lunedì 5 dicembre 2011

«GLI ELFI DI BABBO NATALE»

La sveglia suonò nel buio del primo piano dell'orfanotrofio, gestito da qualche anno dalla signora Erika Svesson, una vedova di origine lappone e molto conosciuta in quella parte del paese. Nell'unica camerata rimasta cominciarono a sentirsi i tipici rumori dei bambini che si svegliano: fuori dalle finestre la lunga notte polare brillava in tutta la sua glaciale oscurità di milioni di stelline.
Con un tonfo secco la porta si aprì ed un fievole fascio di luce, proveniente da un moccolo di candela, penetrò appena nel buio pesto. "Avanti! Muovetevi!!", digrignò la voce fredda ed arcigna della direttrice, che subito dopo se ne andò sbattendo l'uscio.
A coppie i bimbi, ormai ben desti ed infreddoliti, uscirono dai giacigli. A piedi scalzi e saltellando per il gelo si incamminarono verso il bagno: velocemente si lavarono i visetti serici ed arrossati dal freddo intenso quindi tornarono nello stanzone e si vestirono. Gli abiti erano vecchi e rappezzati, ma in modo tale da non sembrarlo, come pure gli scarponcini.
Silenziosamente uscirono dal dormitorio e, nell'oscurità appena rischiarata dalle stelle, camminarono lungo il corridoio. Appoggiando le manine al muro percorsero i pochi metri che li separavano dallo scalone. Scesero e raggiunsero il refettorio, si sedettero ai lunghi tavoli di legno grezzo e, dopo aver recitato una specie di preghiera di ringraziamento per i loro benefattori, bevvero - nel più assoluto silenzio - la tiepida minestra di cavolo, che veniva servita loro tre volte al dì. Era una brodaglia densa e scolorita, dall'acre odore di rancido e i più grandicelli - che dovevano aiutare in cucina ogni giorno - sapeva che era preparata con i torsoli dei cavoli avanzati dalle ricche famiglie del vicinato e rivenduti per pochi soldi alla loro cuoca, che si spartiva la differenza con la signora Svesson.
Fuori il paesaggio era imbiancato da una morbida coltre di neve. Era il venti dicembre, mancava meno di una settimana a natale. Anche se per i sessanta bambini era una data del calendario che ben poco senso aveva.
Stavano finendo di bere quando la direttrice, avvolta in un mantello di argentea pelliccia folta e profumata, entrò. "Avanti! É ora di muoversi, piccole pesti! E non osate disubbidire!".
Impauriti e già sfiniti dal freddo e dalla fame i giovanissimi ospiti della struttura di accoglienza per bambini rimasti senza genitori, che superavano a stento i dieci anni i più grandi e arrivavano a malapena ai 4 i più piccoli, si alzarono e, senza proferire parola, si misero in fila alle spalle della donna. Uscirono dal refettorio e raggiunsero l'ingresso, dove ebbero appena il tempo di indossare i vecchi cappottini, poi uscirono.
A piedi, faticosamente perché affondavano nello spesso strato nevoso fino quasi alla cintola, percorsero il chilometro e mezzo che separava il brefotrofio dal laboratorio di giocattoli, dove lavoravano per guadagnare i soldi per il loro mantenimento.
Come ogni mattina furono accolti dal proprietario della piccola fabbrica artigianale. Si trattava di un rubicondo uomo anziano, sempre vestito di uno sgargiante rosso. Fin dal primo giorno in cui erano stati assunti aveva voluto farsi chiamare Babbo Natale, sebbene il suo nome fosse Nicolas.
"Benvenuti miei piccoli elfi laboriosi", disse sfregandosi le grasse mani, mentre i suoi occhietti porcini e cattivi brillavano. Li accompagnò nel laboratorio: una stanza di legno chiaro dove troneggiavano i macchinari di intaglio, i tavoli per la rifinitura ed altri attrezzi strani. "Al lavoro elfi", ripeté chiudendosi la porta alle spalle ed accompagnando la signora Erika nel salotto, riscaldato da un allegro fuoco, e dove si sarebbero ingozzati di dolci e cioccolata calda.
I bimbi si infilarono i grembiuli e si misero ai loro posti, mettendosi al lavoro. Avevano ordine di completare un intero vagone, ovvero circa 500 pezzi, di orsacchiotti ed altri animali di pezza.
"Ma da quanto siamo qui?", chiese ad un certo punto Bebe, una ragazzina così bionda da sembrare imbiancata prematuramente, che presto sarebbe diventata una donna ed sapeva già il suo destino quale sarebbe stato una volta mandata via dalla casa di "Mama" Svesson. "Almeno quattro ore", bofonchiò in risposta Marten, che aveva un debole per Bebe. "Io ho fame", disse a quel punto la piccola Lika, scendendo dallo sgabello ed avvicinandosi a Bebe, allungando le braccine per esser presa in braccio. "Torna a posto", sibilò Marten ma proprio in quel momento la porta si aprì e Babbo Natale, seguito dalla direttrice, fece il suo ingresso. Immediatamente il suo viso giocoso e bonario si rabbuiò. "Piccoli scansafatiche! É così che lavorate? Ricordatevi che tratterrò un centesimo dalle vostre paghe per ogni animale di pezza non pronto. Tra quattro giorni dovrò partire per consegnarli ai bambini buoni del mondo, bambini con genitori, che possono pagare soldi veri per i regali di Babbo Natale". Rise volgarmente e poi si avvicinò a Bebe, strappò Lika dalle sue braccia e la bimba scoppiò in lacrime. Bebe fece per riprenderla ma, con una manata, il vecchio industriale la colpì facendola cadere. Marten osservava la scena seduto sullo sgabello davanti al tavolo, sentiva la rabbia esplodergli in corpo.
Senza quasi rendersene conto sollevò un martello dal piano di lavoro e scattò in avanti, lo scaricò con tutta la forza della sua disperazione addosso a Babbo Natale. L'omone cadde, picchiando il sederone grasso e la testa. Il ragazzino colpì e colpì, ancora e ancora. Sentiva i lamenti dell'uomo, le sue implorazioni a smettere, le sue promesse fasulle di aumenti di soldi e meno ore di lavoro.
Improvvisamente anche gli altri si unirono a lui, lasciando appena il tempo a Bebe di recuperare Lika. Alcuni bimbi si avventarono anche su "Mama" Erika, colpendola ripetutamente con i piccoli utensili di legno e metallo. La carneficina durò poche ore e infine gli "elfi" si ritirarono, lasciando i corpi martoriati e sanguinanti ad agonizzare in terra.
In silenzio fecero cadere gli attrezzi ed uscirono, prima di abbandonare il laboratorio Bebe prese l'orsetto più bello e con il fiocco più grande e lo diede a Lika stringendosela al petto. Si recarono nel grande salotto, dove il fuoco ancora riscaldava l'ambiente rendendolo confortevole. Si rifocillarono con i deliziosi biscotti avanzati e con la cioccolata calda. "Adesso riposiamoci qui al caldo - disse Bebe accomodandosi vicino a Marten e a Lika -. Domani ci preoccuperemo di quei due. Non gli permetteremo di trattarci in quel brutto modo".

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