labbra esangui in un sorriso cattivo e soddisfatto. Intorno agli angoli delle labbra si irraggiò una rete di rughe, la sua giovinezza era passata da un pezzo.
Sollevò le mani scheletriche e pallide muovendole. Il prigioniero si inarcò, come sotto la sferza della frusta. Una, due, cinque, dieci, trenta volte! Finché la schiena fu ridotta a sanguinolenti brandelli di pelle.
Con espressione compiaciuta la donna uscì, sommessamente le giunsero i lamenti dell'uomo mentre si allontanava lungo il corridoio. Il prigioniero sentiva il sole bruciargli le ferite e la pelle viva, provò a sollevare il capo ma una fitta lo percorse mozzandogli il fiato.
2) Lasciata la stanza dove il condannato era ospitato, la dama in verde ritornò indietro, percorrendo il disimpegno, lungo e silenzioso. Entrò quindi in una grande sala, appena illuminata da fiaccole appese alle pareti di pietra nuda e grezza e dalla luce che riverberava dal camino imponente. Occupava l'intera parete, contrapposto alle enormi finestre, che offrivano il panorama del cortile, dietro le spesse tende. In quel momento solo uno spiraglio di luce bianca e pallida filtrava dal sipario tirato.
Ad una ventina di passi dal camino troneggiava un tavolo di legno scuro laccato e finemente intarsiato. Le gambe riproducevano le effigi di demoni dalle fauci spalancate in zannuti ghigni sardonici. Intorno alla tavola erano sedute quattro donne di differente età e sembiante. Ognuna era impegnata in un'attività tipicamente femminile. Colei che aveva l'aspetto più giovane si trastullava con quella che poteva essere una marionetta ed emetteva, di tanto in tanto, squittii divertiti che interrompevano quel silenzio familiare.
La donna matura prese posto a sua volta ed afferrò poi un libro di poesie, aprendolo alla pagina segnata da un pregiato segnalibro in pelle cremisi.
Declamò a voce alta alcuni verdi quindi tacque, pensierosa. Il giorno non era nemmeno a metà del suo corso e il loro lavoro era appena cominciato.
Nel silenzio una seconda donna, la cui bellezza cominciava appena a sfiorire, si alzò. Il suo abito di raso bordeaux frusciò mentre si incamminava lentamente verso la porta di legno e metallo.
Lanciando alle quattro sorelle un sorriso crudele abbandonò il salone, percorse a sua volta il tetro corridoio giungendo all'ingresso della sala circolare.
Vi entrò e lanciò una lunga indagatrice occhiata al prigioniero, lasciandosi andare ad un sommesso ridacchiare.
Restando nell'ombra cominciò a camminare, compiendo il giro in pochi minuti. Accompagnò la sua passeggiatina da un monologo appena sussurrato. Ad ogni parola che le usciva dalle labbra dipinte l'uomo in ceppi si contorceva in preda a spasmi che esplodevano nelle sue viscere, facendolo guaire per il peggiore dolore che avesse mai provato nella sua esistenza.
Da quella seconda visita uscì più morto che vivo. Con le ultime forze si chiede cosa l'attendesse in seguito e tremò. Nonostante il sole a picco gli bruciasse la carne.
3) La seconda donna non fece quasi in tempo a rientrare nella grande sala, da cui ora proveniva un'allegra melodia e si potevano udire le parole di una canzone, che per poco non si scontrò con la terza sorella. Le due più giovani cantavano accompagnate al violino dalla maggiore mentre l'altra, una sensuale creatura dai fluenti capelli rossi e con indosso un abito cremisi, che lasciava scoperte le spalle e metteva in risalto la sua pelle nivea, rideva e danzava oscenamente. Si fermò per un momento quando la seconda fu riapparsa, fece una riverenza affrettata ed infilò la porta immergendosi nell'oscurità del passaggio.
Canticchiava allegramente quando fece il suo ingresso nella stanza dal lucernario. Il condannato, udendola, emise un gemito che voleva essere un apprezzamento.
La ragazza sorrise e le perle candide dei suoi denti piccoli e regolari brillarono nel buio. Si passò le mani tra i riccioli sistemandoli sulle spalle. Abbassò ancora le spalle dell'abito mettendo in mostra spalle e scollatura. Passò, infine, alla gonna sistemandosela intorno ai fianchi.
A quel punto entrò nella luce, senza smettere di canticchiare sommessamente. In pochi passi fu di fronte al prigioniero e gli prese il viso tra le mani sollevandolo verso il suo, stampandogli un bacio sulle labbra. Egli assaporò quel dolce effimero sapore. Lo rimpianse nell'istante stesso in cui lei si staccò. Una tortura! Rincuorato comunque da quel comportamento decisamente amichevole alzò lo sguardo annebbiato verso di lei e bastò una sola occhiata agli occhi verdi che si sentì sprofondare in un orrore indescrivibile. Gli attanagliò la mente e le membra, mentre quell'infernale creatura gli danzava attorno ridendo indecentemente e sollevandosi impudicamente l'abito.
L'uomo aveva voglia di urlare, implorare perdono ma non riusciva ad articolare un suono. Improvvisamente tutto tornò quieto, lui sospirò la sua frustrazione. Era sopravvissuto, sull'orlo della follia, ma era sopravvissuto non sapeva come a quella tortura. Aveva appena formulato quella considerazione che l'orrida sensazione prese nuovamente il sopravvento, lasciandolo senza fiato, forze e in grado di esprimere un pensiero coerente. Infine svenne.
Ridendo di fronte allo scempio che aveva fatto del condannato la giovane lasciò la stanza. Si divertiva sempre così tanto. E questo faceva imbestialire le sue sorelle maggiori, che le invidiavano bellezza e gioventù piuttosto che il compito che le era stato assegnato. Sapeva bene anche che entrambe non approvavano i sistemi che adottava per portarlo a compimento. Ma non le importava.
4) Il silenzio regnava nuovamente nella sala del camino, quando ella vi ritornò. Senza produrre rumore si sedette al duo posto, davanti al ritratto di un giovane uomo in catene trafitto da pugnali e che piangeva lacrime di sangue.
"Il giorno s'avvia al suo termine - disse con la sua voce argentina -. Bambine è il vostro turno".
Le due ragazzine, un'adolescente dai serici capelli biondi con indosso un abito azzurro come i suoi allegri occhi e una fanciulla che da poco aveva varcato la soglia dell'età adulta, si alzarono e, prendendosi per mano, lasciarono la stanza dopo aver fatto la riverenza. La loro meta era la medesima delle tre che le avevano precedute.
Entrarono ridacchiando e sussurrandosi parole di incoraggiamento. Notarono che il cono di luce era ora di un intenso rosso e arancione, i colori del tramonto. E si era ristretto di molto, presto sarebbe stato inghiottito dal buio.
Si sorrisero e si avvicinarono, senza lasciare la stretta delle mani.
Ancora prostrato dal precedente incontro l'incatenato sobbalzò al loro appressarsi. I muscoli si ribellarono e di nuovo fu scosso da tremiti. Si sentiva devastato nel corpo e nell'animo quando intravide i sorrisi delle due e percepì un senso di sollievo.
Le due lo abbracciarono dolcemente, una lo carezzava in viso sussurrandogli parole di conforto che avevano la capacità di lenire le sevizie subite dalla sua anima corrotta. L'altra sanava, in modo analogo, quelle del corpo martoriato.
All'unisono recitarono "Per Grazia e Pietà raggiungi l'aldilà e trova alfine pace e tranquillità". Il corpo si scosse ancora una volta e restò immoto, abbandonato dal soffio vitale.
La sala piombò nell'oscurità e le ragazzine tornarono dalle sorelle, ridendo.
5) Avevano appena lasciato la sala e cinque uomini emersero dalla pece della notte, liberarono il corpo esanime e portarono via il cadavere. Nel mentre una rozza carrozza, proveniente dal tribunale a valle, percorreva l'ultimo tratto dell'accidentata strada che raggiungeva il maniero delle Sorelle Morte.
Crudeltà, alla finestra, osservò i tremolanti lumini in lontananza e proruppe in una terribile fredda risata. "Sorelle care, avremo un nuovo ospite, domani".