sabato 20 ottobre 2012

THE HALLOWEEN QUEEN



HALLOWEEN QUEEN

C'era molta emozione, soprattutto tra i ragazzi, per l'approssimarsi della notte di Halloween. Sui patii delle case erano state sistemate zucche intagliate nelle più svariate espressioni di Jack Lantern. I bambini cominciavano ad indossare i loro costumi per il consueto giro bussando alle case dei vicini per raccogliere dolcetti e regalini.
Nelle vie si potevano già vedere gruppetti di piccoli maghi, principesse dai vaporosi vestiti rosae poi fate, elfi e altre misteriose creature dai mantelli neri.
Non solo i bimbi si divertivano in quella strana notte ma anche i più grandi si stavano preparando per trascorrerla in modo divertente. I più fortunati, travestiti dai mostri classici della tradizione, si apprestavano a presentarsi a casa di Hannaleen Metcalf, considerata senza possibilità di smentita la ragazza più invidiata della città dato che suo padre era il più ricco nella zona ed era anche considerato un uomo del quale era meglio non mettere in discussione le opinioni, per la consueta festa all'insegna della paura.
Le festa di Halloween a casa di Hannaleen potevano essere considerate eventi esclusivi ed essere tra gli invitati significava contare qualcosa nella ristretta comunità.
Gli esclusi potevano ripiegare sulla festa organizzata nella palestra della scuola, cercando di immaginare come sarebbe stato essere ammessi nelle sale di casa Metcalf, decorata per l'occasione con scheletri e altre amenità paurose.
Nonostante Halloween fosse da anni spacciata per una festa all'insegna del terrore e della paura, in giro si vedeva solo gente che si divertiva. Perfino le abitazioni, illuminate e addobbate, sembravano partecipare all'allegria generale invitando chi si aggirava per le strade a suonare il campanello chiedendo dolciumi.
Nulla dell'antico sabbath Samhain era rimasto vivido in quella specie di farsa, forse solo una rivisitazione dela consuetudine di indossare mascheramenti per sfuggire alle anime decedute nei dodici mesi precedenti, che durante il percorso di Selene tornavano a passeggiare sulla terra in cerca di un nuovo corpo del quale prender possesso.
A non partecipare alla bolgia di divertimento generale solamente la casa all'angolo, all'inizio del sobborgo. L'unica luce, fioca, proveniva dalla cucina dando l'impressione che l'abitazione fosse vuota e desolata. La famiglia era riunita per la cena, in un silenzio imbarazzante come sempre: a capotavola era seduto un anziano e di fianco a lui, una di fronte all'altra, due donne di mezza età. Di fronte aveva preso posto una ragazzina di non più di diciassette anni, che dava l'idea di essere al mondo per errore. Sedeva silenziosa, portando meccanicamente il cibo alla bocca, senza guardare in faccia nessuno degli altri. I capelli tanto biondi da sembrare bianchi, scendevano a coprirle il viso. Teneva gli occhi bassi e il suo respiro era impercettibile, sembrava desiderare non essere in quel luogo in quel momento. 
Improvvisamente il vecchio batté la mano sul tavolo e urlò alla ragazza, «Tirati indietro quei capelli maledetta piccola bastarda. Non riesco a vederti gli occhi! E guardami quando ti parlo! Maledetta figlia di una madre nubile. Lo sai che voglio che a cena ci si presenti in un certo modo, non conciata come una donnaccia di strada, come tua madre».
Senza rispondere Lucina prese l'elastico e legò i capelli poi guardò il nonno, che tiranneggiava lei, sua madre e sua zia da che poteva ricordarselo insultando in particolare la loro scarsa virtù. Non aveva mai capito il perché, cioè almeno per quel che concerneva lei e sua zia. Sua madre viveva con la colpa di averla messa al mondo senza essere sposata o per lo meno vedova. Colpa peggiore anche il non aver mai voluto rivelare chi fosse suo padre e accettare un matrimonio riparatore. E di questo la ringraziava ogni giorno, sopportando senza fiatare insulti e cattiverie - che le avevano regalato un'esistenza solitaria e il disprezzo di tutti nel borgo dove si era trovata a vivere - ma il nonno cominciava ad esagerare. 
Alzò lo sguardo e lo fissò, per la prima volta ubbidiva a quell'ordine. Il vecchio ricominciò ad inveire contro di lei, sulla sua scarsa educazione, sulle sue pessime maniere mentre le due figlie cercavano, invano, di calmarlo. «Taci», urlò ad un certo punto Lucina alzandosi in piedi. La sedia finì per terra con un rumore di ferraglia. «Zitto e non permetterti più di offendere nessuna di noi tre. Non abbiamo mai fatto nulla di male né a te né a nessun altro. Smettila. Smettila. Smettila». 
Il vecchio restò interdetto per la reazione della nipote, che tiranneggiava al pari delle due figlie trattandola come se fosse una schiava e rivolgendosi a lei nello stesso modo in cui per anni aveva osservato suo padre agire nei confronti di sua madre e come lui stesso aveva fatto, per decenni, con sua moglie. Finché lei si era impiccata per la disperazione e lui si era sfogato sulle figlie e poi anche sulla nipote.
«Basta con queste idiozie che ripeti ogni sera, ogni giorno, sempre. Basta...». Lucina abbandonò la cucina, prese il cappotto e uscì, prima che sua madre potesse fermarla. Cominciava ad essere tardi e in giro si vedevano solamente gli ultimi ritardatari alle varie feste. Lanciò uno sguardo distratto alla gente in costume, chiedendosi che effetto facesse, mascherarsi, andare ad una festa con altre persone che non ti insultavano o minacciavano di picchiarti. 
Come i compleanni, Lucina non aveva mai festaggiato Halloween. In casa era permesso celebrare solo le feste comandate e in modo molto sobrio, quasi dimesso. Sbuffò. «Vecchio maledetto bisbetico noioso prevaricatore», mormorò mentre si lasciava alle spalle la sua casa buia. Mise le mani in tasca e tirò il cappuccio del cappotto nero cercando di mimetizzarsi.
Passeggiò lungo la via dove aveva sempre vissuto fin da quando sua madre era tornata a casa per offrirle un futuro migliore, poi non si era rivelata una buona idea ma non si era mai sentita di dirlo a sua madre e faceva sempre di tutto per essere brava in modo da non creare ulteriori preoccupazioni in casa.
Rifletté sulla possibilità di andarsene, lasciare scuola, sobborgo e famiglia cercando fortuna altrove. Lucina era così presa dai suoi pensieri da non rendersi conto di aver girato per il lato sinistro del parco.
La zona era diventata tristemente nota come ritrovo di tossici e spacciatori, prostitute e altra umanità allontanata dalle brave persone della comunità. In molti mormoravano che lei stessa sarebbe finita in mezzo a quella gente, prima o dopo. Forse a drogarsi, forse a vendersi, forse a vendere droga ai loro bravi e puliti rampolli.
In quella particolare sera nessuno aveva trovato rifugio nei cespugli per un po' di amore clandestino o per lo scambio di soldi per una dose di paradiso artificiale. 
Mentre attraversava il sentiero in terra battuta Lucina pensava a come sarebbe stato bello avere amici, persone con cui confidarsi. Si immaginò quanto sarebbe stato divertente organizzare uscite e pomeriggi insieme, invece che stare sempre da sola, cercando di non essere vista, sperando di diventare invisibile.
Si fermò e alzò gli occhi al cielo, riuscendo ad intravedere la volta tra i rami degli alberi, pensando a quanto era bello il cielo.
Non si avvide, quindi, delle vivide fiammelle che da qualche metro si erano messe a seguirla silenziosamente. Se fosse stata un po' più attenta le avrebbe notate e sarebbe scappata. Quando si ritrovò circondata non riuscì nemmeno ad urlare e poté solo mormorare «Chi-chi siete?», mentre quelle si trasformavano in fluttuanti creature nere e si avventavano su di lei. Se anche ci fu una risposta, Lucina non riuscì ad udirla. Una di esse l'avvolse nel suo sudario nero pece. Nebbia bianca di levò dal manto e penetrò nella pelle della ragazza, che cadde riversa a terra, gli occhi sbarrati e le labbra spalancate in un grido muto. 
Non trascorse nemmeno mezz'ora che la ragazza cominciò ad ansimare, tossire e tenersi la pancia con le braccia. Lentamente riprese il controllo e si mise seduta, tirandosi indietro il cappuccio del cappotto e tirando un lungo respiro. «Finalmente! Finalmente! Il mio tormento è giunto al termine. Finalmente!». Rise sonoramente, la voce era diversa, tanto cristallina da risultare quasi tagliente. 
Sospirò di nuovo mentre si osservava le mani pallide e si tastava il volto, con espressione estatica. .
Si alzò in piedi spolverandosi il cappotto e i pantaloni, considerandolo uno abbigliamento ben strano per una fanciulla. «Bene, bene...Harmonia Breendley è tornata...e ora i responsabili potranno avere la loro punizione...Non avrei mai creduto di riuscire nel mio intento», sorrise al cielo di nuovo e tornò indietro ritrovandosi sulla via principale in pochi minuti. La sua testa vorticava di immagini e pensieri della povera ragazza di cui aveva preso il corpo, i ricordi di lei si sommavano ai suoi...Harmonia, una delle tante streghe che erano state condannate nei tempi bui dell'età moderna, decise che oltre che dei discendenti di chi l'aveva mandata a morire si sarebbe presa vendetta di chi si era divertito alle spalle dell'ex proprietaria del suo nuovo corpo. Meritavano tutti una lezione.
Si guardò intorno, come era cambiato quel posto dall'ultima volta che ci era stata. Sorrise mentre si accodava ai numerosi ragazzi e ragazze che, con indosso abiti delle più strane fogge, si stavano recando alla festa di Hannaleen. All'improvviso uno, da dietro, le diede uno spintone, facendola barcollare. «Ma chi abbiamo qui? Quella piccola bastarda di Lucina...dove credi di andare pantegana? Forse vuoi intrufolarti alla festa di Hannaleen come le persone che valgono, escrescenza schifosa? Ahahahah!! Vattene, prima che ti dia la lezione che ti meriti», disse una voce maschile con un'intonazione cattiva.
Con una piroetta la ragazza dai capelli così biondi da sembrare bianchi si voltò e lo guardò con espressione malvagia. «COme vi siete rivolto a me, screanzato mortale?», si mise le mani sui fianchi e gli occhi ben fissi in quelli del ragazzo, vestito da soldato e accompagnato da altri tre, con indosso altrettante divise mimetiche. «Che cosa? Allora hanno ragione quando dicono che sei stupida, oltre che cessa. Tornatene nella tua fogna, piccola schifosa lurida. Questo non è posto per te», le rispose facendole per dare un altro spintone, ma lei si scostò e quello ruzzolò a terra. «Aahahhaah!!! Idiota di un uomo! Mai mancare di rispetto ad una dama, soprattutto se quella dama sono io» e se ne andò senza voltarsi indietro. Gli amici del ragazzo, che aveva apostrofato in quel modo Lucina, si misero a ridere sguaiatamente. Eddie Frey si tirò in piedi e disse «Avanti! Muoviamoci, dobbiamo prendere quella schifosa prima che arrivi da Hannaleen...deve imparare a stare insieme alla feccia, cui appartiene. Questa sera non avrà scampo.»• Il gruppetto si lanciò all'inseguimento dirigendosi alla villa di Hannaleen.
Intanto Lucina proseguiva seguendo le persone mascherate, senza parlare con nessuno ed evitando il contatto fisico. A metà strada si fermò davanti ad una vetrina debolmente illuminata e si osservò. Non era niente male davvero, certo con qualche aggiustatina, pensò e sorrise. Si lisciò la chioma e sorrise di nuovo: aveva bisogno decisamente di un cambio di abbigliamento e anche di un po' di belletto. Si guardò intorno poi notò che all'interno c'era una persona e le fece dei segni, mimando la richiesta di entrare finché una donna anziana le aprì e Lucina si infilò dentro. 
«Grazie signora...ho bisogno del suo aiuto...ho bisogno di un vestito...scarpe...belletto...un mantello», disse mentre passava tra gli appendiabiti, osservando e accarezzando i vestiti. «Ha qualcosa di aderente in velluto? Nero, sarebbe perfetto», fissò la vecchia e mosse le labbra pronunciando qualche parola in una strana lingua. Quella si mosse, come se fosse stata comandata da una forza esterna, e in pochi minuti recuperò ciò che la ragazza aveva richiesto. Nel mentre lei aveva tirato le tende e si era spogliata, restando solo con la biancheria intima. Si osservò allo specchio, sempre più soddisfatta della sua scelta. Si provò un paio di abiti portatele dalla vecchia, senza esserne soddisfatta poi lo vide: lucente velluto nero, con lunghe maniche e un delizioso corsetto stringivita. Lo indossò. «Perfetto!», sospirò...da un mobiletto prese un paio di stivaletti in morbida nappa, le calze che aveva indosso erano un po' spesse ma avrebbe dovuto accontentarsi, per quella sera. «Bellissimi», disse procedendo ad infilarli. Trovò poi alcuni trucchi da teatro su un si truccò, scovando nel retrobottega un grosso specchio, pur mostrando qualche perplessità su ombretti, rossetti e altri oggetti che definì "diavolerie". «Molto meglio, il mio oscuro signore sarebbe così fiero di me», disse Harmonia sbattendo le ciglia intensificate con mascara, socchiudendo gli occhi resi ancor più profondi da ombretto nero e mandando un bacio alla sua immagine riflessa nello specchio con le labbra dipinte del colore del sangue.
«E ora vediamo di divertirci un po'», commentò tra sé e sé uscendo dal negozio, dopo essersi portata via anche una pochette nera e un cappotto di velluto, scovato in mezzo ai saldi.
Non appena si ritrovò in strada notò un gruppo di ragazzi vestiti come i marinai delle navi che spesso attraccavano nel vicino porto della cittadina dove era nata. «Guardate...è Lucina!», disse uno di loro indicandola. «Ma come si è vestita?», gli fece eco un altro ridacchiando ma fermandosi ad osservarla. Lucina gli sorrise e gli mandò un bacio, avvicinandosi.
«Buonasera esimi gentiluomini - esordì, tutti si accorsero che la sua voce era differente da come se la ricordavano - forse potreste indicarmi la via per raggiungere la casa di questa Hannaleen. Ho sentito che è in corso un ricevimento e ho decisamente voglia di un po' divertimento vecchio stile. Non mi faccio una bella risata da più di quattrocento anni e questa è la serata ideale per divertirsi».
Quelli si misero a ridere, «Se Hannaleen ti vede alla sua festa di Halloween penso che potrebbe arrivare ad ucciderti - disse quello con il cappello dalla piuma nera assumendo un'espressione seria-. Lo sai che non ti può sopportare». Harmonia, che a tutti appariva come Lucina, che non aveva mai avuto vita facile per via dell'essere la figlia di una madre nubile, per non esser mai stata alla moda, per avere gusti che non erano condivisi. Tutte cose che per la rinata strega invece rendevano la ragazza speciale. 
Harmonia rise, «Ci deve solo provare, quella sciocca. Questa notte è il mio momento di rivalsa su questo mondo e ho intenzione di godermela fino in fondo. E potete chiamarmi Harmonia, gentile messere...e troverei delizioso se foste così gentile da accompagnarmi, non son sicura della strada. Inoltre non vorrete lasciarmi da sola a fronteggiare quei violenti con indosso tute a chiazze». Il ragazzo guardò gli altri, quella nuova personalità di Lucina non gli dispiaceva affatto, inoltre non aveva mai sopportato Eddie ed i suoi amici. «Va bene, ti accompagneremo e Eddie non ti farà alcun danno...su Hannaleen non posso giurarci. Ti odia per davvero». Si incamminarono, la loro meta era a meno di dieci di minuti.
Intanto Eddie e gli altri erano arrivati a casa di Hannaleen e le avevano detto che Lucina aveva tutta l'intenzione di presentarsi. La reginetta della scuola ebbe un moto di rabbia e, raccogliendo le gonne del suo costume da dama, si fece largo tra gli invitati fino a raggiungere l'ingresso. «Quella schifosa dovrà vedersela con me. Partecipare alla mia prestigiosa festa, ma chi si crede di essere? Mischiarsi con noi».
Hannaleen accolse alcuni invitati ritardatari poi si mise di fronte alla porta, dietro di lei si sistemarono Eddie e gli altri, in attesa che Lucina si mostrasse.
Non trascorsero più di cinque minuti che Harmonia, insieme ai suoi nuovi amici, fece la sua apparizione. Hannaleen restò a fissarla, non solo osava presentarsi a casa sua ma aveva anche l'ardire di farlo insieme a Kayran. «Eccoci arrivati. Resta vicino a noi», le disse Kayran indicandole Hannaleen e gli altri.
Senza dargli retta Harmonia si staccò dal gruppetto e con un gesto della mano fece aprire il cancello, soddisfatta nel scoprire che la sua magia aveva conservato tutto il suo incredibile potere. Lesse la targa e quasi sobbalzò, incredula di fronte a tanta fortuna: quella con cui avrebbe dovuto confrontarsi era niente meno che la discendente del giudice Metcalf, che l'aveva mandata alla forca con l'accusa di essere una seguace delle forze oscure, dell'antica religione...Harmonia non riuscì a trattenere una risata di trionfo.
Avanzò sicura di sé, sentendosi gli occhi non solo di Kayran ma anche di Hannaleen, di Eddie e di molti sconosciuti.
«Non hai veramente ritegno», urlò Hannaleen man mano che la ragazza che aveva l'aspetto di Lucina si avvicinava, un sorriso di scherno dipinto sul volto truccato. «Non credere che ti lascerò insozzare la mia bella casa con la tua schifosa presenza, lurida figlia di una donnaccia...sei esattamente come tua madre. tutta la tua schifosa famiglia...».
Harmonia arrivò davanti a lei, superandola di un buon cinque centimetri. Allungò una mano e senza nemmeno toccarla la fece finire addosso a Eddie e agli altri. «Zitta, non sai nemmeno di cosa stai parlando, povera sciocca. Non hai idea di chi io sia».
Harmonia si volse, i capelli mossi da un vento impercettibile, lo sguardo acceso di fiamma e la pelle splendente. «Io sono la Regina di questa notte, io sono la Gran Sacerdotessa di Samhain...o come lo chiami tu e i tuoi seguaci Halloween...Io sono colei che regna incontrastata in questa notte!». Rise la strega ragazzina alzando le mani al cielo e facendone sprigionare lampi azzurrini, ridendo allo scatenarsi della tempesta. Si rivolse di nuovo a Hannaleen, avvicinando il viso a quello paonazzo della ragazza. «Parli insultando chi non vi ha fatto nulla, odiate qualcuno solo perché diverso da voi. Sei identica al tuo antenato, quello stolto superficiale del giudice Harvey Metcalf ma ora sono tornata e avrai la lezione che meriti».
Harmonia fece un paio di passi indietro e allungò la mano destra verso Hannaleen, lentamente quella fu sollevata in aria. Qualcuno urlò, i più non riuscivano a spiccicar parola per lo stupore.
Harmonia fece vorticare per alcuni minuti la povera Hannaleen, mentre la pettinatura si disfaceva, il trucco colava e il vestito veniva trasformato in un mucchio di stracci. Poi la rimise in terra. «Eccoti servita, questo è l'abbigliamento che ti si addice...sporco quanto lo è la tua anima». Hannaleen scoppiò in lacrime. «Tu, tu...Lucina l'ho sempre detto che tu sei cattiva, malata...feccia. Meriti di essere odiata. Invidiosa lurida schifosa».
A quelle parole si alzò un forte vento e Harmonia concentrò la sua rabbia, repressa da quattrocento anni contro la ragazza. Nuovamente Harmonia pronunciò parole incomprensibili e Hannaleen si ritrovò scaraventata nuovamente addosso ad Eddie. Quello, imitato da altri, si ritrasse schifato. Hannaleen ora indossava abiti del tutto simili a quelli che Harmonia conosceva da i ricordi di Lucina e aveva lo stesso aspetto trasandato e non alla moda. «Ora tu sei esattamente identica a chi tanto hai in odio. Ti avevo detto che con me non si deve scherzare. Non provo pietà e tanto meno simpatia per le persone grette, egoiste e superficiali. Stai zitta se non vuoi che ti faccia spuntare anche due orecchie a sventola o ti faccia cadere i capelli...hahahah».
Eddie, che solo per il fatto di essere il cugino di Hannaleen si sentiva in obbligo di fare qualcosa, si lanciò verso Harmonia ma fu intercettato da Kayran, che lo spedì a terra con un pugno
Harmonia la superò ed entrò, venendo accolta da uno scroscio di applausi e qualcuno le si avvicinò congratulandosi con lei per i suoi "trucchetti".
Kayran la raggiunse. «Complimenti. Hai veramente messo a posto Hannaleen. Veramente sei la Regina di Halloween». Tutti i presenti ripeterono quel titolo come una cantilena
Harmonia si godette il momento fino a che intravide il chiarore dalla finestra. «Devo andare» disse correndo via, pur a malincuore ma il suo signore oscuro era stato chiaro: aveva solo quella notte per mettere a posto il suo conto in sospeso con i Metcalf. La sua missione era compiuta.
Era senza fiato quando si ritrovò nella radura dove si era impossessata del corpo di Lucina, sorrise quando i fuochi fatui apparvero trasformandosi negli spiriti passati. Fu avvolta dai lunghi sudari neri e si sentì tornare eterea, abbandonare il corpo per tornare nell'oscurità. Poi fu solo buio e silenzio.
Era mattina inoltrata, il sole tiepido riscaldava appena l'aria quando Lucina si ridestò, di fronte a lei stava Kayran. «Tutto bene?», le disse porgendole la mano. Lei l'afferrò guardandolo confusa. «Ti ho cercato tutta mattina, da quando all'alba sei scappata. Non si parla d'altro che della lezione che hai dato ad Hannaleen durante la sua festa».
«Lezione? Che lezione?», soffiò Lucina senza capire. Si guardò chiedendosi perché mai indossasse quel vestito, quelle scarpe preoccupata di dove potessero essere i suoi soliti abiti e di cosa avrebbe detto il nonno quando sarebbe tornata a casa dopo la scenata che gli aveva fatto. Mentre faceva quel pensiero gliene spuntò un altro, in fondo non aveva fatto niente di così terribile, niente di così irreparabile. Sorrise senza accorgersene, sentendosi bene, sentendo la vita fluire in lei.
«Prima di te nessuno aveva mai avuto il coraggio di affrontare Hannaleen. Ti sei comportata da autentica Regina di Halloween, Lucina».
«Samhain, Regina di Samhain...e chiamami Harmonia», rispose di getto sorridendo, «Io sono Harmonia».
Lo prese sottobraccio e si fece condurre fuori dal bosco e lanciò un ultimo sguardo prima di buttarsi nella sua nuova vita.



venerdì 19 ottobre 2012

HALLOWEEN


Halloween
La notte distende un velo di stelle,
dalle tombe e dalle cappelle
escono i defunti del passato anno
nei brandelli dei sudari si aggirano
e dei vivi ancora il tocco cercano
Halloween
Antica tradizione, sacralità riverita
e nei secoli mai dimenticata 
tanto meno abbandonata
dal consumismo moderno in una festa da bambini
sei stata trasformata
Halloween
Zucche intagliate, lanterne brillanti, 
feste mascherate e risa contagianti
accompagnano il trascorrer delle ore
dal tramonto all'alba, fino al sorgere del nuovo sole


venerdì 28 settembre 2012

L'INCANTO DI NINA

Nina. Non si poteva dire che Nina, una bimbetta di nove anni, fosse una bellezza. Era un'anonima ragazzina magrolina e dai lineamenti troppo marcati. Gli occhi neri erano infossati nel visetto dalla pelle sempre arrossata dal freddo o da qualche attacco di febbre, e i capelli le cascavano in viso nonostante li legasse continuamente. Da piccola era caduta malamente e quando camminava tendeva a zoppicare appena appena dalla gamba destra. Nina non era nemmeno una bimba sana: per più della metá dell'anno era sempre malata, in modo più o meno grave. Il resto del tempo lo trascorreva alla scuola di danza di Madamoiselle Adelle, esercitandosi con caparbietá e costanza. Vi era stata iscritta da sua madre per cercare di risolvere la zoppia e ben presto per Nina il ballo era diventato il fulcro di ogni suo interesse. Solo danzando la piccola Nina si sentiva in pace con il mondo e dimenticava le prese in giro degli altri bambini e la pietá che percepiva dagli sguardi di certi adulti.

Sua madre, Santine, era una delle lavoranti del grande maestro gioielliere Fabergé. Dal suo paesino in Francia, dove aveva imparato a incastonare le pietre preziose più belle e rare, era stata portata a San Pietroburgo a lavorare per l'ideatore delle meravigliose uova, che tanto piacevano ai reali e ai ricchi del paese e non solo. Nel gelo dell'inverno russo era nata Nina e spesso, negli anni seguenti, la bimba aveva trascorso parecchi pomeriggi, di ritorno dalla scuola di balletto, nella fabbrica in attesa che sua madre terminasse il lungo turno di lavoro.
Quando era sicura che il Maestro non fosse nei paraggi si metteva a danzare, volteggiando armoniosamente tra i tavoli, leggiadra ed eterea come una creatura di fantasia. Al termine faceva la riverenza e riceveva gli applausi delle altre lavoranti.
Era quello che sua madre definiva "L'incanto di Nina", quando volteggiava sulle punte la bimba si trasfigurava, diveniva bellissima con i riccioli sciolti, che in onde sinuose seguivano i movimenti del corpo, le gambe che piroettavano dritte e senza difetti, gli occhi socchiusi assumevano un'espressione estatica. Tutto in lei sprigionava gioia e serenitá, contagiando chi la guardava.
Per le operaie di Fabergé gli intermezzi regalati da Nina sollevavano per pochi minuti lo spirito e speravano per la figlia di Santine un futuro da grande ballerina. Se lo merita, povera creatura coraggiosa, si dicevano pensando alla sua situazione di salute.

Nel 1916, all'inizio di marzo, lo Tsar Nikolaj II mandó a chiamare l'orafo. Gli chiese di creare una delle sue spettacolari uova per la minore delle sue figliole, la Granduchessa Anastasia Nikolaievna Romanova, come dono per la pasqua. Il sovrano di tutte le Russie spiegó che doveva essere qualcosa di mai visto prima. Fabergé, pensieroso, riattraversó San Pietroburgo cercando un'idea che potesse essere originale abbastanza da soddisfare non solo la giovanissima principessa ma soprattutto lo Tsar. A grandi linee sapeva come doveva procedere: un carillon azionato al momento dell'apertura avrebbe diffuso dolci note...e poi ci voleva qualcosa di strabiliante.
Tornó in fabbrica agitato e invece di andare a chiudersi nel suo ufficio decise di passare a vedere come procedeva il lavoro: gli ordini erano molti e la richiesta dello Tsar avrebbe rallentato l'opera. L'uovo per Anastasia aveva la precedenza. Entró nel settore dove lavorava Santine nel bel mezzo di una piroetta di Nina e si fermó abbagliato ad ammirare la grazia della ballerina. Mai gli sembrava di aver veduto bambina più graziosa di quella...e l'idea gli balenó in testa come un fulmine: all'interno del prezioso carillon avrebbe inserito, su un piccolo proscenio di velluto, una riproduzione danzante di Nina. Avrebbe di sicuro appagato la richiesta del monarca. "L'incanto di Nina", si sarebbe chiamato, decise dopo aver ascoltato il racconto di Santine sulla figlia.

Senza porre indugio Fabergé formó una squadra di artigiani per realizzare l'opera: l'esterno sarebbe stato di un intenso viola, lucido, con file di diamanti a decorarne la cinconferenza. In cima avrebbe avuto uno stemma con il monogramma di Anastasia. La chiusura sarebbe stata in oro, con bottoncini di rubino. L'interno, foderato di velluto viola, avrebbe riprodotto l'interno di un teatro e la figuretta di Nina la ballerina si sarebbe esibita al suono di un allegro motivetto tradizionale russo.

Santine era orgogliosa per sua figlia e mentre le voci dell'imminente rivoluzione cominciavano a spargersi anche a San Pietroburgo lei era sempre felice e sorridente. Nina non capiva e proseguiva tra la scuola, il balletto, le ore ad aspettare sua madre in fabbrica e quelle cominciavano ad essere le più divertenti perchè ora aveva il permesso di danzare sempre.
Un abile operaio riprodusse, per un'altezza di circa 12 centimetri, fedelmente l'espressione di pura felicitá di Nina e le movenze del suo delicato corpicino, che adornó con un tutù in miniatura di vaporoso tulle rosa pallido. Tutti erano sicuri che quell'uovo avrebbe avuto un successone.

Giunse l'inizio di marzo del 1917. Scoppió la rivoluzione e il mondo che tutti conoscevano implose, liberando violenza e crudeltá, nel nome del popolo.
Nella fabbrica di Fabergé gli operai stavano completando quello che ormai consideravano il loro capolavoro: le ultime pennellate di smalto, ritocchi alle pietre preziose, il cesello incastonó la firma dell'orafo e anche il piedistallo, su cui la piccola scultura ovoidale fu deposta, venne terminato. Lucidato e impacchettato l'uovo per quella pasqua era pronto per essere consegnato.

Una gelida mattina dell'inizio di marzo del 1917 Fabergé si apprestó a raggiungere il palazzo imperiale per consegnare il dono quando giunse la notizia che lo Tsar aveva abdicato e ufficialmente la monarchia non esisteva più. La famiglia imperiale era imprigionata nel palazzo di Alessandro. La rivoluzione era cominciata, le voci che circolavano erano divenute realtà.
L'orafo comprese che era l'inizio della fine. Scrisse un biglietto e lo affidó alla piccola Nina, dicendole di andare più in fretta che poteva al palazzo e consegnarlo a qualcuno che lo facesse giungere alle mani dell'imperatore Nikolaj. La bimba si involó, ma non giunse mai a destinazione: lungo la via un gruppo di rivoluzionari, alterati dalla vodka, la intravidero sfrecciare e la chiamarono intimandole di fermarsi. Nina non lo fece e quelli spararono per spaventarla, ma un colpo la raggiunse ugualmente e lei cadde neve, esalando un ultimo gelido sospiro.
Santine non sopravvisse alla morte ingiusta di sua figlia, si uccise il giorno del funerale e fu seppellita insieme alla figlia.

Ad ottobre una nuova rivoluzione si accese in ció che restava dell'impero degli tsars e anche Fabergé non fu risparmiato. A dicembre alcuni bolscevichi irruppero nella fabbrica, blocccandolo, e comunicandogli che da quel momento la sua fabbrica sarebbe stata diretta da una commissione di lavoratori.
Tentarono di prendere il pacco, conservato in una vetrinetta, ma alcuni operai si frapposero dicendo che quello era un lavoro personale di Fabergé e come tale non andava toccato. Gli uomini di Lenin se ne andarono berciando ed inneggiando alla rivoluzione e alla nascita di uno stato di equitá per tutti i lavoratori.
L'anno seguente la fabbrica fu nazionalizzata e in estate i Romanov giustiziati. "L'incanto di Nina" era sempre chiuso nel pacco, nessuno l'aveva mai più visto. Fabergé lo prese e lo portó con sé, nel difficile e periglioso viaggio lontano dalla Russia rifugiandosi in Germania e poi passando in Svizzera, nel 1920, insieme al figlio maggiore Eugène. In quei due anni la sua unica compagnia fu proprio quello splendido uovo viola, all'interno del quale si perdeva a fissare per ore la riproduzione di una bambina dai capelli neri che piroettava sulle punte delle sue scarpette da ballo.
Fu col capo reclinato davanti al meraviglioso oggetto che lo trovarono il 24 september 1920.
Nel 1929 Eugène Fabergé riuní le ceneri del padre ponendole all'interno della tomba di sua madre a Cannes. A far compagnia ai due sposi lasció un carillon silenzioso e la ballerina ormai immobile. Anche lei per sempre.

mercoledì 8 agosto 2012

MY INCREDIBLE JOURNEY IN LONDON

Lenta la luce filtra dalle tapparelle accostate, dalla strada non giunge un suono. É un tiepido bacio sulla mia fronte, che lentamente mi ridesta da un sonno invischiato di strani sogni. Mi stiracchio pigramente nel momento in cui la sveglia trilla, la camicia da notte attorcigliata al corpo come i tentacoli di qualche mostro. 
Alla cieca allungo una mano e la spengo, penso di girarmi dall'altra parte e sonnecchiare ancora qualche minuto ma un altro campanello, più forte ed insistente - così insistente che anche la gatta esprime il suo netto dissenso al quel suono assordante e petulante - mi costringe ad alzarmi. 
Butto i piedi oltre il letto e, senza nemmeno infilarmi le pianelle, mi trascino alla porta. Il pavimento è un dolce refrigerio sotto i miei piedi nudi. 
Provo a controllare chi, in quel primo pomeriggio di un giorno di inizio ottobre, si azzarda a disturbarmi ma dall'occhietto dell'uscio non scorgo nulla. Quindi mi risolvo ad aprire. Davanti a me, in camicia da notte e capelli scarmigliati, appare la figura di una donna, che dai tempi dell'infanzia, non vedevo.
"Tu? Tu?", biascico, forse sto ancora sognando, penso stordita. "Avanti muoviti, vestiti a modo. Dobbiamo andare!", replica lei, serafica con quel suo imperturbabile sorriso ad adornarle il viso, identico a quello che emerge nei miei ricordi infantili. "Su, su. É maleducazione far attendere, quando si é stati invitati". Intanto mi ha spinto dentro casa e sta già rovistando nel mio armadio, tirando fuori vestiti, bluse, gonne, biancheria e calze. 
Osservo quell'ammasso di roba senza riconoscere un solo capo del mio non proprio sguarnito guardaroba. Faccio per protestare ma lei mi porge un paio di cose, culotte bianche e una specie di camiciola. Le agita con piglio autoritario davanti al mio naso, intendendo che le devo indossare, senza fare tante storie. Alla fine, sentendomi sempre più come se fossi ancora addormentata, ubbidisco. Mi domando da dove provengano quei vestiti: so per certo di non avere mutande o altra biancheria di colore bianco. Ho una certa idiosincrasia per il colore bianco e lo evito come una malattia. Faccio appena in tempo ad allacciare l'ultimo bottone di madreperla che sotto il naso mi ritrovo una gonna beige e una camiciola azzurrina. Faccio un passo indietro e scuoto la testa. Io quello non lo indosso!, mormoro. La mia vecchia conoscenza sospira, gli abiti finiscono nuovamente nel mucchio e la ricerca riprende frenetica. Pochi secondi e mi passa delle lunghe calze - nere questa volta - e poi un paio di stivaletti alti. Un solo movimento del dito e provvedo ad infilarli, senza emettere un fiato. 
Alla fine dalla matassa disordinata di vestiti trae fuori, una delle sue magie senza dubbio, un vestitino nero, semplice e di stile alquanto antiquato. Questa volta lo indosso senza fare storie e già lei mi attende in ingresso, reggendo il mio cappottino nero e un cappello, che non ricordo di possedere. Me lo calca in testa e mi fa cenno di prendere la borsa, abbandonata sul mobile dove tengo le chiavi.
Ho appena il tempo di dare una mandata e già mi ritrovo in strada, sotto un cielo pallido e senza sole. Non fa né caldo né freddo, il tempo sembra essersi fermato. Cosa che non mi lascia molto perplessa, visto il personaggio con cui mi accompagno. 
Accelero il passo per starle dietro e dopo nemmeno cento metri ci fermiamo, bussa alla porta e veniamo fatte accomodare in una casa dalle pareti di legno nero e tappezzeria a fiori. Ho una netta impressione di déjà-vu.
Di fronte a me si apre un'ampia stanza da pranzo, un bel tavolo rotondo, di legno, è apparecchiato per il tea: tovaglia bianca, fresca di bucato, piattini, chicchere, tazze, zuccheriera, vassoi di dolcetti e tramezzini, una grossa teiera di porcellana cinese finemente dipinta sono sparsi sul piano. Le sedie sono spostate e due donne, che da qualche anno hanno passato la giovinezza, si stringono mentre un vecchio, sghignazza a pochi centimetri dal soffitto. Questa immagine mi convince di nuovo che sto sognando. Non avvengono nel mondo "normale" fatti di questo tipo. Lei non si lascia prendere dal panico e cerca di far scendere il caro congiunto ma senza molto successo. L'ometto continua a sghignazzare e ben presto coinvolge anche me. Mi sento improvvisamente leggera e, inconsapevole, mi ritrovo a fissare l'amica del passato sospesa anche io in aria. «Non cominciare anche tu», brontola lei, «Mi basta già questo vecchio pazzerellone». Mi stringo nelle spalle, non è proprio colpa mia il trovarmi in mezzo a quella situazione strampalata.
Rido, cercando al contempo di mantenermi seria, ma mi è quasi impossibile, i pensieri si fanno confusi e le immagini sfocate. Ricordo appena che sto bevendo una tazza di tea, aromatico e dolce perché sento la testa pesante e non riesco a tenere gli occhi aperti, la conversazione mi sfugge così come non capisco le domande che mi vengono rivolte dall'amica e dallo zio. 
Vorrei scusarmi ma non riesco a parlare.
É un boato che mi desta questa volta, fuori il bagliore è più brillante. La dolce metà russicchia di fianco, incurante del rumore proveniente dall'esterno, e mi tira un calcio alla caviglia, che senza scompormi gli restituisco. Bofonchia un lamento e si gira, dandomi la schiena. Prendo la sveglia e cerco di decifrare che ora siano, mattina o pomeriggio.
I soffici ricordi della visita dell'amica di infanzia permangono nella mia mente, mentre mi risdraio, i capelli sciolti sul cuscino mi sfiorano il collo e comincio ad arrotolarmene una ciocca, da quanto non li taglio?, mi domando pigramente. Quella sensazione che qualcosa non sia a posto che ancora mi aleggia addosso, come se anche questa volta non mi fossi svegliata del tutto. Cerco di non far fuggire le immagini di quanto ho sognato pochi minuti fa. Servirebbe una buona tazza di tea, una sigaretta, leggere una rivista in cucina mentre fuori piove. Pensieri nostalgici i miei.
Mi alzo, regalo qualche grattatina alla gatta, allungata in fondo ai miei piedi. Sistemo la camicia da notte, arrotolata intorno alle gambe e inizio il mio tour. Metto su il bollitore ma poi lo spengo: abbiamo finito il tea, biscotti, pane per i toast. La dispensa è un deserto. Dalla strada giungono rumori ovattati ma non ho tempo di attardarmi.
Torno in camera per vestirmi ed uscire ad acquistare il necessario per la colazione, prendo a casaccio dei vestiti dalla sedia. Quello dorme, fuori potrebbero combattere la terza guerra mondiale e nemmeno se ne accorgerebbe. In bagno mi vesto, noto che gli abiti sono simili a quelli del mio sogno ma non mi soffermo troppo. Probabilmente li ho comprati a qualche mercatino e me ne sono dimenticata. 
Ho poco tempo. Faccio cenno alla gatta di far silenzio ed esco, percorro il piccolo androne senza accendere la luce e in pochi minuti sono nella via. London mi appare nel suo fulgore di inizio autunno, ma nessuno in giro. Deve essere molto presto. Il cielo è bianco con sfumature argentate, non dissimile a quello del mio sogno. 
Le botteghe hanno ancora tutte le serrande abbassate, sono l'unica persona in giro. Mi sento come se fossi rimasta l'ultima persona sull'intero pianeta, poi una donnina mi compare a non più di un paio metri, dirigendosi verso un intrico di viuzze poco distanti. Decido di seguirla e la vedo entrare in un cortile.
Un'arcata mi introduce in un mercatino delle pulci, ricorda quello di Portobello's Road ma in miniatura: non più di una quindicina di bancarelle sparpagliate. Da una prima rapida occhiata sembra che espongano soprattutto oggetti di antiquariato, o modernariato, vintage e oggetti simili. 
Lampade, mobili di piccole dimensioni, soprammobili di vari gusti e proporzioni, qualche abito, scarpe, borsette, persino occhiali. E poi diari, penne e set da scrittoio.
Sto appunto guardando uno di questi, potrebbe essermi utile, dopotutto spesso prendo appunti a penna prima di riversare tutto nel computer e uno, insieme ad una di quella penne stilografiche così vintage, potrebbe fare al caso mio, che l'anziana ambulante mi si fa vicino e mormora: "Ottima scelta, miss, questo è il set più bello che ho...". Afferra una scatolina di legno intarsiato e me la porge. "Abbiamo anche la sua penna stilografica, in ceralacca nera, ideale per una giovane come lei, che mi sembra molto colta e, se posso permettermi, sono certa che ama scrivere. Glielo si legge negli occhi". Mi ritraggo imbarazzata e spaventata a quelle parole ma la vecchia cambia repentinamente fisionomia apparendomi come un mostro: occhi cattivi contornati di nero e pelle grigiastra, sottile e squamata come quella di un rettile, un ghigno sadico e affamato deforma le labbra e intravedo zanne nere grondanti saliva. Sorrido, poco convinta e faccio per allontanarmi ma quella mi insegue, accelero il passo. "Non costa tanto, miss, e son cose fatte per durare", mi grida alle spalle ma non torno indietro. Mi ritrovo all'ingresso, sotto l'immenso arco e mi volto, gli ambulanti hanno lasciato i loro stand e si dirigono verso di me e mi metto a correre per quanto la gonna stretta me lo consente. Giro a casaccio per le viuzze di quella parte del quartiere finché mi rendo conto che son sola...e che mi sono persa.
Prendo la borsa e rovisto, il cellulare mi dice "no service" e maledico tra me e me le case così alte e vicine. Cercare di tornare indietro è impossibile, potrei aver girato in qualunque punto di quel labirinto. L'unica soluzione è proseguire per la via in cui mi trovo e sperare di incontrare una qualche fermata del tube che mi permetta poi di tornare a casa. Al diavolo tea, burro, marmellata e toast. Al momento mi viene più che altro da vomitare per il puzzo di acqua stagnante.
Cammino aguzzando l'orecchio nella speranza di sentire delle voci e poter chiedere indicazioni quando d'un tratto, girando dietro un angolo mi ritrovo davanti un piccolo imbarcadero. La strada declina verso il fiume che ha preso il posto della strada, il pontile in legno scuro che permette di salire su barchette, più simili a scialuppe che a veri e propri battelli, la biglietteria ricavata in uno sgabbiotto di legno anch'esso e dipinto di bianco. Di fianco la sala d'aspetto, dove cinque o sei persone, soprattutto donne, attendono il loro turno. Sopra la casetta bianca spicca un cartello, recante la scritta "linea fluviale cittadina londinese", in pratica un servizio di bus su barca. Nel centro di London? Ma da quando? Penso che sto proprio sognando, è un'avventura quindi. Uno di quei sogni nonsense. Sorrido tra me, se è un sogno sono al sicuro...e non può non essere un sogno, conosco London come le mie tasche e so che non ha mai avuto un servizio fluviale, non nel mezzo di un quartiere residenziale per lo meno.
Entro nella biglietteria affollata e, nella mia enorme borsa, cerco il portamonete ma non so minimamente dove debba andare. Noto una cartina e mi soffermo a leggere: stazioni che non conosco, in una parte della città che mi è sconosciuta (cosa che in un sogno può anche capitare, mi ripeto). Una fermata attira la mia attenzione: Borough Hill. So benissimo che non esiste uno stop con questo nome ma, tra tutti, è quello che mi ispira più fiducia di tutti gli altri. Inoltre non è molto distante rispetto a dove mi trovo ora, una decina di fermate, di conseguenza non deve essere molto lontano rispetto a dove vivo. E poi in un'avventura bisogna affidarsi all'istinto, altrimenti che gusto c'è.
Torno davanti alla bigliettaia e sorrido, timida, sentendo gli occhi degli altri passeggeri addosso a me. "Borough Hill", mormoro e quella mi consegna un talloncino color arancio pallido. "Battello 15, in arrivo tra sei minuti. Fermata 14", mi dice con voce atonale. Sorrido e mi appropinquo ad una signora, sedendomi al suo fianco. 
Il cellulare continua a non dare segni di vita ma almeno posso ascoltare un po' di musica. Seleziono una playlist, sotto lo sguardo incuriosito della sconosciuta. Non mi pare così in là con gli altri da non aver mai visto quel genere di telefonino.
Un improvviso frastuono copre sia le sue parole sia parte del brano che sto ascoltando, ci sporgiamo e dalla finestra scorgiamo un caccia bombardiere che fende quel cielo color piombo ora. Strabuzzo gli occhi e a malapena sento quella che commenta. "Maledetti tedeschi, maledette le loro bombe. Cominciano verso quest'ora a sorvolare la nostra povera città, per scegliere dove bombardare. Maledetti". Cambio canzone e metto via il telefono in borsa. Londra bombardata?, roba da seconda guerra mondiale, roba da film, roba da sogno. La piccola imbarcazione, che mi deve portare nella misteriosa Borough Hill, compare, scendendo lentamente lungo il fiume. Mi alzo per vidimare il biglietto e la mia attenzione è catturata dalla data: febbraio 1941! Sto sognando di essere nella London bombardata dai tedeschi e sto per intraprendere un viaggetto lungo un canale interno alla città, che non dovrebbe esistere nella realtà. Ma che mi dici il mio cervello addormentato? Prima quella strampalata visita ora questo.
Non potendo fare altro mi faccio aiutare dal manovratore, che mi vidima il biglietto e mi fa cenno di prendere posto vicino a lui. Dal labiale interpreto che mi dirà quando sarò giunta a destinazione. Ascolto stranita, quasi in apnea, le canzoni che si alternano e dopo quasi tre quarti d'ora arrivo a Borough Hill. L'uomo mi aiuta a scendere e una volta sulla terra ferma mi dirigo verso la sala d'attesa. Ho bisogno di rimettere a posto le idee. Mi siedo e, con estrema lentezza perché mi sento senza forze, spengo il telefono, non ha senso tenerlo acceso. Lo rimetto nella borsa e mi guardo intorno: non riconosco questo posto e non c'è nessuno cui domandare.
Penso a come tornare a casa, a svegliarmi e riprendere la mia vita quotidiana. Penso e mi sento sempre più stanca, come se stessi affogando in un lago di pece. Sento le palpebre sempre più pesanti mentre il rombo degli aerei si fa più intenso. Il mio cervello è attraversato da pensieri simili a flash: devo andare a casa, i bombardamenti è meglio evitarli, come ci sono finita in questo posto. 
Non riesco ad opporre a questa stanchezza, che rende le membra pesanti e i pensieri confusi, alcuna forza di volontà. Alla fine cedo e reclino la testa su una spalla, scivolando in quello che sembra sonno, appiccicoso e irreale. L'ultimo pensiero cosciente, e non poco sciocco considerata la situazione, è che spero che nessuno mi rubi la borsa. Dopodiché precipito nell'oblio.
"Hey baby, sveglia...è ora di colazione", mi sussurra Lui all'orecchio facendomi sobbalzare e quasi casco dal letto. «Cosa? Che? Dove?». Respiro profondamene riprendendo il controllo. Fuori le nuvole sono nere ma l'aria è tersa e fresca come sempre dopo un temporale e mi accarezza la pelle. «Colazione, mia cara. Non hai fame?» e indica il vassoio con il tea fumante, i toast dorati, la marmellata di fragole. La gatta mi guarda basita mentre si avvicina a quelle delizie decisa ad assaggiarle. Con gentilezza la sposto facendole un grattino sulla capoccia, ma ricevendo un grugnito insoddisfatto in cambio mentre se ne va in cucina a sgranocchiare qualche crocchino.
Mi infilo la canotta sul corpo sudaticcio, scacciando gli strani strascichi di quel sogno. «Sto morendo di fame...stanotte ho fatto un incredibile viaggio in giro per London. Nemmeno te lo puoi immaginare», gli racconto, addentando un toast.

ps: questo racconto non è stato inventato (se non per la parte finale) ma è il resoconto "romanzato" di un sogno che ho fatto qualche notte fa! Spero che vi piaccia 

Goth Night and Sweet Dreams from your Night Angel




giovedì 14 giugno 2012

HEART BEATING

C'é una terra nel cuore dell'Italia, pulsante di vita, di voglia di fare, di ingegno e fantasia.
C'é una terra nel cuore dell'Italy, ma rischia di non esserci piú. Terremoti continui ne stanno minando il suolo e le persone. Eventi continui, snervanti per chi ha dimora nelle centinaia di paesini che si sparpagliano per tutta quella parte della pianura. Un susseguirsi incessante di sismi, che crepano i muri e la sicurezza delle persone.
Centri di una bellezza d'altri tempi rasi al suolo dalla devastazione di una natura non propriamente madrina.
Nonostante tutto gli Emiliani si sono fatti forza, contro tutti gli eventi e contro certi tipici comportamenti (evito di andar oltre per non diventar polemica, che non é la sede) ma dall'altro lato hanno scoperto la solidarietá autentica di cui l'italiano é capace, di sua iniziativa senza per forza seguire le grandi organizzazioni...
Perchè tutti vogliamo che quel piccolo grande cuore del nostro paese torni a battere!

lunedì 11 giugno 2012

LAPIDE


Lapide, corrotta pietra
guardia fai al mio sepolcro.
Fuori, da queste mura eterne, mi aggiro su questa terra, Anima Infetta.
Lapide, hai provato a fermarmi, inutile pietra smangiata dalla consunzione del tempo.
Forse, a te ritornerò, dal mio eterno vagare, dal mio inutile non morire.
Lapide, alla fine, ricorderai - a chi dopo verrà - chi io sia stata

SOUL


You can't deny your soul, the mistery of it is the secret beneath the surface of your normality
As a river, let it flow.
FEEL FREE OF BEING YOURSELF AND PURSUE YOUR NIGHTMARES
The silence is the Answer, the night embraces your mind as well as your body, the loneliness only a state of mind. You can change it.
Just follow your soul and that will be the right path.




lunedì 21 maggio 2012

MY IMMORTAL BELOVED

For you and I time doesn't make sense nor distance. Two bodies, one soul. This is the secret of our pure wild and secret love. There will the moment will be together again, my beloved, and the world will see the majesty of a true immortal love.
We went throughout human epochs, searching in strangers' eyes the sign we finally found each other. By now, the distance which separates us is only few hours, some thousands miles. Nothing more. I lay here, in this lonely bed, dreaming of us whilst the moment of our new encounter is every minute nearer. <3

lunedì 7 maggio 2012

IL PAESE SENZA DONNE

Non se ne accorsero subito, perché era il lunedì successivo ad una importante partita di calcio. L'euforia per la vittoria dei tifosi della squadra iridata, la tristezza mista ad una pseudo depressione sportiva di chi aveva perso, il disinteresse dei non tifosi di quello sport che si preoccupavano di ben altro, distrassero i milioni di abitanti.
In una sorta di trance quella mattina si alzarono, si fecero la doccia, lavarono di denti, vestirono, bevvero milioni di caffè, si incamminarono per andare a scuola, all'università, al bar, al lavoro. Giovani, adulti, bambini, anziani cominciarono il nuovo giorno come se fosse tutto normale. I politici di ogni schieramento quella incredibile mattina si ritrovarono tutti riuniti in parlamento. Un fatto storico che trovò eco su tutti i telegiornali come caso assolutamente unico dall'unificazione del paese qualche secolo prima. Nemmeno loro che avevano in mano le sorti del paese si resero conto di niente.
Troppo intenti ad insultarsi più pesantemente del solito mischiando politica, calcio, insulti alle parenti di vario grado (dalla mamma alla sorella, fino alla bisnonna di quarta generazione senza dimenticare zie e cugine) e ovviamente riferimenti a passate appartenenze partitiche e a passaggi di schieramento degni del miglior trasformista da cabaret. Ci fu chi, in un impeto forse di ilarità, propose di assumere, invece che i soliti uscieri, qualche arbitro, meglio se di boxe. Visto il trascendere delle persone e l'escalation della violenza..
Solo verso l'ora di pranzo qualcuno, un po' più sveglio degli altri o semplicemente un po' più affamato, cominciò a rendersi conto che qualcosa non quadrava. Mancava qualcosa, ma non si riusciva a definire chiaramente cosa fosse.
Fu solo alle 20, quando in milioni erano infine rientrati nelle proprie abitazioni, erano sprofondati sul divano, telecomando saldo in pugno davanti alla televisione, che finalmente la sensazione di smarrimento e di mancanza prese forma ed ebbe una definizione. Una di quelle tanto care a giornalisti televisivi e delle carta stampata. "Tutte le donne del paese, dalle neonate alle più anziane, erano misteriosamente scomparse. Non un esodo di massa - lesse con un certo imbarazzo e non poche perplessità lo speaker di una delle principali reti televisive della nazione - verso altri paesi ma semplicemente una sparizione. Si calcola che oltre la metà della popolazione non sia più presente sul territorio nazionale. Un fatto assolutamente unico nella storia dell'umanità".
Immediatamente vi fu chi nella capitale, nei centri del potere, ordinò riunioni, commissioni, i soliti iter di governi che finivano per risolversi nel nulla. Ci fu chi rimase imbambolato sul suo divano senza riuscire a sapere bene come prendere quella notizia. E ora?
Non mancò anche chi rise e affermò che "finalmente tutto avrebbe funzionato, perché in fondo, chi aveva bisogno di quella parte che nella maggior parte dei casi gravava sulla controparte maschile?". Come sempre capita queste affermazioni così accese ed estreme fecero proseliti in fretta, ma altrettanto velocemente li persero. Chi più chi meno non c'era un solo uomo che non avesse perso almeno una donna. I bambini piangevano perché volevano la mamma, i mariti riempivano i ristoranti orfani della cucina della moglie e allungavano la mano in letti vuoti e freddi a metà rimpiangendo quel calore che fino a poco prima avevano dato così per scontato. 
Il paese, incredibilmente, invece di progredire come era stato auspicato dai più ferventi sostenitori del maschilismo  entrò in una fase recessiva.
Gli scienziati, uomini e donne (che però restavano il minimo indispensabile per capire la situazione e poi se ne tornavano nei loro sicuri paesi di origine dove erano trattate con rispetto per la loro conoscenza e il loro lavoro e non come oggetti del ludibrio e della lussuria di quei poveri uomini senza donne), di mezzo mondo si riversarono in quel paese per cercare di capire cosa potesse essere accaduto.
Spiegazioni scientifiche non ne trovarono per quella strana scomparsa ma le relazioni che consegnarono ai loro capi di governo, che li avevano spediti per valutare la possibilità di inviare delle volontarie per prendere il posto delle donne scomparse. "Gli uomini interrogati hanno dimostrato scarso rispetto per le donne. Anche tra i più giovani la considerazione è che esse siano cameriere, cuoche, amanti, oggetti sessuali, corpi da mettere in mostra senza considerazione per sentimenti, aspettative". Le possibili volontarie furono richiamate e il progetto morì.
Nel paese si cercava una soluzione, visto che il tempo passava e le donne non riapparivano, si presentava il problema dell'invecchiamento della popolazione.
Una situazione presente anche prima, ma almeno qualche bambino nasceva ogni tanto, anche se per lo più tra gli immigrati. Ora niente, perché anche le donne che là avevano trovato una nuova patria erano sparite, insieme a quelle che vi erano nate e cresciute.
Il governo convocò conferenze su conferenze cercando di tranquillizzare il popolo, ma ormai la paura stava prendendo il sopravvento. Bisognava agire
Alla fine il presidente ordinò alle più brillanti menti del paese in campo medico di trovare una soluzione e fu così che questi partorirono l'idea di "modificare" l'attitudine sessuale degli uomini rimasti.
A seguito di quella proposta che molti letteralmente fuggirono, prendendo la via dei paesi dove le donne ancora c'erano chiedendo asilo. Una strana emigrazione, che sembrava destinata a non avere fine, tanto che qualche capo di governo minacciò di chiudere le frontiere mentre i più malleabili facevano firmare a chi chiedeva ospitalità di trattare in modo diverso le donne. Nuove leggi per migliorare la condizione delle donne, per garantire sicurezza del posto di lavoro, l'accesso al lavoro, furono emanate per poter evitare che quella catastrofe potesse verificarsi anche da loro.
Il paese che maggiormente aveva fatto del machismo e del maschilismo la propria bandiera relegando a ruolo di comparsa la donna si trovava sull'orlo di un cambio epocale: tutti sarebbero diventati ibridi, né maschi né femmine ma all'occorrenza un po' di entrambi nella speranza che a forza di modificazioni prima o poi sarebbero riusciti a tirar fuori una donna con tutti i connotati al posto giusto. Ci sarebbe stata, ovviamente, una non tanto ristretta cerchia che non avrebbe subito questo trattamento per garantire la fornitura del materiale genetico maschile necessario ad un futuro concepimento alla vecchia maniera. In questo modo gli esperti erano convinti di poter arrivare ad un riequilibrio maschile/femminile nel giro di poche generazioni. 
Gli scettici non mancavano ma la disperazione serpeggiava tra i più e alla fine anche i più reticenti furono costretti ad accettare. Il giorno del referendum, per la prima volta da anni, vi fu un'affluenza alle urne del cento per cento.
E vinsero i favorevoli a quel delirio genetico, quel giorno non mancarono tafferugli e proteste. Chi vi partecipò subì una condanna esemplare, almeno dal punto di vista di chi la pronunciò: tutti sarebbero stati sottoposti inderogabilmente al trattamento.
Con un'organizzazione sconosciuta fino a pochi mesi prima furono creati uffici appositi dove bisognava registrarsi ed essere visitati, per sapere quale sarebbe stato il proprio destino: una specie di fuco ermafrodita oppure un uomo sano con tutti gli attributi.
A finire sotto la scure della modificazione furono soprattutto i più giovani, i bambini che ancora non avevano un'idea precisa della propria identità. E si procedette a questo scempio umano, estremo tentativo di trovare una soluzione.
A gruppi d'età venivano imbottiti di estrogeni e di ogni sostanza che avrebbe potuto portare a qualcosa di simile al cambio di sesso, con risultati spesso aberranti. Gli ospedali si riempirono di disperati che soffrivano, la mentalità maschilista che discendeva da secoli di educazione si scontrava con la nuova fisicità dei soggetti.
I suicidi si moltiplicarono, e alla fine - dopo due anni di sperimentazioni e oltre il 70% di fallimento - fu abbandonato il progetto. Bisognava trovare una soluzione e il nuovo governo tornò a bussare alle porte dei paesi vicini chiedendo che si riconsiderasse l'opzione delle volontarie.
Ma la risposta fu un secco rifiuto: nessuno voleva mettere nelle mani di uomini che si ammazzavano a vicenda, chi era ancora totalmente uomo non lesinava di perseguitare e poi uccidere, mutilare chi era stato reso un po' troppo effeminato per i loro gusti. Veri e propri tribunali illegali si formarono nei quartieri, perseguitando questi disgraziati, che non avevano protezione dalla legge dello stato e tanto meno dalle forze dell'ordine, in quelle poche occasioni in cui vi si rivolgevano. Dalla televisione la comunicazione di omicidi e persecuzioni raggiunsero livelli da bollettini di guerra. Le carceri e gli ospedali si riempirono, le strade e gli uffici si svuotarono. L'economia andò sempre peggio. Il nuovo governo che si era insediato con la promessa di risolvere la situazione, formato da reduci di precedenti compagini, che ben si erano adeguati a quella nuova società, dimostrò in pochi mesi tutta la sua inutilità.
In quella società non era cambiato nulla, le donne erano state solo sostituite da surrogati più o meno riusciti, la mentalità era la medesima e chi stava al potere aveva dimostrato pienamente la propria incapacità a gestire quella situazione con leggi adeguate.
Il paese fu condannato e i pochi che alla fine sopravvissero al dilagare della pazzia e dell'escalation di violenza si ridusse ad uno stato semi selvatico, sopravvivendo.
Senza ricambio generazionale in meno di cinquant'anni quella nazione che era stata culla di cultura e di civiltà divenne una landa desolata e quasi totalmente disabitata, ricca solo delle vestigia di un glorioso passato in cui le donne era stato paragonate a dee e ad angeli.

venerdì 4 maggio 2012

CASO 459034

Luce bianca, al neon, fredda. Illumina questo spazio altrettanto candido. Pareti color latte, mobili di metallo opaco o tinteggiati dello stesso colore delle mura. Persino con la vernice e l'intonaco si intuisce che sono mura antiche e fatte per durare, spesse e pesanti. Come l'aria che c'é, quasi ti toglie il respiro.
La ragazzina pensa questo, nella manciata di minuti in cui ha il tempo di osservare stanza. Non bada ai fantasmi pallidi che le danzano attorno in un'andirivieni costante all'interno di quell'edificio sconosciuto. Nemmeno si accorge degli altri, le urla non le giungono perché é sorda, quindi continua a sorridere timidamente. Per capire le persone guarda le labbra, ha imparato da piccola ad interpretare i movimenti e a correlarli alle parole. Per esprimersi scribacchia su una lavagnetta, lettere storte ed imprecise, sua mamma pazientemente gliel'ha insegnato dopo che la scuola elementare del quartiere di Monaco dove è cresciuta l'ha rifiutata perché non udente. Adesso non l'ha più, la sua lavagnetta, il suo contatto con quel mondo che le appare così strano e misterioso. Gliel'ha portata via, appena arrivata con l'autobus grigio, una signora vestita di bianco, che le ricorda la zia Magda: viso tirato e arcigno. Antipatica, le aveva tirato una sberla cattiva quando aveva tentato, allungando le mani, di riprendersi il suo tesoro color ebano e i gessetti bianchi. Sul viso bianco ancora si intravede il rossore causato dal ceffone, ma lei non ha pianto. Perché non vuol farsi veder piangere da quelle persone sconosciute, sebbene la spaventino.
É arrivata da poco più di un'ora in questo posto. La mamma le ha detto che é per il suo bene, che qui la cureranno e starà bene. Non capisce. lei già sta bene, é sana. Corre e gioca. Ride sempre. Nel suo mondo silenzioso, é felice. Perché allora deve stare là, dove stanno le persone malate (li ha intravisti mentre passava nel corridoio grigiastro che dal grande e bell'ingresso la ha portata in questa stanza bianca e fredda), quelle che non si alzano dal letto?. 
L'hanno spinta al centro di quello che le appare del tutto simile all'ambulatorio del dottor Meck. Resta lì, immobile e un po' spaventata, davanti ad un uomo. Grande, grosso e minaccioso, mani dalle dita grasse si muovono, regge una penna e quasi scompare in mezzo a quel grasso. Le sorride ma non è dolce, appare più come un ghigno malvagio e il resto del viso tondo le appare come un grugno di porco. Nella casa di campagna del nonno li ha visti tante volte. Lo guarda, le fa schifo ma non ha il coraggio di distogliere lo sguardo: qualcosa in quegli occhi azzurri chiari e gelidi le fa capire che non deve fare niente. Il minimo gesto sarebbe punito, come lo schiaffo ricevuto quando ha provato a riprendersi la sua lavagnetta.
Cerca di stare ferma, le mani strette dietro la schiena sfiorano appena il fiocco del suo abito. É quello della festa, la mamma gliel'ha fatto indossare perché facesse una buona impressione al suo ingresso nella struttura. É azzurro e non le piace, ma è quello più bello che possiede e mamma non ha voluto sentire ragioni. Ha le maniche corte, che terminano con un pizzo rigido, che le provoca sempre prurito. Anche adesso ma non ha il coraggio di grattarsi. 
Sa che non dovrebbe trovarsi in quel posto per malati: è sana e sta bene, il rossore sulle braccia é dato solo dal tessuto che sfrega sulla sua pelle bianca.
Non é stupida, come qualcuno l'ha definita più volte, solo sorda e non del tutto muta. Riesce ad emettere qualche suono, dice mamma con orgoglio, non proprio parole complete ma abbastanza si esprime in modo abbastanza chiaro perché chi sia abituato a sentirla riesca a capire ciò che intende esprimere. Vuole andare a casa, giocare in giardino con Dieter, il figlio del maggiordomo. Non le piace quel posto, non le piace quel maiale su due gambe. Ora si è alzato e le si è avvicinato, la tocca, la rigira e parla senza guardarla in faccia. Come se non fosse lì. E allora Anneke si agita, si divincola. Urla! In realtà sono poco più che squittii acuti ma per lei sono grida. Altissime e piene di dolore, frustrazione e odio.
Non riesce a capire cosa ci faccia in quel luogo sconosciuto. Ignora che si tratta di un moderno presidio medico, dove sono applicate le più moderne tecniche terapeutiche per l'assistenza esperta dei bambini con malattie ereditarie, è stato illustrato con dovizia di particolari sui giornali locali. Il luogo è divenuto rinomato in tutta quella parte del paese tanto per i metodi all'avanguardia quanto per l'elevato numero di decessi.
Il Doktor Herbert Finchermann, direttore del nuovissimo ed attrezzatissimo reparto dell’ospedale, blocca facilmente la piccola Anneke Heider, dodici anni vissuti nel silenzio, poco più che analfabeta e quindi incapace, una volta cresciuta, di poter lavorare, secondo i canoni imposti dal Furher, niente più che un peso per la società ariana. Improduttiva, come è stata definita dal medico di famiglia, che ha provveduto a segnalare il suo caso alle autorità competenti dopo l’ultimo controllo. 
"É troppo giovane per la sterilizzazione e non c'è in ogni modo tempo per aspettare il corso della natura. Per il resto non sembra affetta da altre malattie visibili ad un primo superficiale esame, ma non si può escludere nulla. Il provenire da una famiglia benestante assicura in ogni modo una certa educazione da parte della paziente 459034, che ha dimostrato di sapersi comportare con rispetto, sebbene il suo handicap renda pressoché impossibile avere una normale forma di comunicazione con lei. Nonostante la buona educazione ricevuta ha tenuto un comportamento durante la visita che è possibile definire come violento e antisociale. Questa reazione inconsulta e del tutto inadeguata Ci porta a supporre un primo cedimento o una prima forma di malattia mentale. É quindi necessario internarla in questa struttura e sottoporla quanto prima al trattamento", avrebbe scritto Finchermann compilando la cartella della bimba dopo il loro breve e poco felice incontro. 
Così vuole la lettera firmata da Hitler, che ha valore di legge per loro, pensava lo psichiatra, e magari potrebbe uscircene una bella promozione e un avanzamento di carriera. 
"Krankenschwester (infermiera) Zalinder la porti alla camerata 9", ringhiò il medico psichiatra quando Anneke tentò di liberarsi, mordendolo. "É in preda ad una crisi violenta, provveda a sedarla e poi la leghi al letto. Per la sua incolumitá...".
Frau Zalinder scattò in avanti afferrando la ragazzina per le braccia e trascinandola via, mentre la poverina si dimena e squittisce rabbiosa, le trecce in cui i suoi capelli biondi sono legati si sciolgono in onde scomposte e gli occhi verdi saettano da una parte all'altra della stanza, cercando una via di fuga. Il suo ritardo mentale é evidente, qualunque altro bambino del Reich non si comporterebbe in quel modo tanto selvaggio e dissennato, pensa la donna, ed è un vero peccato perché fisicamente rispecchia perfettamente l'ideale ariano indicato da Hitler.
Prima che la donna e la bambina scompaiano nel corridoio il doktor Finchermann si rivolge di nuovo all'infermiera "Mi mandi Rudy per favore, per farmi medicare. Chissà con che malattia potrebbe avermi contagiato quella piccola pazza". 
Adeline Zalinder scatta sull'attenti ed esce, alla prima collega che incontra ripete l'ordine impartitole dal primario. Prima di portarla alla camerata assegnatale, la nove, Anneke è fatta entrare in un altro ambulatorio, privo di finester e fornito solo di due porte. L’arredamento è composto di armadietti di metallo satinato, disposti ordinatamente sulla parete di destra.
La Zalinder fa cenno alla giovanetta di spogliarsi completamente quindi l’affida all’infermiera seduta alla scrivania quindi esce dopo aver scambiato poche parole con la seconda donna. Quella si alza e prepara una bilancia su cui ordina ad Anneke di salire, segna su un foglio il peso. Misura la sua altezza e vi scrive il risultato, infine prende una moderna macchina fotografica già caricata con la pellicola. Sistema una sedia al centro della stanza e ordina, con gesti secchi e perentori, ad Anneke di salirvi. Procede a scattare una decina di fotografie, intere e particolari del viso, mani, gambe, poi ripone la macchina. Mentre l'infermiera è voltata la ragazzina scende dalla sedia e resta lì. attendendo di conoscere il suo destino. Nuda, fuori tira vento perché è autunno inoltrato, ha freddo ma cerca di non tremare. Vorrebbe il suo cappotto ma gliel'hanno preso, insieme alla lavagna e ai gessetti, ai suoi vestiti e alle scarpe di vernice lucida bianca. Ha appena intravisto che son stati riposti in uno degli armadietti ma non sa quale: son tutti uguali. Cerca di coprirsi come può con le braccia magre.
Frau Zalinder infine si ripresenta alla nuova paziente e le porge una camicia da notte usata ed usurata, ma che sembra per lo meno pulita. Le fa cenno di indossarla e poi la spinge ancora. L'indumento le è un po' piccolo e stretto, arrivandole a stento alle cosce. "Schnell, schnell", disse con voce cattiva l'infermiera, sospingendola verso la seconda porta, di acciaio temperato e chiusa da un pesante chiavistello. La donna prende una grossa chiave dalla tasca dell'uniforme e la gira, la serratura scatta con un rumoroso clang, che rimbomba. Anneke percepisce le vibrazioni prodotte e fa un passo indietro, finendo addosso alla sua accompagnatrice, che nuovamente le dà uno spintone, quasi facendola cadere. La bimba pensa che non assomiglia per niente all'infermiera Greta, che lavora con il doktor Mainier.
Pochi minuti dopo l'infermiera e la bambina si ritrovano in un ambiente ben illuminato e gioioso per le risate dei giovani ricoverati. Lo stanzone misura una quindicina di metri di lunghezza e poco meno di dieci di larghezza, con grandi finestre che fanno entrare luce e i raggi del sole autunnale. Ospita quattordici bambini tra i sei e i quindici anni d’età.
Zalinder indica ad Anneke un lettuccio, in mezzo ad una figuretta che sembra una bambina, magrissima e dal visetto emaciato. Sembra che non mangi da giorni. Anneke le sorride ma quella si volta dall'altra parte e si abbraccia le ginocchia nascondendovi la faccia. L'altro letto è occupato da un bambino, di non pochi anni più giovane di Anneke, ha il capo bendato e sembra stia dormendo. Anche lui è magrissimo. 
Oltre all'infermiera che l'ha accompagnata nella camerata, la ragazzina nota che ve sono altre tre e un paio di uomini, anche loro con la divisa bianca dell'ospedale. Si aggirano per i letti osservando i bimbi sdraiati e segnando qualcosa sulle cartelle apposte alla testiera. In quel momento la Krankenschwester Zalinder sta riempiendo un modulo appeso al suo letto, riportando i dati ottenuti poco prima. In cima affranca una sua foto, quella che sua madre aveva affidato ad uno degli inservienti dell'autobus quando è partita. É del mese precedente e gliel'ha scattata suo padre in occasione di una festa in casa, sorride ed è felice.
Si mette a letto pur sentendosi benissimo, ma ha già visto all'opera il personale e non vuole essere punita.
Vorrebbe saper leggere meglio di quello che sa e che le permette di distinguere le lettere quando scrive sulla sua lavagna per poter sapere cosa è scritto sulla cartella in fondo al suo letto, si allunga e fa per afferrarla ma un violento spintone di uno degli infermieri la rimanda sul cuscino. L'uomo le urla contro, la faccia arrossata di rabbia e un dito puntato al suo viso. Anneke scoppia in lacrime, non per le brutte parole che quello le ha rivolto, ma per l'impotenza in cui sta affondando e per la nostalgia di casa e della mamma, del babbo e dei nonni, di Dieter. Lei sta bene, non deve stare lì, si ripete di continuo. Invece è chiusa in quel posto bianco, freddo e dove tutti sono seri e maneschi. Quando parlano non la guardano e lei non riesce a capire cosa vogliono. Quindi viene punita.
Si gira nel letto coprendosi interamente, solo una ciocca bionda spunta appena dall'orlo. Piange in silenzio, come ha imparato a fare da piccola, per non far preoccupare la mamma quando si faceva male in giardino. Adesso il suo silenzio è una difesa da quel mondo esterno estraneo e terribile. Sa solo che vuole tornare a casa. 
La terapia, come infine una paziente giovane infermiera le ha spiegato portandole la cena - un leggerissimo brodo quasi insapore - comincia immediatamente e di questa fa parte anche una dieta ferrea, che però le permetterà di stare bene lo stesso. 
Molti dei bambini, nota, nemmeno riescono a terminare la loro misera tazza e alcuni la rifiutano proprio. Un paio di giorni dopo, debole e con la mente offuscata dai morsi della fame, nota che un paio di loro non si sono più svegliati e vengono portati via velocemente. Per tanti che continuano a dormire altri ne arrivano e prendono il loro posto.
Una mattina tocca alla sua vicina di letto, il pallore della pelle è diventato livido e grigio, come le pareti del corridoio che ha visto quando è arrivata e non si muove più. Squittisce dalla paura e si alza per provare a svegliarla, scuotendola ma senza riuscirci. Urla e si agita, allora arriva l'infermiera Zalinder seguita da altri due, vestiti di verde e non di bianco. Sono quelli che portano via i bambini che non si svegliano.
La Zalinder l'afferra per un braccio e la strattona, costringendola a rimettersi a letto, prende una siringa e le fa un'iniezione. Anneke si sente immediatamente stordita e cade in un torpore chimico che le provoca gli incubi. Gli altri piccoli pazienti, troppo deboli per far qualcosa e troppo spaventati per anche solo pensare di provarci restano immobili nei loro lettini. Osservano e tacciono, forse già rassegnati e consapevoli del loro destino.
Velocemente la morticina vien trasportata via, chiusa alla bell'e meglio nelle stesse lenzuola dove ha dormito nelle ultime due settimane. É una di quelle che ha resistito di più Evelina Kumbronich, di anni 10. La sua unica colpa essere una piccola orfana zingara.
Quando si ridesta, dolorante e incapace di pensare correttamente Anneke vede due nuove facce nei letti di fianco a lei, a destra un bambino dai capelli rossi e senza alcuni denti e a sinistra un altro maschietto dalla pelle olivastra e i capelli castani. Prova a salutarli ma si accorge che è legata, sulle labbra di due infermiere che stanno conversando davanti al suo letto riesce a capire che il suo destino è segnato: è pericolosa per se stessa e gli altri. Sente che le vien da piangere ma non riesce, ha consumato tutte le sue lacrime nei giorni precedenti, una per ogni cadaverino portato via nelle lenzuola.
Alla sera ancora il brodo, sempre più chiaro, sempre più insapore. Lo rifiuta. Lo stomaco si ribella per ogni goccia di liquido, le viene da vomitare, sputa bave e brodo sul letto e vien colpita in viso per aver sporcato. "Resterai nel tuo sporco, schifosa", interpreta dalle labbra dell'infermiera Hulrike, la più severa tra quelle che girano nello stanzone..
Non ribatte, come faceva all'inizio, perché non vuole che le facciano l'iniezione. Si limita ad appoggiarsi al cuscino e a chiudere gli occhi. Vorrebbe anche lei non svegliarsi più.
É Amanda Kupfler ad accorgersi del corpicino senza vita di Anneke Heider all'inizio del suo turno, tre giorni dopo da quando la bimba aveva vomitato l’ultima razione di brodo. Il piccolo mucchietto d'ossa giace tra le lenzuola bianche ormai grigio e al principio della putrefazione. Chiama immediatamente gli addetti allo smaltimento per farla portare via. Mentre la portano via recita una breve preghiera per quell'anima infelice che ha trovato infine la pace. Così pensa la giovane infermiera, convinta della bontà del programma T4 come tutti nell’ospedale, mentre torna a dedicarsi ai piccoli ospiti affidati alle sue cure. 

1946 - testimonianza resa al secondo processo di Norimberga da Manfred Herbert Bonsenn riferendosi al caso 459034, solo un numero tra le migliaia di bambini ed adulti finiti nella rete dell’ «Action T4»