lunedì 7 maggio 2012

IL PAESE SENZA DONNE

Non se ne accorsero subito, perché era il lunedì successivo ad una importante partita di calcio. L'euforia per la vittoria dei tifosi della squadra iridata, la tristezza mista ad una pseudo depressione sportiva di chi aveva perso, il disinteresse dei non tifosi di quello sport che si preoccupavano di ben altro, distrassero i milioni di abitanti.
In una sorta di trance quella mattina si alzarono, si fecero la doccia, lavarono di denti, vestirono, bevvero milioni di caffè, si incamminarono per andare a scuola, all'università, al bar, al lavoro. Giovani, adulti, bambini, anziani cominciarono il nuovo giorno come se fosse tutto normale. I politici di ogni schieramento quella incredibile mattina si ritrovarono tutti riuniti in parlamento. Un fatto storico che trovò eco su tutti i telegiornali come caso assolutamente unico dall'unificazione del paese qualche secolo prima. Nemmeno loro che avevano in mano le sorti del paese si resero conto di niente.
Troppo intenti ad insultarsi più pesantemente del solito mischiando politica, calcio, insulti alle parenti di vario grado (dalla mamma alla sorella, fino alla bisnonna di quarta generazione senza dimenticare zie e cugine) e ovviamente riferimenti a passate appartenenze partitiche e a passaggi di schieramento degni del miglior trasformista da cabaret. Ci fu chi, in un impeto forse di ilarità, propose di assumere, invece che i soliti uscieri, qualche arbitro, meglio se di boxe. Visto il trascendere delle persone e l'escalation della violenza..
Solo verso l'ora di pranzo qualcuno, un po' più sveglio degli altri o semplicemente un po' più affamato, cominciò a rendersi conto che qualcosa non quadrava. Mancava qualcosa, ma non si riusciva a definire chiaramente cosa fosse.
Fu solo alle 20, quando in milioni erano infine rientrati nelle proprie abitazioni, erano sprofondati sul divano, telecomando saldo in pugno davanti alla televisione, che finalmente la sensazione di smarrimento e di mancanza prese forma ed ebbe una definizione. Una di quelle tanto care a giornalisti televisivi e delle carta stampata. "Tutte le donne del paese, dalle neonate alle più anziane, erano misteriosamente scomparse. Non un esodo di massa - lesse con un certo imbarazzo e non poche perplessità lo speaker di una delle principali reti televisive della nazione - verso altri paesi ma semplicemente una sparizione. Si calcola che oltre la metà della popolazione non sia più presente sul territorio nazionale. Un fatto assolutamente unico nella storia dell'umanità".
Immediatamente vi fu chi nella capitale, nei centri del potere, ordinò riunioni, commissioni, i soliti iter di governi che finivano per risolversi nel nulla. Ci fu chi rimase imbambolato sul suo divano senza riuscire a sapere bene come prendere quella notizia. E ora?
Non mancò anche chi rise e affermò che "finalmente tutto avrebbe funzionato, perché in fondo, chi aveva bisogno di quella parte che nella maggior parte dei casi gravava sulla controparte maschile?". Come sempre capita queste affermazioni così accese ed estreme fecero proseliti in fretta, ma altrettanto velocemente li persero. Chi più chi meno non c'era un solo uomo che non avesse perso almeno una donna. I bambini piangevano perché volevano la mamma, i mariti riempivano i ristoranti orfani della cucina della moglie e allungavano la mano in letti vuoti e freddi a metà rimpiangendo quel calore che fino a poco prima avevano dato così per scontato. 
Il paese, incredibilmente, invece di progredire come era stato auspicato dai più ferventi sostenitori del maschilismo  entrò in una fase recessiva.
Gli scienziati, uomini e donne (che però restavano il minimo indispensabile per capire la situazione e poi se ne tornavano nei loro sicuri paesi di origine dove erano trattate con rispetto per la loro conoscenza e il loro lavoro e non come oggetti del ludibrio e della lussuria di quei poveri uomini senza donne), di mezzo mondo si riversarono in quel paese per cercare di capire cosa potesse essere accaduto.
Spiegazioni scientifiche non ne trovarono per quella strana scomparsa ma le relazioni che consegnarono ai loro capi di governo, che li avevano spediti per valutare la possibilità di inviare delle volontarie per prendere il posto delle donne scomparse. "Gli uomini interrogati hanno dimostrato scarso rispetto per le donne. Anche tra i più giovani la considerazione è che esse siano cameriere, cuoche, amanti, oggetti sessuali, corpi da mettere in mostra senza considerazione per sentimenti, aspettative". Le possibili volontarie furono richiamate e il progetto morì.
Nel paese si cercava una soluzione, visto che il tempo passava e le donne non riapparivano, si presentava il problema dell'invecchiamento della popolazione.
Una situazione presente anche prima, ma almeno qualche bambino nasceva ogni tanto, anche se per lo più tra gli immigrati. Ora niente, perché anche le donne che là avevano trovato una nuova patria erano sparite, insieme a quelle che vi erano nate e cresciute.
Il governo convocò conferenze su conferenze cercando di tranquillizzare il popolo, ma ormai la paura stava prendendo il sopravvento. Bisognava agire
Alla fine il presidente ordinò alle più brillanti menti del paese in campo medico di trovare una soluzione e fu così che questi partorirono l'idea di "modificare" l'attitudine sessuale degli uomini rimasti.
A seguito di quella proposta che molti letteralmente fuggirono, prendendo la via dei paesi dove le donne ancora c'erano chiedendo asilo. Una strana emigrazione, che sembrava destinata a non avere fine, tanto che qualche capo di governo minacciò di chiudere le frontiere mentre i più malleabili facevano firmare a chi chiedeva ospitalità di trattare in modo diverso le donne. Nuove leggi per migliorare la condizione delle donne, per garantire sicurezza del posto di lavoro, l'accesso al lavoro, furono emanate per poter evitare che quella catastrofe potesse verificarsi anche da loro.
Il paese che maggiormente aveva fatto del machismo e del maschilismo la propria bandiera relegando a ruolo di comparsa la donna si trovava sull'orlo di un cambio epocale: tutti sarebbero diventati ibridi, né maschi né femmine ma all'occorrenza un po' di entrambi nella speranza che a forza di modificazioni prima o poi sarebbero riusciti a tirar fuori una donna con tutti i connotati al posto giusto. Ci sarebbe stata, ovviamente, una non tanto ristretta cerchia che non avrebbe subito questo trattamento per garantire la fornitura del materiale genetico maschile necessario ad un futuro concepimento alla vecchia maniera. In questo modo gli esperti erano convinti di poter arrivare ad un riequilibrio maschile/femminile nel giro di poche generazioni. 
Gli scettici non mancavano ma la disperazione serpeggiava tra i più e alla fine anche i più reticenti furono costretti ad accettare. Il giorno del referendum, per la prima volta da anni, vi fu un'affluenza alle urne del cento per cento.
E vinsero i favorevoli a quel delirio genetico, quel giorno non mancarono tafferugli e proteste. Chi vi partecipò subì una condanna esemplare, almeno dal punto di vista di chi la pronunciò: tutti sarebbero stati sottoposti inderogabilmente al trattamento.
Con un'organizzazione sconosciuta fino a pochi mesi prima furono creati uffici appositi dove bisognava registrarsi ed essere visitati, per sapere quale sarebbe stato il proprio destino: una specie di fuco ermafrodita oppure un uomo sano con tutti gli attributi.
A finire sotto la scure della modificazione furono soprattutto i più giovani, i bambini che ancora non avevano un'idea precisa della propria identità. E si procedette a questo scempio umano, estremo tentativo di trovare una soluzione.
A gruppi d'età venivano imbottiti di estrogeni e di ogni sostanza che avrebbe potuto portare a qualcosa di simile al cambio di sesso, con risultati spesso aberranti. Gli ospedali si riempirono di disperati che soffrivano, la mentalità maschilista che discendeva da secoli di educazione si scontrava con la nuova fisicità dei soggetti.
I suicidi si moltiplicarono, e alla fine - dopo due anni di sperimentazioni e oltre il 70% di fallimento - fu abbandonato il progetto. Bisognava trovare una soluzione e il nuovo governo tornò a bussare alle porte dei paesi vicini chiedendo che si riconsiderasse l'opzione delle volontarie.
Ma la risposta fu un secco rifiuto: nessuno voleva mettere nelle mani di uomini che si ammazzavano a vicenda, chi era ancora totalmente uomo non lesinava di perseguitare e poi uccidere, mutilare chi era stato reso un po' troppo effeminato per i loro gusti. Veri e propri tribunali illegali si formarono nei quartieri, perseguitando questi disgraziati, che non avevano protezione dalla legge dello stato e tanto meno dalle forze dell'ordine, in quelle poche occasioni in cui vi si rivolgevano. Dalla televisione la comunicazione di omicidi e persecuzioni raggiunsero livelli da bollettini di guerra. Le carceri e gli ospedali si riempirono, le strade e gli uffici si svuotarono. L'economia andò sempre peggio. Il nuovo governo che si era insediato con la promessa di risolvere la situazione, formato da reduci di precedenti compagini, che ben si erano adeguati a quella nuova società, dimostrò in pochi mesi tutta la sua inutilità.
In quella società non era cambiato nulla, le donne erano state solo sostituite da surrogati più o meno riusciti, la mentalità era la medesima e chi stava al potere aveva dimostrato pienamente la propria incapacità a gestire quella situazione con leggi adeguate.
Il paese fu condannato e i pochi che alla fine sopravvissero al dilagare della pazzia e dell'escalation di violenza si ridusse ad uno stato semi selvatico, sopravvivendo.
Senza ricambio generazionale in meno di cinquant'anni quella nazione che era stata culla di cultura e di civiltà divenne una landa desolata e quasi totalmente disabitata, ricca solo delle vestigia di un glorioso passato in cui le donne era stato paragonate a dee e ad angeli.

venerdì 4 maggio 2012

CASO 459034

Luce bianca, al neon, fredda. Illumina questo spazio altrettanto candido. Pareti color latte, mobili di metallo opaco o tinteggiati dello stesso colore delle mura. Persino con la vernice e l'intonaco si intuisce che sono mura antiche e fatte per durare, spesse e pesanti. Come l'aria che c'é, quasi ti toglie il respiro.
La ragazzina pensa questo, nella manciata di minuti in cui ha il tempo di osservare stanza. Non bada ai fantasmi pallidi che le danzano attorno in un'andirivieni costante all'interno di quell'edificio sconosciuto. Nemmeno si accorge degli altri, le urla non le giungono perché é sorda, quindi continua a sorridere timidamente. Per capire le persone guarda le labbra, ha imparato da piccola ad interpretare i movimenti e a correlarli alle parole. Per esprimersi scribacchia su una lavagnetta, lettere storte ed imprecise, sua mamma pazientemente gliel'ha insegnato dopo che la scuola elementare del quartiere di Monaco dove è cresciuta l'ha rifiutata perché non udente. Adesso non l'ha più, la sua lavagnetta, il suo contatto con quel mondo che le appare così strano e misterioso. Gliel'ha portata via, appena arrivata con l'autobus grigio, una signora vestita di bianco, che le ricorda la zia Magda: viso tirato e arcigno. Antipatica, le aveva tirato una sberla cattiva quando aveva tentato, allungando le mani, di riprendersi il suo tesoro color ebano e i gessetti bianchi. Sul viso bianco ancora si intravede il rossore causato dal ceffone, ma lei non ha pianto. Perché non vuol farsi veder piangere da quelle persone sconosciute, sebbene la spaventino.
É arrivata da poco più di un'ora in questo posto. La mamma le ha detto che é per il suo bene, che qui la cureranno e starà bene. Non capisce. lei già sta bene, é sana. Corre e gioca. Ride sempre. Nel suo mondo silenzioso, é felice. Perché allora deve stare là, dove stanno le persone malate (li ha intravisti mentre passava nel corridoio grigiastro che dal grande e bell'ingresso la ha portata in questa stanza bianca e fredda), quelle che non si alzano dal letto?. 
L'hanno spinta al centro di quello che le appare del tutto simile all'ambulatorio del dottor Meck. Resta lì, immobile e un po' spaventata, davanti ad un uomo. Grande, grosso e minaccioso, mani dalle dita grasse si muovono, regge una penna e quasi scompare in mezzo a quel grasso. Le sorride ma non è dolce, appare più come un ghigno malvagio e il resto del viso tondo le appare come un grugno di porco. Nella casa di campagna del nonno li ha visti tante volte. Lo guarda, le fa schifo ma non ha il coraggio di distogliere lo sguardo: qualcosa in quegli occhi azzurri chiari e gelidi le fa capire che non deve fare niente. Il minimo gesto sarebbe punito, come lo schiaffo ricevuto quando ha provato a riprendersi la sua lavagnetta.
Cerca di stare ferma, le mani strette dietro la schiena sfiorano appena il fiocco del suo abito. É quello della festa, la mamma gliel'ha fatto indossare perché facesse una buona impressione al suo ingresso nella struttura. É azzurro e non le piace, ma è quello più bello che possiede e mamma non ha voluto sentire ragioni. Ha le maniche corte, che terminano con un pizzo rigido, che le provoca sempre prurito. Anche adesso ma non ha il coraggio di grattarsi. 
Sa che non dovrebbe trovarsi in quel posto per malati: è sana e sta bene, il rossore sulle braccia é dato solo dal tessuto che sfrega sulla sua pelle bianca.
Non é stupida, come qualcuno l'ha definita più volte, solo sorda e non del tutto muta. Riesce ad emettere qualche suono, dice mamma con orgoglio, non proprio parole complete ma abbastanza si esprime in modo abbastanza chiaro perché chi sia abituato a sentirla riesca a capire ciò che intende esprimere. Vuole andare a casa, giocare in giardino con Dieter, il figlio del maggiordomo. Non le piace quel posto, non le piace quel maiale su due gambe. Ora si è alzato e le si è avvicinato, la tocca, la rigira e parla senza guardarla in faccia. Come se non fosse lì. E allora Anneke si agita, si divincola. Urla! In realtà sono poco più che squittii acuti ma per lei sono grida. Altissime e piene di dolore, frustrazione e odio.
Non riesce a capire cosa ci faccia in quel luogo sconosciuto. Ignora che si tratta di un moderno presidio medico, dove sono applicate le più moderne tecniche terapeutiche per l'assistenza esperta dei bambini con malattie ereditarie, è stato illustrato con dovizia di particolari sui giornali locali. Il luogo è divenuto rinomato in tutta quella parte del paese tanto per i metodi all'avanguardia quanto per l'elevato numero di decessi.
Il Doktor Herbert Finchermann, direttore del nuovissimo ed attrezzatissimo reparto dell’ospedale, blocca facilmente la piccola Anneke Heider, dodici anni vissuti nel silenzio, poco più che analfabeta e quindi incapace, una volta cresciuta, di poter lavorare, secondo i canoni imposti dal Furher, niente più che un peso per la società ariana. Improduttiva, come è stata definita dal medico di famiglia, che ha provveduto a segnalare il suo caso alle autorità competenti dopo l’ultimo controllo. 
"É troppo giovane per la sterilizzazione e non c'è in ogni modo tempo per aspettare il corso della natura. Per il resto non sembra affetta da altre malattie visibili ad un primo superficiale esame, ma non si può escludere nulla. Il provenire da una famiglia benestante assicura in ogni modo una certa educazione da parte della paziente 459034, che ha dimostrato di sapersi comportare con rispetto, sebbene il suo handicap renda pressoché impossibile avere una normale forma di comunicazione con lei. Nonostante la buona educazione ricevuta ha tenuto un comportamento durante la visita che è possibile definire come violento e antisociale. Questa reazione inconsulta e del tutto inadeguata Ci porta a supporre un primo cedimento o una prima forma di malattia mentale. É quindi necessario internarla in questa struttura e sottoporla quanto prima al trattamento", avrebbe scritto Finchermann compilando la cartella della bimba dopo il loro breve e poco felice incontro. 
Così vuole la lettera firmata da Hitler, che ha valore di legge per loro, pensava lo psichiatra, e magari potrebbe uscircene una bella promozione e un avanzamento di carriera. 
"Krankenschwester (infermiera) Zalinder la porti alla camerata 9", ringhiò il medico psichiatra quando Anneke tentò di liberarsi, mordendolo. "É in preda ad una crisi violenta, provveda a sedarla e poi la leghi al letto. Per la sua incolumitá...".
Frau Zalinder scattò in avanti afferrando la ragazzina per le braccia e trascinandola via, mentre la poverina si dimena e squittisce rabbiosa, le trecce in cui i suoi capelli biondi sono legati si sciolgono in onde scomposte e gli occhi verdi saettano da una parte all'altra della stanza, cercando una via di fuga. Il suo ritardo mentale é evidente, qualunque altro bambino del Reich non si comporterebbe in quel modo tanto selvaggio e dissennato, pensa la donna, ed è un vero peccato perché fisicamente rispecchia perfettamente l'ideale ariano indicato da Hitler.
Prima che la donna e la bambina scompaiano nel corridoio il doktor Finchermann si rivolge di nuovo all'infermiera "Mi mandi Rudy per favore, per farmi medicare. Chissà con che malattia potrebbe avermi contagiato quella piccola pazza". 
Adeline Zalinder scatta sull'attenti ed esce, alla prima collega che incontra ripete l'ordine impartitole dal primario. Prima di portarla alla camerata assegnatale, la nove, Anneke è fatta entrare in un altro ambulatorio, privo di finester e fornito solo di due porte. L’arredamento è composto di armadietti di metallo satinato, disposti ordinatamente sulla parete di destra.
La Zalinder fa cenno alla giovanetta di spogliarsi completamente quindi l’affida all’infermiera seduta alla scrivania quindi esce dopo aver scambiato poche parole con la seconda donna. Quella si alza e prepara una bilancia su cui ordina ad Anneke di salire, segna su un foglio il peso. Misura la sua altezza e vi scrive il risultato, infine prende una moderna macchina fotografica già caricata con la pellicola. Sistema una sedia al centro della stanza e ordina, con gesti secchi e perentori, ad Anneke di salirvi. Procede a scattare una decina di fotografie, intere e particolari del viso, mani, gambe, poi ripone la macchina. Mentre l'infermiera è voltata la ragazzina scende dalla sedia e resta lì. attendendo di conoscere il suo destino. Nuda, fuori tira vento perché è autunno inoltrato, ha freddo ma cerca di non tremare. Vorrebbe il suo cappotto ma gliel'hanno preso, insieme alla lavagna e ai gessetti, ai suoi vestiti e alle scarpe di vernice lucida bianca. Ha appena intravisto che son stati riposti in uno degli armadietti ma non sa quale: son tutti uguali. Cerca di coprirsi come può con le braccia magre.
Frau Zalinder infine si ripresenta alla nuova paziente e le porge una camicia da notte usata ed usurata, ma che sembra per lo meno pulita. Le fa cenno di indossarla e poi la spinge ancora. L'indumento le è un po' piccolo e stretto, arrivandole a stento alle cosce. "Schnell, schnell", disse con voce cattiva l'infermiera, sospingendola verso la seconda porta, di acciaio temperato e chiusa da un pesante chiavistello. La donna prende una grossa chiave dalla tasca dell'uniforme e la gira, la serratura scatta con un rumoroso clang, che rimbomba. Anneke percepisce le vibrazioni prodotte e fa un passo indietro, finendo addosso alla sua accompagnatrice, che nuovamente le dà uno spintone, quasi facendola cadere. La bimba pensa che non assomiglia per niente all'infermiera Greta, che lavora con il doktor Mainier.
Pochi minuti dopo l'infermiera e la bambina si ritrovano in un ambiente ben illuminato e gioioso per le risate dei giovani ricoverati. Lo stanzone misura una quindicina di metri di lunghezza e poco meno di dieci di larghezza, con grandi finestre che fanno entrare luce e i raggi del sole autunnale. Ospita quattordici bambini tra i sei e i quindici anni d’età.
Zalinder indica ad Anneke un lettuccio, in mezzo ad una figuretta che sembra una bambina, magrissima e dal visetto emaciato. Sembra che non mangi da giorni. Anneke le sorride ma quella si volta dall'altra parte e si abbraccia le ginocchia nascondendovi la faccia. L'altro letto è occupato da un bambino, di non pochi anni più giovane di Anneke, ha il capo bendato e sembra stia dormendo. Anche lui è magrissimo. 
Oltre all'infermiera che l'ha accompagnata nella camerata, la ragazzina nota che ve sono altre tre e un paio di uomini, anche loro con la divisa bianca dell'ospedale. Si aggirano per i letti osservando i bimbi sdraiati e segnando qualcosa sulle cartelle apposte alla testiera. In quel momento la Krankenschwester Zalinder sta riempiendo un modulo appeso al suo letto, riportando i dati ottenuti poco prima. In cima affranca una sua foto, quella che sua madre aveva affidato ad uno degli inservienti dell'autobus quando è partita. É del mese precedente e gliel'ha scattata suo padre in occasione di una festa in casa, sorride ed è felice.
Si mette a letto pur sentendosi benissimo, ma ha già visto all'opera il personale e non vuole essere punita.
Vorrebbe saper leggere meglio di quello che sa e che le permette di distinguere le lettere quando scrive sulla sua lavagna per poter sapere cosa è scritto sulla cartella in fondo al suo letto, si allunga e fa per afferrarla ma un violento spintone di uno degli infermieri la rimanda sul cuscino. L'uomo le urla contro, la faccia arrossata di rabbia e un dito puntato al suo viso. Anneke scoppia in lacrime, non per le brutte parole che quello le ha rivolto, ma per l'impotenza in cui sta affondando e per la nostalgia di casa e della mamma, del babbo e dei nonni, di Dieter. Lei sta bene, non deve stare lì, si ripete di continuo. Invece è chiusa in quel posto bianco, freddo e dove tutti sono seri e maneschi. Quando parlano non la guardano e lei non riesce a capire cosa vogliono. Quindi viene punita.
Si gira nel letto coprendosi interamente, solo una ciocca bionda spunta appena dall'orlo. Piange in silenzio, come ha imparato a fare da piccola, per non far preoccupare la mamma quando si faceva male in giardino. Adesso il suo silenzio è una difesa da quel mondo esterno estraneo e terribile. Sa solo che vuole tornare a casa. 
La terapia, come infine una paziente giovane infermiera le ha spiegato portandole la cena - un leggerissimo brodo quasi insapore - comincia immediatamente e di questa fa parte anche una dieta ferrea, che però le permetterà di stare bene lo stesso. 
Molti dei bambini, nota, nemmeno riescono a terminare la loro misera tazza e alcuni la rifiutano proprio. Un paio di giorni dopo, debole e con la mente offuscata dai morsi della fame, nota che un paio di loro non si sono più svegliati e vengono portati via velocemente. Per tanti che continuano a dormire altri ne arrivano e prendono il loro posto.
Una mattina tocca alla sua vicina di letto, il pallore della pelle è diventato livido e grigio, come le pareti del corridoio che ha visto quando è arrivata e non si muove più. Squittisce dalla paura e si alza per provare a svegliarla, scuotendola ma senza riuscirci. Urla e si agita, allora arriva l'infermiera Zalinder seguita da altri due, vestiti di verde e non di bianco. Sono quelli che portano via i bambini che non si svegliano.
La Zalinder l'afferra per un braccio e la strattona, costringendola a rimettersi a letto, prende una siringa e le fa un'iniezione. Anneke si sente immediatamente stordita e cade in un torpore chimico che le provoca gli incubi. Gli altri piccoli pazienti, troppo deboli per far qualcosa e troppo spaventati per anche solo pensare di provarci restano immobili nei loro lettini. Osservano e tacciono, forse già rassegnati e consapevoli del loro destino.
Velocemente la morticina vien trasportata via, chiusa alla bell'e meglio nelle stesse lenzuola dove ha dormito nelle ultime due settimane. É una di quelle che ha resistito di più Evelina Kumbronich, di anni 10. La sua unica colpa essere una piccola orfana zingara.
Quando si ridesta, dolorante e incapace di pensare correttamente Anneke vede due nuove facce nei letti di fianco a lei, a destra un bambino dai capelli rossi e senza alcuni denti e a sinistra un altro maschietto dalla pelle olivastra e i capelli castani. Prova a salutarli ma si accorge che è legata, sulle labbra di due infermiere che stanno conversando davanti al suo letto riesce a capire che il suo destino è segnato: è pericolosa per se stessa e gli altri. Sente che le vien da piangere ma non riesce, ha consumato tutte le sue lacrime nei giorni precedenti, una per ogni cadaverino portato via nelle lenzuola.
Alla sera ancora il brodo, sempre più chiaro, sempre più insapore. Lo rifiuta. Lo stomaco si ribella per ogni goccia di liquido, le viene da vomitare, sputa bave e brodo sul letto e vien colpita in viso per aver sporcato. "Resterai nel tuo sporco, schifosa", interpreta dalle labbra dell'infermiera Hulrike, la più severa tra quelle che girano nello stanzone..
Non ribatte, come faceva all'inizio, perché non vuole che le facciano l'iniezione. Si limita ad appoggiarsi al cuscino e a chiudere gli occhi. Vorrebbe anche lei non svegliarsi più.
É Amanda Kupfler ad accorgersi del corpicino senza vita di Anneke Heider all'inizio del suo turno, tre giorni dopo da quando la bimba aveva vomitato l’ultima razione di brodo. Il piccolo mucchietto d'ossa giace tra le lenzuola bianche ormai grigio e al principio della putrefazione. Chiama immediatamente gli addetti allo smaltimento per farla portare via. Mentre la portano via recita una breve preghiera per quell'anima infelice che ha trovato infine la pace. Così pensa la giovane infermiera, convinta della bontà del programma T4 come tutti nell’ospedale, mentre torna a dedicarsi ai piccoli ospiti affidati alle sue cure. 

1946 - testimonianza resa al secondo processo di Norimberga da Manfred Herbert Bonsenn riferendosi al caso 459034, solo un numero tra le migliaia di bambini ed adulti finiti nella rete dell’ «Action T4»


mercoledì 18 aprile 2012

My life

Della Mia infanzia ho pochi ricordi. Frasi lasciate galleggiare negli anni, che mi son giunte con echi quasi epici. Non che, secondo me, ci fosse la necessitá di tramandare tali prove di rara idiozia umana e crudeltá. Tra queste brilla, ancora fulgido esempio di quanto veramente i parenti appartengano alla stirpe degli esseri striscianti (con rispetto per loro, i rettili non i parenti) questa boutade che fu pronunciata qualche tempo dopo la mia nascita: "Ci ha messo tre anni a farla, poteva anche farla maschio". Cominciavo bene questa vita, secondo questi aguzzini incapaci!
Ai tempi ero ancora una creaturina innocente: dormivo (tanto), mangiavo...le solite cose che fanno le neonate.
Mia madre, completamente priva di istinto materno come di quasi tutta la gamma dei piú comuni sentimenti umani, si arrabattò egregiamente. Piú per l'aiuto della sua stessa madre che altro. Purtroppo per la mia genitrice il mio animuccio ribelle si manifestó quanto mai precocemente. Entro l'anno d'etá avevo già dato prova di possedere un notevole buon gusto in fatto di abbigliamento: fui trovata nella carrozzina che tentavo di strapparmi di dosso una tutina color pastello. L'esatta tonalitá non é stata fatta pervenire ai posteri. In un'altra occasione lanciai il biberon all'altro capo della cucina. La ragione del gesto non é chiara tutt'oggi: o era troppo caldo il suo contenuto, oppure mi faceva ribrezzo.
Per il resto ero bravina, non ero nemmeno una di quelle bimbette che vogliono stare in braccio, anzi l'opposto. In confidenza, non li capivo gli adulti: con le loro moine, quei sorrisi che piú falsi non potevano essere, quella mania di toccarmi. Orrore e raccapriccio.
Per inciso va spiegato che fino ai sei anni io ho avuto i capelli lunghi ed erano ricciolosi. Biondi, ma di quel biondo intenso, stile manga. In piú la genetica mi ha fornito di un paio di intensi occhi verde oro. Insomma ero una bimba piú che passabile, tanto che ci fu chi disse a Madre di portarmi a Milano per farmi fare il casting per le pubblicitá. Ovviamente la risposta fu no, che scoprii anni dopo era la sola ed unica, preferita risposta che Madre dava. Su qualunque richiesta rispondeva esclusivamente con un secco no! Spiegazioni ulteriori: non pervenute.
Altra risposta, questa riservata alle mie domande generiche era: "Non lo so". Mio padre risolveva comprandomi libri, anche quando non sapevo anche leggere. Ma nessuno me li leggeva.
Capii subito l'andazzo: ognuno nella vita può contare solo su stesso, se aspetta gli altri non combinerá mai niente.
Perchè nella casa dolce casa dove son cresciuta vigevano strane regole, riassumibili in una totale assenza di dimostrazioni affettive (baci ed abbracci erano banditi), una notevole dose di noia (io stavo a casa e giocavo sola, sembra che mi abbiano mandato all'asilo solo dopo aver scoperto che parlavo da sola. Così narrano le cronache.
Io già di mio non ero affettuosa, o meglio: ero io a deciderlo se volevo le coccole o no, piú come un gatto. E anche qui scatta l'aneddoto: quando ero ancora in fasce piú o meno, mi mettevano a fare interminabili riposini sotto il portico della villa di mio nonno. C'era allora un certo numero di mici randagi che gironzolava nell'area. In particolare una, grigio nera tigrata si metteva in fondo alla culla e mi teneva compagnia, il fatto che fossi in scala ridotta anche allora le permetteva di avere un certo spazio dove allungarsi. Pur non essendo "domestica" non mi ha mai fatto nulla di male. Mi hanno raccontato che si faceva accarezzare solo da me, appena un altro si avvicinava scappava. Quanta invidia avevo per lei!

lunedì 2 aprile 2012

ME NE ESCO

Me ne esco in silenzio/come un attore a fine rappresentazione/nel frusciare di vesti consumate e lacere/il mio sudario. 


Me ne esco in silenzio/da questa come da altre mille vite già passate/Me ne esco. 


Di me non resterà altro che un'ombra effimera, che alla prima luce dell'alba si dissolverà definitivamente

sabato 31 marzo 2012

ORDO TENEBRARUM - L'ARCANGELO NERO


1 - Un'istruttiva visita in ospedale ricca di sorprese
La camera era molto più ampia rispetto a quelle tipiche dei reparti di lungodegenza degli ospedali e tremendamente in ordine ma non impersonale. Piccoli aggiustamenti rendevano un po' del calore casalingo a quel luogo altrimenti di patimento. Un armadio a muro di legno chiaro e lucido era stato sistemato sulla destra rispetto a chi vi entrava e su un cassettone, posto di lato, erano sistemati ordinatamente dei pupazzetti di pelouche. Avevano un'aria vagamente inquietante, con i loro occhietti a bottoncino senza espressione ed immoti. Una televisione troneggiava nell'angolo destro e di fronte era stata posta una poltrona, sulla quale in quel momento un'anziana infermiera riposava: le mani raccolte in grembo e un sorriso appena accennato sul volto. 
Al centro della stanza campeggiava il letto, non uno di quei lettuccio da ospedale e nemmeno uno qualunque ma un futon, basso e ampio (doveva essere matrimoniale, se non addirittura più grande). Era ben rifatto e la persona che vi giaceva quasi vi scompariva. Era una ragazza, capelli rossi, lunghi e ben pettinati, che si spargevano sui cuscini intorno alla pelle diafana del viso, solo sul naso si intravedevano spruzzate di lentiggini. Le labbra erano piuttosto sottili e di un naturale rosa. Aveva le palpebre abbassate, immobili. Il petto si sollevava appena, nel lento e regolare respiro di una persona che dorme tranquillamente. Lo sguardo dello spettatore, scendendo, avrebbe potuto notare la parte superiore della casacca di un pigiama spuntare da sotto le coltri, composte di una coperta viola e lenzuola nere. 
Quella che ad un primo sguardo appariva come una scena di assoluta tranquillità virava all'inquietante, rimandando ad immagini di tremenda crudeltà e barbarie, quando si notava che i polsi della ragazza addormentata erano strettamente legate ai bordi del letto, presi in prestito sicuramente da uno di quelli dell'ospedale. La costrizione avrebbe impedito alla fanciulla un qualunque movimento, non appena si fosse destata, impedendo così di strappare l'ago che aveva nel braccio e che la collegava alla sacca di soluzione salina e che probabilmente aveva anche una sua qualche utilità. 
In quel preciso momento all'uomo dai capelli neri, che stava all'entrata della stanza, non sembrava che la posizione creasse qualche problema alla ragazza ma di certo non doveva essere delle più comode, comunque.
Sembrava molto giovane, sebbene gli avessero riferito che si trovava in quel luogo da parecchi anni, da quando non era che una bambina. La risposta non l'aveva stupito più di tanto, un vano e bieco tentativo di nasconderla. Come se fosse possibile, nasconderla. Un sorriso cattivo si allargò sul suo viso, quindi si voltò e percorse il corridoio, doveva solo sapere, avere un quadro più preciso possibile della situazione. Poi avrebbe potuto agire senza correre il rischio di non riuscire nel suo obiettivo.
Il misterioso sconosciuto, eludendo le domande sulla sua relazione o parentela con quella particolare paziente, era riuscito ad interpellare i medici e le infermiere che si occupavano di le che cosa di preciso avesse. Gli interpellati avevano risposto che non si sapeva esattamente quale fosse la sua patologia, dato che secondo gli esami cui era stata sottoposta in quegli anni era risultato solo che godeva di ottima salute. 
«I suoi esami clinici sono tra i migliori che abbia mai visto - aveva commentato un interno, un po' più gentile degli altri -.
La seguo da un paio d'anni ma non si riesce a capire che cosa abbia. La sua famiglia vuole solo che sia tenuta qui, legata e sedata per la maggior parte del tempo. Dicono che è una precauzione, per cosa non si sa. Non si son mai voluti sbilanciare. In un'occasione, comunque, mi è capitato di assistere ad un suo improvviso risveglio e devo ammettere che non è per nulla un tipo tranquillo, Lylyth. I suoi modi di fare sono quelli di una erinne: urla, insulti, atti violenti verso gli infermieri e noi medici e altri comportamenti disdicevoli».
Una dottoressa dall'aspetto tutt'altro che materno aveva chiosato: «Noi ci occupiamo di lei, la la sua famiglia è ricca e l'avvocato ci paga la retta tutte le settimane, sborsa non so quanti quattrini per pagare la bella addormentata di là, che dovrebbe occuparsi di lei e invece non fa altro che guardare la tv e dormire. Quindi noi non facciamo domande e ci premuriamo solo che tutto ciò che questi richiedono sia eseguito secondo le loro direttive». E se ne era andata senza aggiungere altro.
«Lylyth - aveva detto un'infermiera dalla pelle olivastra - è solo una povera vittima: la tengono sedata, ogni tanto la portano fuori ma sempre e solo sotto farmaci, appena accenna a svegliarsi la imbottiscono di nuovo. É sana e sta bene, ma a casa sua nessuno la vuole e una perizia di un qualche dottorone dice che è pericolosa per sé e che deve stare qui, in quelle condizioni». Nel pronunciare l'ultima frase aveva abbassato la voce e, dopo essersi fatta un veloce segno della croce, era corsa via. Hank aveva distolto lo sguardo di fronte a quel gesto e storto il viso in un'espressione di orrore e disgusto.
Il ragazzo non era rimasto stupito da quanto aveva saputo e in parte era stata solo una conferma ai suoi sospetti. Senza aggiunger altro era ritornato alla camera dove Lylyth Medwer "riposava". Aprì la porta, chiedendosi chi l'avesse chiusa dato che ben si ricordava di averla lasciata aperta, e si appoggiò allo stipite osservandola: una condizione non certamente facile da gestire, ma non impossibile. Ad avere i mezzi giusti. Sorrise di nuovo, non sarebbe stato troppo complicato, avvalendosi delle sue conoscenze e di quello che poteva fare, raggiungere il suo scopo: liberare Lylyth Medwer da quella prigione. Restò ad osservarla, da dietro le lenti scure, per parecchio tempo poi si riscosse e se ne andò, confondendosi nell'andirivieni di medici, pazienti e visitatori. «É stata una visita molto istruttiva - pensò mentre usciva dall'ospedale e si dirigeva alla sua moto, lasciandosi poi alle spalle il nosocomio - e anche molto utile».
Il primo obiettivo che Hank si era posto, dopo esser riuscito a venire a conoscenza di dove Lylyth fosse stata rinchiusa ed averla visitata, era recuperare il suo amico Bryth, sostegno ideale per quella missione, poi insieme avrebbero pensato ad un buon piano, in fretta perché il tempo scarseggiava, per portare via la ragazza e far perdere le loro tracce. 
Circa un'ora dopo che lo sconosciuto se ne era andato, Lylyth si mosse nel letto, destandosi dal suo sonno indotto. Su una mensolina era poggiata una siringa contenente la dose di uno strano intruglio di sonniferi e altri farmaci che doveva esserle somministrata ogni sette ore, in modo da tenerla sempre incosciente. L'orologio dell'infermiera trillò più volte, ma quella non si mosse, il viso rilassato in una calma più profonda di quella di un pisolino pomeridiano.
Boccheggiò spalancando gli occhi, di un verdeoro intenso. L'espressione non era per nulla amichevole. Lylyth cominciò a mugugnare rumorosamente, tentando di liberarsi dalle cinghie. Faticosamente mosse le braccia, l'inattività di tutti quegli anni aveva svigorito i suoi muscoli ed anche il più piccolo movimento le provocava lancinanti dolori, che le si propagavano per tutto il corpo. Provò ad urlare ma anche quell'operazione non le riuscì: le sue corde vocali erano anni che non venivano usate. Si lasciò cadere all'indietro conscia di essere impossibilitata a muoversi e a chiamare aiuto. Si ordinò di calmarsi, sperando che qualcuno venisse presto a controllarla e impiegò il tempo per cercare di comprendere dove si trovasse. Si sentiva stranamente inquieta, vedendo la donna nell'uniforme bianca riposare nella poltrona. Sembrava morta. Si girò a sinistra e con attenzione sollevò il polso magro, uno spesso legaccio di cuoio lo stringeva ed era inserito nel muro, non poteva muoversi.
«Perché era legata?», si chiese. «Era pericolosa? Non le sembrava di ricordare di aver mai fatto male a qualcuno. Ma non è che avesse chissà quanti ricordi del suo passato».
Si sentiva stranita e stanca, ma non aveva sonno, anzi. Sentiva una strana energia pervaderla. Provò nuovamente a parlare ma senza successo, digrignò i denti con rabbia e scalciò ancora, incurante del dolore sordo dei suoi muscoli, poi provò nuovamente a urlare e dopo non pochi sforzi riuscì ad emettere un suono strozzato. Non proprio un urlo, quanto più un guaito ma forte quel tanto da arrivare all'orecchio di un'infermiera pronta a lasciare il turno. Fu abbastanza per dare l'allarme ai medici che venivano profumatamente pagati per occuparsi di lei.
In pochi minuti un nugolo di persone fu al suo capezzale, con strani oggetti e cominciarono ad occuparsi di lei. Senza però parlarle o rivolgersi a lei direttamente.
Fu una donna in camice bianco e dall'espressione severa ad accorgersi dell'infermiera nella poltrona ordinando ad un'altra, che indossava un paio di pantaloni di un orrendo rosino pallido, di controllarla. La donna le si fece vicino, la toccò in alcuni punti quindi corse fuori a cercare qualcuno per portar via il corpo ormai senza vita della povera infermiera.
Un giovane di bell'aspetto le si accovacciò vicino e le sorrise, tastandole il polso e parlottando poi con la tizia in camice bianco che prese la siringa dalla mensolina e fece per inserire l'ago nel tubicino che collegava una sacca, che conteneva un liquido trasparente al suo braccio: il suo nutrimento.
Lylyth, in preda al panico, tirò un calcio colpendo il medico e facendole cadere la siringa, che si ruppe. «Muovit!», urlò all'interno, «Vai a prenderne un'altra, alla farmacia, dovrebbero averne di pronte...per le emergenze. Muoviti! Dobbiamo sedarla immediatamente, sai quali sono gli ordini».
Quello scattò, cercando di capire cosa poteva essere capitato: sembrava che il destino si stesse divertendo a sovvertire una situazione che andava avanti identica da quasi venticinque anni.
Ci vollero pochi minuti perché il dottorino raggiungesse la farmacia e ancor meno per tornare indietro con una terribile notizia: «Quella era l'ultima. Fino a domani mattina non ce ne saranno di pronte». Entrambi sbiancarono mentre Lylyth continuava a muoversi ossessivamente cercando di liberarsi lamentandosi.
«Tienila ferma mentre io vado a cercare qualcosa con cui metterla fuori combattimento sino a domani mattina», disse la dottoressa uscendo dalla stanza e dirigendosi verso la farmacia. Un normale sonnifero non sarebbe bastato perché il suo corpo era abituato ad uno strano cocktail di medicinali, preparato apposta per lei dal medico di famiglia. Non sapeva nemmeno a quali medicine poteva essere allergica: un problema nuovo.
Il sole era intanto calato e per Hank e Bryth entrare nell'ospedale senza dare nell'occhio fu molto più semplice di quanto avessero immaginato. All'imbocco del corridoio si divisero: Bryth proseguì dritto per andare a recuperare una sedia a rotelle mentre Hank fece per entrare nella stanza di Lylyth, ma si fermò poco prima di varcare la soglia sentendo la voce dell'interno parlarle. Si era svegliata quindi, si concesse un sorriso soddisfatto. Il fato giocava dalla sua, per una volta.
Attese un paio di minuti sperando che se ne andasse ma quando si rese conto che non ne aveva alcuna intenzione, decise di intervenire: non appena vide Bryth tornare verso di lui entrò nella camera e colpì al collo il medico. L'uomo si accasciò sul letto mentre Lylyth continuava a gorgogliare cercando di parlare e strattonando le braccia per liberarsi.
Hank le sorrise e le fece cenno di calmarsi e di fare silenzio, quindi si inginocchiò e slegò le cinghie, quindi la prese in braccio e la portò da Bryth, la depose sulla carrozzina e prese poi la coperta drappeggiandogliela intorno al corpo. Si chinò su di lei e le sussurrò: «Chiudi gli occhi come se stessi dormendo. Ti portiamo fuori di qui».
Lylyth ubbidì, pur essendo terrorizzata dalla situazione preferiva quei due ai medici che le erano stati intorno in quegli ultimi pochi minuti.
Velocemente Hank e Bryth spinsero la sedia a rotelle e il loro prezioso carico fuori dalla struttura, nel parcheggio e Hank la prese nuovamente in braccio e la depose sul sedile posteriore. «Andiamo Bryth, prima che si accorgano di cosa è successo”, disse Hank sedendosi al posto del navigatore.
La macchina nera scivolò fuori dal parcheggio e scomparì nella notte, mentre la scomparsa di Lylyth veniva scoperta e veniva mobilitata la polizia e la famiglia veniva avvertita.

giovedì 15 marzo 2012

SOLSTIZIO DI UN'ANIMA


Che silenzio, alle prime luci dell'alba, quando il mondo ancora non si è risvegliato dal sonno


Tutto tace, in quelle poche manciate di ultimi istanti, quando il cielo si scolora

E in questa serafica calma Io ancora mi aggiro, insonne, in preda ai miei demoni, che da sempre mi tengon compagnia


Quel giaciglio non reca requie al mio riposo. Il corpo rotto da 

spasmi, la mente in tenaglie di tremendi pensieri tenuta in catene
E in questa nuova visione di sole emerge, da dietro quelle cime di tenebra, sogno ad occhi aperti.

sabato 3 marzo 2012

Lost in Wonderland

Pettino bambole immaginare/ Come la bimba che fui/ Osservo distaccata il tempo che trascorre/ Persa in pensieri e illusioni di te.

In una girandola di stranezze/ poi come Alice mi sono smarrita/ Persa nel mio personale wonderland/ Cerco la strada per tornare/ Indietro.

Inseguo la tua ombra/ Silenziosamente io stessa/ Forse sei solo anche tu/ Mia fantasia e non realtà.

martedì 31 gennaio 2012

MY MUSIC CORNER - 00 - WHAT IF (Emilie Autumn)

This is one of my favorite songs ...



EMILIE AUTUMN - WHAT IF


Here you sit on your high-backed chair/wonder how the view is from there
I wouldn't know 'cause I like to sit/upon the floor, yeah upon the floor
If you like we could play a game/let's pretend that we are the same
But you will have to look much closer/than you do, closer than you do
And I'm far too tired to stay here anymore/and I don't care what you think anyway
'Cause I think you were wrong about me/yeah what if you were, what if you were
And what if I'm a snowstomr burning/what if I'm a world unturning
What if I'm an ocean, far to shallow, much too deep/what if I'm the kindest demon
Something you may not believe in/what if I'm siren singing gentleman to sleep
I know you've got it figure out/tell me what I am all about
And I just might learn a thing or two
Hundred about you, maybe about you
I'm the end of your telescope/I don't change just to suit your vision
ìCause I am bound bu a fraying rope/around my hands, tien around my hands
And you close your eyes when I say I'm breaking free/and put your hands over both your ears
Because you cannot stand to believe I'm not
The perfect girl you thought/well wha have I got to lose
And what if I'm a weeping willow/laughing tears upon my pillo
What if I'm a socialite who whants to be alone/What if I'm toothless leopard
What if I'm a sheepless shepherd/What if I'm an angel without wings to take me home
You don't know me
Never will, never wil/I'm outside your picture fram
And the glass is breaking now/you can't see me
Never will, never will
If you've never gonna see
What if I'm a crowded desert/too much pain with a little pleasure
What if I'm the nicest place you never want to go/what if I don't know who I am
Will that keep us both from trying/to find out and when you have
Be sure to let me know
What if I'm a snowstorm burning/what if I'm a world unturning
What if I'm an ocean, far too shallow, much too deep/what if I'm the kindest demon
Something you may not believe in
What if I'm a siren singing gentlemen to sleep
Sleep
Sleep


Una canzone che in molti aspetti mi rappresenta molto...


Hpe you like it

sabato 28 gennaio 2012

ARE YOU A DREAM OR A NEW HOPE?

Are you a dream? or are you a new hope?
I do not know
I am not sure
I am here to live this
Past is past, it'll never come back. I do not want it come back.
Sorrow no more, happiness just behind that corner
Are you a dream? or a new hope?
I do not know the answer, just do not want to wake up now...

lunedì 23 gennaio 2012

DI NOTTE

Di notte non ho mai paura/non son spaventata/inquieta/di quella sana inquietudine che ti porta a cercare/curiosando nel mondo e nella storia/ perdendoti in nuove conoscenze e scoprendo qualche pezzettino in più di te/Di notte/brillano gli occhi di oro liquido/di vivacità e spensieratezza/come se il sole non mandasse via la luna e le stelle continuassero a far da lumicino a me, viandante della vita e della fortuna/forsennata e disperata/alla ricerca di un segreto non ancora rivelato/per stupirmi prima di addormentarmi nuovamente tra le tue braccia/